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martedì 4 marzo 2025

THE SUBSTANCE (2024) DI CORALIE FARGEAT. Un Freaks Show non convincente

  


 

 

Continua l’indagine sulla mutazione dei corpi.

Da Crimes of the Future (David Cronenberg, 2022) e il precedente Titane (Julia Ducournau, 2022) il body-horror è ormai sistemico in un cinema  che ambisce alla legittimazione critica attraversando in questo caso  il parallelismo nascita/disgregazione.

Grazie a Coralie Fargeat torniamo alle origini del progetto Cinepeep, nei meandri più oscuri della settima arte in cui il disgusto e la putrescenza vengono elevati a opera d’arte e strumento di lotta contro il politicamente corretto, cancro dell’audiovisivo contemporaneo … e forse non solo.

 

Ma The Substance ha una tale forza eversiva? 

 


 

 

Il film di Coralie Fargeat (francese come Julia Ducournau) è un connubio tra il dissacrante attacco al potere di Society;The Horror, Brian Yuzna, 1989 e l’indagine sul potere alienante dell’audiovisivo di  Videodrome, David Cronenberg, 1983,  con una sequenza ispirata, in modo fin troppo evidente, a Carrie; lo sguardo di Satana, Brian De Palma, 1976. Altri temi centrali sono la tematica del doppio ispirata a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde o Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson oltre alla critica sul taglio patriarcale e la mercificazione del corpo femminile.

 

L'articolo continua al link: https://www.cinepeep.org/home/cinema-horror/the-substance-2024-di-coralie-fargeat

mercoledì 12 febbraio 2025

NOSFERATU (2024) DI ROBERT EGGERS Uno stucchevole esercizio di stile.


 Nosferatu è una delle più grandi delusioni di quest’anno, delusione che ha origine dalle grandi aspettative su Robert Eggers dopo opere come The Witch e The Lighthouse… di The Northman   abbiamo ampiamente parlato.

Il giovane regista newyorkese ha imbastito una messa in scena ridondante che stride fortemente con l’immaginario della figura del vampiro degli anni venti, metafora di tragedie contemporanee e tradisce il desiderio stesso di Eggers di reinventare il cinema del passato in chiave postmoderna specie per la caduta del discrimine tra cultura popolare e cultura alta… e qualcuno prima o poi si prenderà l’onere di spiegarlo.

 

Andiamo per ordine: Siegfried Kracauer in Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco (Lindau, 2007) mette in luce come il cinema della repubblica di Weimar raccontava l’inconscio collettivo del popolo tedesco che prefigurava l’avvento del nazismo; Nosferatu di F. Murnau emerge come una delle grandi metafore delle paure di un’epoca che si avviava verso la catastrofe della guerra, immaginario che viene confermato da un’altra opera monumento del cinema tedesco come M, il mostro di Dusseldorf  (Fritz Lang 1931) in cui emerge il tema dei criminali al potere.

Tuttavia il rapporto tra la peste e la guerra (o i processi sommari) o tra vampirismo e dittatura non ha più ragione di essere nel momento in cui non solo la Germania ha elaborato il proprio passato (a differenza dell’Italia) ma a livello cinematografico il tema del vampirismo è stato destrutturato aprendolo a diverse interpretazioni: dalla commedia (Per favore, non mordermi sul collo, Roman Polanski, 1966) ad opere adolescenziali (l’intera saga di Twilight) … persino i cartoni animati.

L’opera di Eggers impatta nell’assenza di un sottotesto aperto alla contemporaneità: il suo limite nasce proprio dal voler riproporre uno schema narrativo incapace oggi di portare con sé un immaginario legato alla società dei primi del novecento al contrario di Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmush 2013) in cui emerge lo spettro dei nostri giorni.

 

 Oggi ciò che fa più paura non è il mostro (specie quello classico) ma il viscerale senso di solitudine dell’uomo moderno… una quieta disperazione del tutto priva di enfasi … Adam ne è un esempio perfetto.

