Elenco blog personale
domenica 3 agosto 2025
RACCONTO D'INVERNO (1992) DI ERIC ROHMER
martedì 4 marzo 2025
THE SUBSTANCE (2024) DI CORALIE FARGEAT. Un Freaks Show non convincente
Continua l’indagine sulla mutazione dei corpi.
Da Crimes of the Future (David Cronenberg, 2022) e il precedente Titane (Julia Ducournau, 2022) il body-horror è ormai sistemico in un cinema che ambisce alla legittimazione critica attraversando in questo caso il parallelismo nascita/disgregazione.
Grazie a Coralie Fargeat torniamo alle origini del progetto Cinepeep, nei meandri più oscuri della settima arte in cui il disgusto e la putrescenza vengono elevati a opera d’arte e strumento di lotta contro il politicamente corretto, cancro dell’audiovisivo contemporaneo … e forse non solo.
Ma The Substance ha una tale forza eversiva?
Il film di Coralie Fargeat (francese come Julia Ducournau) è un connubio tra il dissacrante attacco al potere di Society;The Horror, Brian Yuzna, 1989 e l’indagine sul potere alienante dell’audiovisivo di Videodrome, David Cronenberg, 1983, con una sequenza ispirata, in modo fin troppo evidente, a Carrie; lo sguardo di Satana, Brian De Palma, 1976. Altri temi centrali sono la tematica del doppio ispirata a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde o Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson oltre alla critica sul taglio patriarcale e la mercificazione del corpo femminile.
L'articolo continua al link: https://www.cinepeep.org/home/cinema-horror/the-substance-2024-di-coralie-fargeat
mercoledì 12 febbraio 2025
NOSFERATU (2024) DI ROBERT EGGERS Uno stucchevole esercizio di stile.
Il giovane regista newyorkese ha imbastito una messa in scena ridondante che stride fortemente con l’immaginario della figura del vampiro degli anni venti, metafora di tragedie contemporanee e tradisce il desiderio stesso di Eggers di reinventare il cinema del passato in chiave postmoderna specie per la caduta del discrimine tra cultura popolare e cultura alta… e qualcuno prima o poi si prenderà l’onere di spiegarlo.
Andiamo per ordine: Siegfried Kracauer in Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco (Lindau, 2007) mette in luce come il cinema della repubblica di Weimar raccontava l’inconscio collettivo del popolo tedesco che prefigurava l’avvento del nazismo; Nosferatu di F. Murnau emerge come una delle grandi metafore delle paure di un’epoca che si avviava verso la catastrofe della guerra, immaginario che viene confermato da un’altra opera monumento del cinema tedesco come M, il mostro di Dusseldorf (Fritz Lang 1931) in cui emerge il tema dei criminali al potere.
Tuttavia il rapporto tra la peste e la guerra (o i processi sommari) o tra vampirismo e dittatura non ha più ragione di essere nel momento in cui non solo la Germania ha elaborato il proprio passato (a differenza dell’Italia) ma a livello cinematografico il tema del vampirismo è stato destrutturato aprendolo a diverse interpretazioni: dalla commedia (Per favore, non mordermi sul collo, Roman Polanski, 1966) ad opere adolescenziali (l’intera saga di Twilight) … persino i cartoni animati.
L’opera di Eggers impatta nell’assenza di un sottotesto aperto alla contemporaneità: il suo limite nasce proprio dal voler riproporre uno schema narrativo incapace oggi di portare con sé un immaginario legato alla società dei primi del novecento al contrario di Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmush 2013) in cui emerge lo spettro dei nostri giorni.
Oggi ciò che fa più paura non è il mostro (specie quello classico) ma il viscerale senso di solitudine dell’uomo moderno… una quieta disperazione del tutto priva di enfasi … Adam ne è un esempio perfetto.
Se il cinema di Murnau era saturo di un fuori campo ricco di sogni e presentimenti (non solo nel Nosferatu ma anche in capolavori come Faust del 1926 o Aurora del 1927) in Eggers l’opera è tutta in campo eliminando ogni possibile atto critico/interpretativo dello spettatore e nel momento in cui tutto ci è posto su di un piatto d’argento la domanda è: questo grande sforzo produttivo cos’ha aggiunto all’immaginario sui vampiri, alla carriera di Eggers e al cinema in generale? Che il regista newyorkese possiede una grande tecnica cinematografica? Non solo già lo sapevamo ma Nosferatu è l’ennesima conferma che un’opera (soprattutto nel cinema horror) priva di sottotesti si infrange contro il muro del già visto e già sentito.
