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L'arcipelago.
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Povere creature elabora la forza espressiva delle immagini e indaga il legame tra coscienza umana e la relativa natura organica attraverso la storia di Bella Baxter e del suo percorso di formazione dopo un intervento chirurgico che oggi non è più fantascienza: a Victoria Blessington – trovata morente in seguito ad un tentato suicidio – viene trapiantato il cervello del figlio che portava in grembo. Negli ultimi anni il controllo del sistema neurologico è diventata l’ultima frontiera della ricerca scientifica sia a livello medico, per il primo caso di trapianto totale eseguito su un cadavere dall’ekip del Prof. Canavero presso l’università medica di Harbin, ma anche attraverso il progetto Neuralink di Elon Musk allo scopo di curare le più note malattie neurologiche... uno dei pochi scopi a noi conosciuti.
Inserendo l’opera di Lanthimos in questo contesto ci accorgiamo di come Povere creature ci parli
della contemporaneità, un’epoca in cui il controllo sulla vita biologica delle persone è tornato ad
essere una priorità del potere... non è un caso che il co-protagonista si chiami Godwin God Baxter
che riesce a rigenerare la vita dal punto di vista biologico attraverso un’azione che porterà il
personaggio di Bella alla totale perdita della sua precendente identità riuscendo anche a indagare
la natura del mito.
Tuttavia la capacità di ri-generare la vita si ritorce contro il suo stesso creatore in quanto, proprio
creatore in quanto God non manifesta una volontà chiara e credibile al punto da ritenere
empiricamente corretto l’esser stato una cavia da laboratorio di suo padre durante l’infanzia.
Gli dei che animano il mito sono portatori di una forte personalità e il loro mondo, separato da
quello umano, ne è molto somigliante.
Il percorso che separa la nascita dalla piena affermazione dell’individuo avviene attraverso l’incontro con la natura mutevole del mondo ed è qui che divino ed umano si incontrano.
Se il divino in God si infrange contro l’assenza di apertura all’impermanenza del mondo, Bella trova nelsesso la chiave per scoprire l’energia vitale alla base della stessa creazione e l’affermazione di sé Frankestein di Mary Shelley, la creatura sente la necessità di abbandonare il proprio come ente politico radicato nella realtà del momento in cui scopre la sofferenza umana diventando socialista, con connotazioni profonde a tal punto da ricordare l’incontro con le quattro sofferenze della letteratura buddista.
La natura politica del personaggio di Bella fin qui descritta si radicalizza nel momento in cui viene a conoscenza della sua storia precedente fatta di estremi maltrattamenti a cui oppone il principio della piena autodeterminazione dell’individuo. Lanthimos prende le distanze dalla forma epistolare del romanzo di Alansdair Gray che focalizza l’attenzione sul presente e anche quando il passato riappare non riesce a lasciare segni significativi. |
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Se Povere creature si apre a una lettura politica, la scelta ricorrente del grandangolo appare particolarmente efficace in quanto mostra il rapporto che viene a crearsi tra il personaggio, lo spazio di riferimento e la sua capacità di evolversi al suo interno come già ci mostrò Stanley Kubrick (specie in Shining in cui emerge il rapporto tra Jack Torrance e l’Overlook Hotel oppure in 2001:Odissea nello spazio in cui diveniva l’occhio di HAL 9000). L’intera atmosfera del film inoltre mantiene un tono fiabesco tipico del cinema di Tim Burton rendendolo accessibile al grande pubblico nonostante la complessità dei temi trattati.
I grandi nomi del cinema mondiale sono portatori di grandi aspettative in quanto autori imprescindibili nella riflessione sul cinema. Possiamo fare un esempio paradigmatico. Nel caso di un autore come Martin Scorsese possiamo dar per scontata la sua maestria nella messa in scena e proporre una lettura di ampio respiro: un’opera come Killers of the Flower Moon (Martin Scorsese, 2023) diventa così il fine e non il mezzo di un’ampia riflessione perdendo sicuramente qualcosa di prezioso per la contemporaneità.