 

Se il cinema di Murnau era saturo di un fuori campo ricco di sogni e presentimenti (non solo nel Nosferatu ma anche in capolavori come Faust del 1926 o Aurora del 1927) in Eggers l’opera è tutta in campo eliminando ogni possibile atto critico/interpretativo dello spettatore e nel momento in cui tutto ci è posto su di un piatto d’argento la domanda è: questo grande sforzo produttivo cos’ha aggiunto all’immaginario sui vampiri, alla carriera di Eggers e al cinema in generale? Che il regista newyorkese possiede una grande tecnica cinematografica? Non solo già lo sapevamo ma Nosferatu è l’ennesima conferma che un’opera (soprattutto nel cinema horror) priva di sottotesti si infrange contro il muro del già visto e già sentito.

 

Eggers attraverso il Nosferatu ha voluto intraprendere una strada troppo più grande di sé: il voler uccidere i propri maestri sfociando in un formalismo estetizzate privo di interesse…è come se  raccontasse molto più dello stesso Eggers che del Conte Orlok specie se si riflette sul desiderio dello stesso di affrontare i classici dell’orrore: è forse  questa lotta iconoclasta che priva il vampiro di quell’eleganza che è propria del suo personaggio?

 

Da Murnau a Herzog, passando per Tod Browning fino a Jarmush la raffinatezza è sempre stata una componente essenziale del vampiro capace di creare contrasto interno tra i modi esteriori e l’orrore di cui esso è portatore. Tuttavia non si può negare che questo desiderio di emancipazione di Eggers dai suoi stessi padri lo ha portato a sbagliare l’iconografia del personaggio non solo perché ci appare come Frankestein, storico alter-ego del Conte Dracula, ma a livello formale realizza un’opera dal taglio classico che vi si richiama fallendo in pieno questa (possibile) emancipazione.

 

Avendo amato profondamente le prime due opere di Eggers (soprattutto The Lighthouse) mi auguro che il regista americano porti avanti questa sua lotta interiore ma che abbandoni questa sterile riproposizione dei classici dell’orrore per esprimerla in opere nuove che rappresentino in pieno il suo grande potenziale registico … e forse autoriale.


Claudio Suriani Filmmaker


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giovedì 21 novembre 2024

ENYS MEN ( Mark Jenkin 2022 ) - Fantasmi dalla Cornovaglia




#EnysMen #Horror #FolkHorror

Enys Men ( Mark Jenkin, 2022) fu proiettato in anteprima nella sezione Quinzaine des Realisateurs del festival di Cannes del 2022 e si impose da subito nella sua essenza satura di simbolismo che affonda le proprie radici nella cultura pagana e animistica in cui la natura assume un valore religioso. E' un opera che si discosta dal canonico Folk- Horror soprattutto per influenze che vanno dal documentario al mystery movie.

Enys Men narra le vicende di Mary Woodvine, una botanica che studia l'evoluzione di un fiore raro in un'isola della Cornovaglia caratterizzata dall'assenza quasi totale di vegetazione e capace di trasmettere un forte senso di solitudine.
Abbiamo visto in numerosi casi come la solitudine nel cinema (e non solo) rappresenti la genesi di uno sguardo perturbante: non solo l'unico legame della protagonista con il mondo è legato a un fragile contatto radio ma la natura ostile del paesaggio la priva di ogni possibilità di fuga materiale e spirituale dalla sua condizione.

Se lo spettatore si approccia ad Enys Men per vivere un'esperienza stile The Wicker Man ( Robin Hardy, 1973) rimarrà deluso in quanto è un'opera dal forte valore sperimentale che fonde il cinema documentaristico di Herzog con alcune delle opere più significative del mistery cinema come Picnic ad Hanging Rock (Peter Weir, 1975) e The Lighthouse (Rober Heggers, 2019) arrivando a rappresentare un universo in cui le coordinate spazio-temporali si sottraggono per dar spazio a figure dal forte valore fantasmatico in un dialogo aperto con le opere citate.