Eggers attraverso il Nosferatu ha voluto intraprendere una strada troppo più grande di sé: il voler uccidere i propri maestri sfociando in un formalismo estetizzate privo di interesse…è come se raccontasse molto più dello stesso Eggers che del Conte Orlok specie se si riflette sul desiderio dello stesso di affrontare i classici dell’orrore: è forse questa lotta iconoclasta che priva il vampiro di quell’eleganza che è propria del suo personaggio?
Da Murnau a Herzog, passando per Tod Browning fino a Jarmush la raffinatezza è sempre stata una componente essenziale del vampiro capace di creare contrasto interno tra i modi esteriori e l’orrore di cui esso è portatore. Tuttavia non si può negare che questo desiderio di emancipazione di Eggers dai suoi stessi padri lo ha portato a sbagliare l’iconografia del personaggio non solo perché ci appare come Frankestein, storico alter-ego del Conte Dracula, ma a livello formale realizza un’opera dal taglio classico che vi si richiama fallendo in pieno questa (possibile) emancipazione.
Avendo amato profondamente le prime due opere di Eggers (soprattutto The Lighthouse) mi auguro che il regista americano porti avanti questa sua lotta interiore ma che abbandoni questa sterile riproposizione dei classici dell’orrore per esprimerla in opere nuove che rappresentino in pieno il suo grande potenziale registico … e forse autoriale.
Claudio Suriani Filmmaker
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giovedì 21 novembre 2024
ENYS MEN ( Mark Jenkin 2022 ) - Fantasmi dalla Cornovaglia
Enys Men ( Mark Jenkin, 2022) fu proiettato in anteprima nella sezione Quinzaine des Realisateurs del festival di Cannes del 2022 e si impose da subito nella sua essenza satura di simbolismo che affonda le proprie radici nella cultura pagana e animistica in cui la natura assume un valore religioso. E' un opera che si discosta dal canonico Folk- Horror soprattutto per influenze che vanno dal documentario al mystery movie.
Se lo spettatore si approccia ad Enys Men per vivere un'esperienza stile The Wicker Man ( Robin Hardy, 1973) rimarrà deluso in quanto è un'opera dal forte valore sperimentale che fonde il cinema documentaristico di Herzog con alcune delle opere più significative del mistery cinema come Picnic ad Hanging Rock (Peter Weir, 1975) e The Lighthouse (Rober Heggers, 2019) arrivando a rappresentare un universo in cui le coordinate spazio-temporali si sottraggono per dar spazio a figure dal forte valore fantasmatico in un dialogo aperto con le opere citate.
Enys Men inoltre è caratterizzato da una fotografia stile pellicola anni settanta portandolo verso il found footage che, forse per la prima volta, si apre a numerose influenze ( sia narrative che visive ) dando nuova linfa vitale a uno stile che fino a oggi non aveva più nulla da dire.
Enys Men è sicuramente una delle opere più interessanti uscite negli ultimi anni capace di cercare nuove forme espressive senza il facile apprezzamento di un pubblico ormai assuefatto alla banalità corrosiva.
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Claudio Suriani Filmmaker
lunedì 27 maggio 2024
LA ZONA D’INTERESSE (2023) DI JONATHAN GLAZER – La normalizzazione degli orrori del mondo
La zona d’interesse (Jonathan Glazer, 2023) necessita di un’introduzione propedeutica.
La Shoah è un evento storico che s’impone da sé in quanto la sua elaborazione e memoria portò alle estreme conseguenze determinati aspetti della contemporaneità oggi ancora vivi che potremmo riassumere nella filosofia a cui Michel Foucault e in Italia Roberto Esposito e Giorgio Agamben diedero il nome di Biopolitica.
Questo allargamento della riflessione ci permette non solo di riattualizzare l’Olocausto (soprattutto a causa dei mutati rapporti di forza nel panorama geopolitico mondiale) ma anche di evitare una facile deriva retorica costantemente presente quando si affrontano queste tematiche. Come mettere in relazione la catastrofe del passato (non così remoto) con quelle di oggi? Ci rivolgiamo al filosofo sloveno Slavoj Žižek e alla sua analisi. Žižek in una lunga video-intervista rilasciata a Enrico Ghezzi nella serie Parola (su una) data (una videocosa, per riprendere un termine caro al critico italiano) affronta il tema della catastrofe arrivando a distinguere La catastrofe visibile da quella invisibile, ponendo l’accento sulla seconda (citando come esempio Cernobyl) come elemento caratterizzante del mondo a venire in quando inelaborabile in immagine.