Andiamo per gradi: è stato messo in rilievo il legame di Killers of the Flower con le sue due opere precedenti, Silence (2016) e The Irishman (2019) al fine di rappresentare la violenza come una sorta di linguaggio universale facente parte della stessa natura umana assieme alla gestione del tempo e dello spazio attraverso un’ampia coralità di voci.
Nonostante il paragone sia del tutto legittimo, Killers of the Flower Moon con la sua enorme portata storica rischia di diventare autoreferenziale. Assodato che la struttura formale del cinema di Scorsese, a partire dalla scrittura, raramente presenta criticità ritengo che la domanda più interessante da porsi sia: attraverso la storia di Ernest e Lily cosa ci sta raccontando? Qual è il fuori campo? E, ampliando la portata del discorso, il cinema è un’arte narrativa o un’arte visiva? Cosa lo distingue dal racconto letterario?
Possiamo considerare valida l’obiezione per cui il cinema non sempre deve farsi portatore di principi morali o divenire uno strumento di lotta o utile a guidare le masse? Sembrerebbe vero per il cinema di Scorsese che sembra rispondere alla richiesta di intrattenimento se pur di qualità.
Questo è un concetto che spesso ritorna nel lavoro di Cinepeep: l’intrattenimento è figlio della società capitalistica, manca di quelle scelte formali capaci di suscitare una riflessione profonda … nel nostro caso la nascita degli Stati Uniti e la storia dei nativi americani. Inoltre uno dei mezzi più sottili, ma allo stesso tempo più efficaci per l’affermazione del potere storico e/o economico è proprio la capacità di “autocontestarsi” all’interno dei propri confini sia estetici che produttivi.
La critica a un sistema politico mossa da personaggi interni allo stesso diventa la forma più efficace della sua affermazione.
Killers of the Flower Moon è un esempio perfetto di come anche un intrattenimento di altissima qualità miri a nascondere le problematicità di un sistema che a causa dello sviluppo delle tecnologie informatiche sta radicalmente cambiando dall’interno (si pensi allo sciopero degli scrittori contro la scelta di affidarsi all’intelligenza artificiale o il proliferare di piattaforme digitali facendo perdere la centralità alla sala). Nonostante possa sembrare un aspetto del tutto secondario credo che sia di assoluta attualità in quanto ci mostra come il cinema storico, in un momento di grande rivoluzione estetico/tecnologia, non possa esimersi dall’inglobare nella sua proposta il fulcro centrale della nostra più stretta contemporaneità: la fusione tra eventi storici e un mezzo di comunicazione ormai cambiato dalle fondamenta al punto da essere considerato da alcuni obsoleto!!
Killers of the Flower Moon è uno splendido racconto su una fase decisiva della storia degli Stati Uniti carica della sapienza tecnica di un maestro come Martin Scorsese. Dal punto di vista di Cinepeep ciò che cerchiamo nel cinema e nell’audiovisivo in generale, è superare la logica anestetizzante dell’intrattenimento (se pur di qualità) per una riflessione sul ruolo delle immagini divenute ormai un’esperienza quotidiana molto diversa dall’epoca pre-rete.
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Claudio Suriani Filmmaker
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tratto dall'album " For The Love Of It All..."
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C’è ancora qualcosa da dire su una serie come X-Files, un’esperienza seriale a cui si sono ispirate tutte le indagini sulle angosce della contemporaneità? In questo articolo perlustreremo una delle tematiche più importanti dell’opera di Chris Carter: il legame tra la sfera biologica e il potere.