Enys Men inoltre è caratterizzato da una fotografia stile pellicola anni settanta portandolo verso il found footage che, forse per la prima volta, si apre a numerose influenze ( sia narrative che visive ) dando nuova linfa vitale a uno stile che fino a oggi non aveva più nulla da dire.

Enys Men è sicuramente una delle opere più interessanti uscite negli ultimi anni capace di cercare nuove forme espressive senza il facile apprezzamento di un pubblico ormai assuefatto alla banalità corrosiva. 


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 Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 27 maggio 2024

LA ZONA D’INTERESSE (2023) DI JONATHAN GLAZER – La normalizzazione degli orrori del mondo




La zona d’interesse (Jonathan Glazer, 2023) necessita di un’introduzione propedeutica.


La Shoah è un evento storico che s’impone da sé in quanto la sua elaborazione e memoria portò alle estreme conseguenze determinati aspetti della contemporaneità oggi ancora vivi che potremmo riassumere nella filosofia a cui Michel Foucault e in Italia Roberto Esposito e Giorgio Agamben diedero il nome di Biopolitica.

Questo allargamento della riflessione ci permette non solo di riattualizzare l’Olocausto (soprattutto a causa dei mutati rapporti di forza nel panorama geopolitico mondiale) ma anche di evitare una facile deriva retorica costantemente presente quando si affrontano queste tematiche. Come mettere in relazione la catastrofe del passato (non così remoto) con quelle di oggi?  Ci rivolgiamo al filosofo sloveno Slavoj Žižek e alla sua analisi. Žižek in una lunga video-intervista rilasciata a Enrico Ghezzi nella serie Parola (su una) data (una videocosa, per riprendere un termine caro al critico italiano) affronta il tema della catastrofe arrivando a distinguere La catastrofe visibile da quella invisibile, ponendo l’accento sulla seconda (citando come esempio Cernobyl) come elemento caratterizzante del mondo a venire in quando inelaborabile in immagine.

 

La zona d’interesse sembra prendere vita proprio da tale concetto e dall’assunto teorico di Claude Lanzmann in Shoah (Tascabili Bompiani, 2000): In un certo senso si può affermare che nessuno sia mai stato ad Auschwitz perché coloro che vi sono stati deportati e che sono morti subito, in realtà … non hanno fatto in tempo a sapere ciò che c’era.

Jonathan Glazer mette in scena la vita quotidiana della famiglia Hoss che vive in una casa a ridosso del campo di sterminio di Auschwitz, attribuendo un ruolo di primissimo piano al sonoro proveniente dal campo e alle immagini che lo stesso suggerisce allo spettatore o che (non) suggerisce agli inquilini di casa Hoss in cui si vive secondo una quotidianità ben strutturata tipica del Terzo Reich. Assistiamo a un processo di privazione deliberata della realtà, un fuori campo che sfocia in un’oppressione anestetizzante che, tuttavia, non arriverà mai alla coscienza degli inquilini di casa Hoss sottoforma di trauma.

E’ come se la Shoah non esistesse in quanto ogni elemento del contesto concentrazionario attua, o subisce, la privazione dello sguardo sulla camera a gas e il crematorio … un destino che accomunerà vittime e carnefici da due prospettive diametralmente diversei primi persero la vita mentre i secondi, la capacità di portare a coscienza l’orrore.

 



Negare lo sguardo significa relegare tali eventi al di fuori della storia rendendo tali traumi fuori da ogni possibilità elaborativa personale e/o storica. La zona di interesse era unarea di quaranta metri quadrati adiacente al perimento dei campi, una sorta di zona cuscinetto che doveva impedire ai cittadini delle zone abitate di entrarvi in contatto, in particolar modo con i prigionieri e in cui i protagonisti del film convergono le proprie attenzioni quotidiane come un orto e un giardino ben curato ...

