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lunedì 12 dicembre 2022

Ichi the Killer (2001) di Takashi Miike

 

Orgia visionaria di sangue e violenza, deliziosamente inverosimile ed efferato fino all’estremo, Ichi the Killer è tra le opere più famose e anomale di Takashi Miike, prolifico autore che abbiamo conosciuto per la versatilità e disinvoltura con cui è in grado di spaziare dal genere storico (13 Assassini) ai drammi familiari più bizzarri (Visitor Q).

 

 
Il film ci presenta le vicende di Kakihara, sicario e luogotenente (piuttosto pittoresco) al soldo di Anjo, padrino di una gang di yakuza. Kakihara ha, tra le altre stranezze, la caratteristica di essere mentalmente disturbato. L’irragionevolezza, anzi la demenza di molte delle sue mosse, rivelano infatti un unico movente: il masochismo, elevato a metodo filosofico oltre che sessuale. “Non c’è amore nella tua brutalità” rimprovera al membro di una gang rivale che lo sta picchiando selvaggiamente. Kakihara, nel corso del film, si lamenta spesso di non trovare nemici all’altezza del suo autolesionismo. Parallelamente, e intrecciata alle bizzarre vicissitudini di Kakihara, seguiamo la storia di Ichi, adolescente timido e problematico dalla personalità pericolosamente scissa. Nonostante l’aspetto dimesso e impacciato, infatti, Ichi è colto spesso da accessi transitori ma incontrollabili di ferocia (a cui si abbandona sempre, peraltro, con un’improbabile tuta da supereroe). Manovrato dal cinico Jiji – uno Shinya Tsukamoto in ottima forma (come sempre) – Ichi rappresenta il contraltare, il negativo di Kakihara: è tanto brutalmente sadico quanto quest’ultimo è masochista.
 

A visione ultimata, un’impressione s’impone immediatamente: la violenza parossistica di Ichi the Killer sembra fare, per l’intera durata del film, da bizzarro surrogato del sesso, tanto più in quanto si presenta accompagnata dalle parafilie più grottesche. In questo trionfo di ferocia e di torture, la crudeltà – di cui sono le donne a essere spesso oggetto – si dispiega come una dichiarazione di impotenza. Disorientati dall’incapacità di stabilire rapporti umani secondo coordinate naturali, i personaggi di Ichi the Killer tentano di compensare l’impoverimento, l’inconsistenza biologica da cui sembrano affetti (somigliano a cartoni animati che hanno assunto una plasticità fragile e provvisoria) in un crescendo di violenza meccanico e disumanizzato, un climax di sangue e morte – tra le frattaglie che non cessano di vorticare per l’intera durata del film – che tenta di mimare pateticamente e miseramente quello dell’orgasmo.

Ichi the Killer, nella sua estrema stranezza e nella sua morbosa inventiva, riesce a individuare – meglio di molti film più “nobili” – la sorgente prima dell’arte. Il rifiuto rabbioso dell’ordine naturale, da cui nel corso della storia ci si è allontanati casualmente o per esigenza imposta, ha condotto a configurazioni artificiali – tra cui quelle artistiche, appunto – in sostituzione delle forme già esistenti, ovvero della vita regolata dagli istinti. Ogni opera riuscita porta in sé il riflesso di questo primitivo assillo, e testimonia eloquentemente la parentela fra gli antichi sacrifici e ogni forma d’arte.

Insomma: tra innesti di falsi ricordi, torture ingegnose, yakuza pervertiti e macellazioni su vasta scala, Ichi the killer presenta un campionario umano tanto eterogeneo quanto strambo. Il film raggiunge la massima potenza espressiva proprio nei passaggi più grotteschi, grazie alla consumata abilità stilistica e alla sapienza inventiva di Miike.


M.L.

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