Se la struttura di X-Files risente di un evidente debito nei confronti di Twin Peaks (specialmente nelle prime due stagioni oltre che per la caratterizzazione del personaggio di Mulder del tutto simile a quella di Dale Cooper) per stessa ammissione di Carter dobbiamo dire che anche opere seriali come Kolchak: The Night Stalker (Universal Television 1974 – 1975) e soprattutto Ai confini della realtà (Rod Serling , 1959 – 1964) ebbero una forte influenza sul suo immaginario, riuscendo anche a evitare l’effetto nostalgia per una fantascienza ormai datata esaminando le paure legate ai meccanismi oscuri della politica (gli Stati Uniti nei primi anni novanta erano ancora alle prese con le conseguenze dello scandalo Watergate e della guerra in Vietnam) e a quel fenomeno che chiameremo ibridazione bio-tecnologica.
Computer, telefoni, televisori ma soprattutto manipolazione biologica: X-Files portò al grande pubblico il bios come strumento del potere rendendolo lo scopo primario delle dinamiche politiche attraverso fiale di DNA conservato in archivi federali o malattie indotte come il cancro di Scully e la diffusione del vaiolo, due esempi dell’incrocio tra bios e potere.
Da un punto di vista puramente formale X-Files è divisa in due parti: nelle prime quattro stagioni l’immagine ci appare come un 4:3 tipico della televisione a tubo catodico mentre dalle successive stagioni entra in campo il 16:9: televisione e cinema iniziano a dialogare.
Un elemento che abbiamo incontrato nei precedenti articoli sulla serialità è il fenomeno denominato Binge Watching: la visione prolungata in numerosi episodi di un’opera seriale. E’ un fenomeno capace di diventare una vera e propria dipendenza arrivando a compromettere la salute psico-fisica nonchè la vita sociale ed economica di una persona. Nonostante sia un fenomeno aggravatosi durante la pandemia da Covid 19 affonda le sue radici nello sviluppo della banda larga e nella possibilità di avere a disposizione l’intero corpus degli episodi perdendo così il valore di evento della messa in onda delle singole puntate. La rete entra nella nostra sfera dell’immaginazione e agisce sulla nostra sfera critica: nasce l’urgenza di un’analisi accurata del fenomeno.
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Claudio Suriani Filmmaker
L’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones ci pone di fronte diversi interrogativi. In primo luogo perché si continui a portare avanti le vicende di un personaggio che ha caratterizzato il cinema d’intrattenimento degli anni ottanta ma che oggi risulta estraneo alle dinamiche del cinema contemporaneo. Da sempre le opere seriali (cinematografiche e televisive) soffrono l’eccessivo protrarsi di saghe nel momento in cui superano una canonica trilogia, nel caso del cinema, o un determinato numero di episodi nel caso della televisione; nel cinema hollywoodiano (di cui Steven Spielberg è il massimo rappresentante contemporaneo) appare evidente che l’obiettivo di investire su un brand di sicuro richiamo tenda a mettere in subordine il tema cardine del nostro discorso: un personaggio come Indiana Jones, oggi, ha ancora la forza di creare nuovi mondi?
Se uno dei pregi della trilogia originaria si trova nella scrittura e conferisce ai film la forza narrativa delle grandi opere d’avventura (come Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain o l’intera bibliografia di Jules Verne) qui James Mangold si affida a una regia che mette in scena sequenze d’azione con inseguimenti in puro stile Fast & Furious e che nei momenti cruciali rischia di cadere in scelte formali sensazionalistiche facendo perdere di forza alla sua struttura narrativa, il découpage classico cede il posto a un montaggio frenetico tradendo la stessa idea di cinema dell’autore della saga. E’ difficile credere che Steven Spielberg si sia lasciato sfuggire il controllo su uno dei suoi personaggi più rappresentativi…E’ evidente che questa perdita di cura nella scrittura danneggi allo stesso tempo il potere visionario del cinema nonché il personaggio di Indiana Jones. Il cinema crea immagini-simbolo: se l’Indiana Jones anni ottanta era l’emblema di un cinema d’intrattenimento capace di creare mondi attraverso uno stile di messa in scena narrativo tipicamente hollywoodiano, Indiana Jones e il quadrante del destino soffre di una mancanza di chiarezza di intenti.
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