Casa Hoss viene vissuta dai suoi inquilini come un paradiso come dimostra la sofferenza della Sg.ra Hoss alla notizia del trasferimento del marito. E’ un paradiso che tuttavia si basa sempre sul principio della selezione e che in La zona dinteresse ci appare come l’elemento chiave dell’intera pellicola. E’ come se in ogni inquadratura ci sia una sorta di lavoro interno al visibile capace di svilupparsi a diversi livelli: il primo è strettamente concettuale in quanto il paradiso di casa Hoss ci appare profondamente inquietante, il secondo è capace di lavorare sul sensibile rendendo questo sentimento perturbante, chiave per far travalicare il fuori campo nella dimensione del visibile. Azzarderei che Glazer non riesce ad avere un pieno controllo sugli effetti del fuori campo ma cerca di assecondarlo creando un’opera, nella sua alta drammaticità, satura di una libertà stilistica capace di dare un contributo innovativo alla tradizione cinematografica sulla Shoah.

Inoltre, se questa ha tra le sue tematiche la privazione (o selezione) dello sguardo, tale processo da sempre è stato convertito dal cinema in una separazione tra l’opera e la sala: a questo punto si impone una questione puramente cinematografica. Abbiamo visto in altri articoli come l’orrore perda efficacia nel momento del suo manifestarsiconcetto valido sia per il cinema horror sia per l’orrore di carattere storico. Tuttavia se nell’horror cinematografico l’orrore celato ci conduce verso una tensione di tipo hitchcockiana in cui è più corretto parlare di terrore, in La zona dinteresse è la negazione stessa dello sguardo a risultare unazione violenta capace di condurre lo spettatore in quella zona grigia tipica dei burocrati nazisti.

In La zona d’interesse l’orrore della storia si apre in un mondo chiuso in se stesso che, tuttavia, impedisce allo spettatore di cadere in quel meccanismo anestetizzante dell’intrattenimento tipico del cinema di consumo.

 

Non è azzardato affermare che La zona d’interesse non sia un film sulla memoria ma su quei processi culturali e psicologici che portano l’essere umano a normalizzare gli orrori del mondo rendendolo, oggi, non  così diverso dagli inquilini di casa Hoss.


 Claudio Suriani Filmmaker

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 5 dicembre 2023

KILLER OF THE FLOWER MOON (2023) DI MARTIN SCORSESE - ANCORA NULLA DI NUOVO

I grandi nomi del cinema mondiale sono portatori di grandi aspettative in quanto autori imprescindibili nella riflessione sul cinema. Possiamo fare un esempio paradigmatico. Nel caso di un autore come Martin Scorsese possiamo dar per scontata la sua maestria nella messa in scena e proporre una lettura di ampio respiro: un’opera come Killers of the Flower Moon (Martin Scorsese, 2023) diventa così il fine e non il mezzo di un’ampia riflessione perdendo sicuramente qualcosa di prezioso per la contemporaneità.



Andiamo per gradi: è stato messo in rilievo il legame di Killers of the Flower con le sue due opere precedenti, Silence (2016) e The Irishman (2019) al fine di rappresentare la violenza come una sorta di linguaggio universale facente parte della stessa natura umana assieme alla gestione del tempo e dello spazio attraverso un’ampia coralità di voci.

Nonostante il paragone sia del tutto legittimo, Killers of the Flower Moon con la sua enorme portata storica rischia di diventare autoreferenziale. Assodato che la struttura formale del cinema di Scorsese, a partire dalla scrittura, raramente presenta criticità ritengo che la domanda più interessante da porsi sia: attraverso la storia di Ernest e Lily cosa ci sta raccontando? Qual è il fuori campo? E, ampliando la portata del discorso, il cinema è un’arte narrativa o un’arte visiva? Cosa lo distingue dal racconto letterario?





Possiamo considerare valida l’obiezione per cui il cinema non sempre deve farsi portatore di principi morali o divenire uno strumento di lotta o utile a guidare le masse? Sembrerebbe vero per il cinema di Scorsese che sembra rispondere alla richiesta di intrattenimento se pur di qualità.