La zona d’interesse sembra prendere vita proprio da tale concetto e dall’assunto teorico di Claude Lanzmann in Shoah (Tascabili Bompiani, 2000): In un certo senso si può affermare che nessuno sia mai stato ad Auschwitz perché coloro che vi sono stati deportati e che sono morti subito, in realtà … non hanno fatto in tempo a sapere ciò che c’era.
Jonathan Glazer mette in scena la vita quotidiana della famiglia Hoss che vive in una casa a ridosso del campo di sterminio di Auschwitz, attribuendo un ruolo di primissimo piano al sonoro proveniente dal campo e alle immagini che lo stesso suggerisce allo spettatore o che (non) suggerisce agli inquilini di casa Hoss in cui si vive secondo una quotidianità ben strutturata tipica del Terzo Reich. Assistiamo a un processo di privazione deliberata della realtà, un fuori campo che sfocia in un’oppressione anestetizzante che, tuttavia, non arriverà mai alla coscienza degli inquilini di casa Hoss sottoforma di trauma.
E’ come se la Shoah non esistesse in quanto ogni elemento del contesto concentrazionario attua, o subisce, la privazione dello sguardo sulla camera a gas e il crematorio … un destino che accomunerà vittime e carnefici da due prospettive diametralmente diverse: i primi persero la vita mentre i secondi, la capacità di portare a coscienza l’orrore.
Negare lo sguardo significa relegare tali eventi al di fuori della storia rendendo tali traumi fuori da ogni possibilità elaborativa personale e/o storica. La zona di interesse era un’area di quaranta metri quadrati adiacente al perimento dei campi, una sorta di zona cuscinetto che doveva impedire ai cittadini delle zone abitate di entrarvi in contatto, in particolar modo con i prigionieri e in cui i protagonisti del film convergono le proprie attenzioni quotidiane come un orto e un giardino ben curato ...
Casa Hoss viene vissuta dai suoi inquilini come un paradiso come dimostra la sofferenza della Sg.ra Hoss alla notizia del trasferimento del marito. E’ un paradiso che tuttavia si basa sempre sul principio della selezione e che in La zona d’interesse ci appare come l’elemento chiave dell’intera pellicola. E’ come se in ogni inquadratura ci sia una sorta di lavoro interno al visibile capace di svilupparsi a diversi livelli: il primo è strettamente concettuale in quanto il paradiso di casa Hoss ci appare profondamente inquietante, il secondo è capace di lavorare sul sensibile rendendo questo sentimento perturbante, chiave per far travalicare il fuori campo nella dimensione del visibile. Azzarderei che Glazer non riesce ad avere un pieno controllo sugli effetti del fuori campo ma cerca di assecondarlo creando un’opera, nella sua alta drammaticità, satura di una libertà stilistica capace di dare un contributo innovativo alla tradizione cinematografica sulla Shoah.
Inoltre, se questa ha tra le sue tematiche la privazione (o selezione) dello sguardo, tale processo da sempre è stato convertito dal cinema in una separazione tra l’opera e la sala: a questo punto si impone una questione puramente cinematografica. Abbiamo visto in altri articoli come l’orrore perda efficacia nel momento del suo manifestarsi, concetto valido sia per il cinema horror sia per l’orrore di carattere storico. Tuttavia se nell’horror cinematografico l’orrore celato ci conduce verso una tensione di tipo hitchcockiana in cui è più corretto parlare di terrore, in La zona d’interesse è la negazione stessa dello sguardo a risultare un’azione violenta capace di condurre lo spettatore in quella zona grigia tipica dei burocrati nazisti.
In La zona d’interesse l’orrore della storia si apre in un mondo chiuso in se stesso che, tuttavia, impedisce allo spettatore di cadere in quel meccanismo anestetizzante dell’intrattenimento tipico del cinema di consumo.
Non è azzardato affermare che La zona d’interesse non sia un film sulla memoria ma su quei processi culturali e psicologici che portano l’essere umano a normalizzare gli orrori del mondo rendendolo, oggi, non così diverso dagli inquilini di casa Hoss.
Claudio Suriani Filmmaker
martedì 5 dicembre 2023
KILLER OF THE FLOWER MOON (2023) DI MARTIN SCORSESE - ANCORA NULLA DI NUOVO
Andiamo per gradi: è stato messo in rilievo il legame di Killers of the Flower con le sue due opere precedenti, Silence (2016) e The Irishman (2019) al fine di rappresentare la violenza come una sorta di linguaggio universale facente parte della stessa natura umana assieme alla gestione del tempo e dello spazio attraverso un’ampia coralità di voci.