Questo è un concetto che spesso ritorna nel lavoro di Cinepeep: l’intrattenimento è figlio della società capitalistica, manca di quelle scelte formali capaci di suscitare una riflessione profonda … nel nostro caso la nascita degli Stati Uniti e la storia dei nativi americani. Inoltre uno dei mezzi più sottili, ma allo stesso tempo più efficaci per l’affermazione del potere storico e/o economico è proprio la capacità di “autocontestarsi” all’interno dei propri confini sia estetici che produttivi.

 

La critica a un sistema politico mossa da personaggi interni allo stesso diventa la forma più efficace della sua affermazione.

 

Killers of the Flower Moon è un esempio perfetto di come anche un intrattenimento di altissima qualità miri a nascondere le problematicità di un sistema che a causa dello sviluppo delle tecnologie informatiche sta radicalmente cambiando dall’interno (si pensi allo sciopero degli scrittori contro la scelta di affidarsi all’intelligenza artificiale o il proliferare di piattaforme digitali facendo perdere la centralità alla sala). Nonostante possa sembrare un aspetto del tutto secondario credo che sia di assoluta attualità in quanto ci mostra come il cinema storico, in un momento di grande rivoluzione estetico/tecnologia, non possa esimersi dall’inglobare nella sua proposta il fulcro centrale della nostra più stretta contemporaneità: la fusione tra eventi storici e un mezzo di comunicazione ormai cambiato dalle fondamenta al punto da essere considerato da alcuni obsoleto!!

Killers of the Flower Moon è uno splendido racconto su una fase decisiva della storia degli Stati Uniti carica della sapienza tecnica di un maestro come Martin Scorsese. Dal punto di vista di Cinepeep ciò che cerchiamo nel cinema e nell’audiovisivo in generale, è superare la logica anestetizzante dell’intrattenimento (se pur di qualità) per una riflessione sul ruolo delle immagini divenute ormai un’esperienza quotidiana molto diversa dall’epoca pre-rete.

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Claudio Suriani Filmmaker


sabato 25 novembre 2023

X-FILES: TELEVISIONE E BIOPOTERE




C’è ancora qualcosa da dire su una serie come X-Files, un’esperienza seriale a cui si sono ispirate tutte le indagini sulle angosce della contemporaneità? In questo articolo perlustreremo una delle tematiche più importanti dell’opera di Chris Carter: il legame tra la sfera biologica e il potere.

Se la struttura di X-Files risente di un evidente debito nei confronti di Twin Peaks (specialmente nelle prime due stagioni oltre che per la caratterizzazione del personaggio di Mulder del tutto simile a quella di Dale Cooper) per stessa ammissione di Carter dobbiamo dire che anche opere seriali come Kolchak: The Night Stalker (Universal Television 1974 – 1975) e soprattutto Ai confini della realtà (Rod Serling , 1959 – 1964) ebbero una forte influenza sul suo immaginario, riuscendo anche a evitare l’effetto nostalgia per una fantascienza ormai datata esaminando le paure legate ai meccanismi oscuri della politica (gli Stati Uniti nei primi anni novanta erano ancora alle prese con le conseguenze dello scandalo Watergate e della guerra in Vietnam) e a quel fenomeno che chiameremo ibridazione bio-tecnologica.


BIOPOTERE E IBRIDAZIONE BIOTECNOLOGICA


Computer, telefoni, televisori ma soprattutto manipolazione biologica: X-Files portò al grande pubblico il bios come strumento del potere rendendolo lo scopo primario delle dinamiche politiche attraverso fiale di DNA conservato in archivi federali o malattie indotte come il cancro di Scully e la diffusione del vaiolo, due esempi dell’incrocio tra bios e potere. 





Per Michel Foucault la Biopolitica è l’ambito del biopotere che ha lo scopo di gestire la vita del singolo e di intere popolazioni e in X-Files tale presupposto appare prepotentemente: episodi come Eve (1x11) o Paper Clip (3x02) sono una dichiarazione di intenti: porre al centro della riflessione non solo l’entrata della vita biologica nella tecnica ma anche l’intervento del potere politico (e spesso economico) nelle dinamiche biologiche dell’essere umano. Inoltre nell’episodio Paper Clip le macerie della storia emergono in tutta la loro forza. Paper Clip fu l’operazione con cui gli Stati Uniti d’America salvarono alcuni scienziati nazisti dal processo di Norimberga in cambio delle loro conoscenze scientifiche (uno dei più noti fu Wernher von Braun, il progettista delle bombe V2 che devastarono Londra). La storia ri-emerge creando un presente inafferrabile e definendo la natura stessa della ricerca della verità di Mulder: effimera ma efficace al tempo stesso. Ma se i legami tra X-Files e la riflessione biopolitica appaiono evidenti è centrale indagare il ruolo in questo processo dell’ibridazione bio-tecnologica nell’epoca della rete e i suoi effetti nella messa in scena televisiva.

Da un punto di vista puramente formale X-Files è divisa in due parti: nelle prime quattro stagioni l’immagine ci appare come un 4:3 tipico della televisione a tubo catodico mentre dalle successive stagioni entra in campo il 16:9: televisione e cinema iniziano a dialogare.


IL RUOLO DELLA RETE NEI MECCANISMI BIO-TECNOLIGICI


Un elemento che abbiamo incontrato nei precedenti articoli sulla serialità è il fenomeno denominato Binge Watching: la visione prolungata in numerosi episodi di un’opera seriale. E’ un fenomeno capace di diventare una vera e propria dipendenza arrivando a compromettere la salute psico-fisica nonchè la vita sociale ed economica di una persona. Nonostante sia un fenomeno aggravatosi durante la pandemia da Covid 19 affonda le sue radici nello sviluppo della banda larga e nella possibilità di avere a disposizione l’intero corpus degli episodi perdendo così il valore di evento della messa in onda delle singole puntate. La rete entra nella nostra sfera dell’immaginazione e agisce sulla nostra sfera critica:  nasce l’urgenza di un’analisi accurata del fenomeno.





In X-Files non solo la tecnologia informatica ha un ruolo centrale all’interno del racconto. Se pensiamo ai tre pistoleri solitari, al ruolo della cultura hacker e all’utilizzo della rete all’interno dell’corpus degli episodi come ad esempio Kill Switch (5x11) assistiamo alla descrizione proprio di quel processo di Ibridazione tecnologica e del suo legame con la sfera biologica come il congegno elettronico (un cip da computer) impiantato nelle donne rapite che causerà il cancro di Scully. Questo è un passaggio determinante: se da un punto di vista puramente narrativo la rimozione di tale congegno provoca il cancro allo scopo di preservare i misteri legati alla cospirazione, da un punto di vista più ampio ci mostra come un processo come l’ibridazione bio-tecnologia sia ormai irreversibile: basti pensare a un esperimento come l’interfaccia Brain computer, progetto dell’azienda Neuralink (di proprietà di Elon Musk) presentato in anteprima alla California Academy of Science che consentirebbe l’impianto di dispositivi nel cervello umano allo scopo di creare con strumenti Hi-tech il potenziamento del pensiero umano … risuona persino l’eco del progetto dei Super soldati di cui si parla nelle stagioni otto e nove. Se X-Files, attraverso il linguaggio televisivo, è divenuta una pietra miliare di tutte quelle opere che immaginarono e perlustrarono le ombre del futuro come Bladerunner nel cinema (Ridley Scott, 1982) o 1984 in letteratura (George Orwell, 1949) è altrettanto vero che se il processo di ibridazione bio-tecnologica fin qui descritto è divenuto parte della nostra quotidianità divenendo per questo poco visibile sottraendosi per questo al pensiero critico, opere come queste diventano essenziali per poter continuare a farlo. 


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Claudio Suriani Filmmaker




giovedì 27 luglio 2023

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO - In che direzione sta andando il cinema hollywoodiano?

L’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones ci pone di fronte diversi interrogativi. In primo luogo perché si continui a portare avanti le vicende di un personaggio che ha caratterizzato il cinema d’intrattenimento degli anni ottanta ma che oggi risulta estraneo alle dinamiche del cinema contemporaneo. Da sempre le opere seriali (cinematografiche e televisive) soffrono l’eccessivo protrarsi di saghe nel momento in cui superano una canonica trilogia, nel caso del cinema, o un determinato numero di episodi nel caso della televisione; nel cinema hollywoodiano (di cui Steven Spielberg è il massimo rappresentante contemporaneo) appare evidente che l’obiettivo di investire su un brand di sicuro richiamo tenda a mettere in subordine il tema cardine del nostro discorso: un personaggio come Indiana Jones, oggi, ha ancora la forza di creare nuovi mondi




Se uno dei pregi della trilogia originaria si trova nella scrittura e conferisce ai film la forza narrativa delle grandi opere d’avventura (come Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain o l’intera bibliografia di Jules Verne) qui James Mangold si affida a una regia che mette in scena sequenze d’azione con inseguimenti in puro stile Fast & Furious e che nei momenti cruciali rischia di cadere in scelte formali sensazionalistiche facendo perdere di forza alla sua struttura narrativa, il découpage classico cede il posto a un montaggio frenetico tradendo la stessa idea di cinema dell’autore della saga. E’ difficile credere che Steven Spielberg si sia lasciato sfuggire il controllo su uno dei suoi personaggi più rappresentativi…E’ evidente che questa perdita di cura nella scrittura danneggi allo stesso tempo il potere visionario del cinema nonché il personaggio di Indiana Jones. Il cinema crea immagini-simbolo: se l’Indiana Jones anni ottanta era l’emblema di un cinema d’intrattenimento capace di creare mondi attraverso uno stile di messa in scena narrativo tipicamente hollywoodiano, Indiana Jones e il quadrante del destino soffre di una mancanza di chiarezza di intenti. 




Se nell’incipit de Il trionfo della volontà (Leni Riefenstahl, 1935) Leni Riefenstahl non narra il viaggio in aereo di Hitler ma la superiorità del Führer sul proprio popolo, i primi tre capitoli della saga ci riportano al cinema di Frank Capra per la vittoria del modello culturale americano, al grande Western di John Ford per la rappresentazione del Gran Canyon e della Monument Valley (in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)). Indiana Jones e il quadrante del destino è privo di sottotesti credibili in quanto la lotta ai nazisti non solo ha il sapore amaro del già visto ma appare come una scelta scontata verso la quale gli spettatori possono facilmente immedesimarsi. Inoltre il nazismo in quest’ultimo capitolo è rappresentato attraverso un falso storico che necessita di essere chiarito: il personaggio di Jürgen Voller, che desidera tornare indietro nel tempo per uccidere Hitler e invertire il corso della seconda guerra mondiale, si pone contro uno dei fondamenti su cui si basava l’intero nazionalsocialismo. Il Führer incarnava la prassi politica del Terzo Reich: ciò significava non solo che la parola di Hitler diventava direttamente legge dello stato ma l’intera struttura di potere (legislativo e militare) erano incarnate nella persona di Hitler e ogni nazista era pienamente cosciente di ciò. Quindi arriviamo alla domanda iniziale: in che modo il cinema può tornare a creare nuovi mondi? In che modo lo spettatore può rivivere il dolce smarrimento del cinema delle origini? La forza identitaria del western di John Ford o il terrore viscerale delle origini dell’horror? Nonostante sia un tema complesso che merita una riflessione apposita è necessario partire dall’augurio che in ogni caso possa tornare a investire sulla creazione di nuove storie ridando anche centralità alla sala come esperienza cinematografica nella sua interezza 

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Claudio Suriani Filmmaker



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