Nonostante il paragone sia del tutto legittimo, Killers of the Flower Moon con la sua enorme portata storica rischia di diventare autoreferenziale. Assodato che la struttura formale del cinema di Scorsese, a partire dalla scrittura, raramente presenta criticità ritengo che la domanda più interessante da porsi sia: attraverso la storia di Ernest e Lily cosa ci sta raccontando? Qual è il fuori campo? E, ampliando la portata del discorso, il cinema è un’arte narrativa o un’arte visiva? Cosa lo distingue dal racconto letterario?
Possiamo considerare valida l’obiezione per cui il cinema non sempre deve farsi portatore di principi morali o divenire uno strumento di lotta o utile a guidare le masse? Sembrerebbe vero per il cinema di Scorsese che sembra rispondere alla richiesta di intrattenimento se pur di qualità.
Questo è un concetto che spesso ritorna nel lavoro di Cinepeep: l’intrattenimento è figlio della società capitalistica, manca di quelle scelte formali capaci di suscitare una riflessione profonda … nel nostro caso la nascita degli Stati Uniti e la storia dei nativi americani. Inoltre uno dei mezzi più sottili, ma allo stesso tempo più efficaci per l’affermazione del potere storico e/o economico è proprio la capacità di “autocontestarsi” all’interno dei propri confini sia estetici che produttivi.
La critica a un sistema politico mossa da personaggi interni allo stesso diventa la forma più efficace della sua affermazione.
Killers of the Flower Moon è un esempio perfetto di come anche un intrattenimento di altissima qualità miri a nascondere le problematicità di un sistema che a causa dello sviluppo delle tecnologie informatiche sta radicalmente cambiando dall’interno (si pensi allo sciopero degli scrittori contro la scelta di affidarsi all’intelligenza artificiale o il proliferare di piattaforme digitali facendo perdere la centralità alla sala). Nonostante possa sembrare un aspetto del tutto secondario credo che sia di assoluta attualità in quanto ci mostra come il cinema storico, in un momento di grande rivoluzione estetico/tecnologia, non possa esimersi dall’inglobare nella sua proposta il fulcro centrale della nostra più stretta contemporaneità: la fusione tra eventi storici e un mezzo di comunicazione ormai cambiato dalle fondamenta al punto da essere considerato da alcuni obsoleto!!
Killers of the Flower Moon è uno splendido racconto su una fase decisiva della storia degli Stati Uniti carica della sapienza tecnica di un maestro come Martin Scorsese. Dal punto di vista di Cinepeep ciò che cerchiamo nel cinema e nell’audiovisivo in generale, è superare la logica anestetizzante dell’intrattenimento (se pur di qualità) per una riflessione sul ruolo delle immagini divenute ormai un’esperienza quotidiana molto diversa dall’epoca pre-rete.
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Claudio Suriani Filmmaker
sabato 25 novembre 2023
X-FILES: TELEVISIONE E BIOPOTERE
C’è ancora qualcosa da dire su una serie come X-Files, un’esperienza seriale a cui si sono ispirate tutte le indagini sulle angosce della contemporaneità? In questo articolo perlustreremo una delle tematiche più importanti dell’opera di Chris Carter: il legame tra la sfera biologica e il potere.
Se la struttura di X-Files risente di un evidente debito nei confronti di Twin Peaks (specialmente nelle prime due stagioni oltre che per la caratterizzazione del personaggio di Mulder del tutto simile a quella di Dale Cooper) per stessa ammissione di Carter dobbiamo dire che anche opere seriali come Kolchak: The Night Stalker (Universal Television 1974 – 1975) e soprattutto Ai confini della realtà (Rod Serling , 1959 – 1964) ebbero una forte influenza sul suo immaginario, riuscendo anche a evitare l’effetto nostalgia per una fantascienza ormai datata esaminando le paure legate ai meccanismi oscuri della politica (gli Stati Uniti nei primi anni novanta erano ancora alle prese con le conseguenze dello scandalo Watergate e della guerra in Vietnam) e a quel fenomeno che chiameremo ibridazione bio-tecnologica.
BIOPOTERE E IBRIDAZIONE BIOTECNOLOGICA
Computer, telefoni, televisori ma soprattutto manipolazione biologica: X-Files portò al grande pubblico il bios come strumento del potere rendendolo lo scopo primario delle dinamiche politiche attraverso fiale di DNA conservato in archivi federali o malattie indotte come il cancro di Scully e la diffusione del vaiolo, due esempi dell’incrocio tra bios e potere.
Da un punto di vista puramente formale X-Files è divisa in due parti: nelle prime quattro stagioni l’immagine ci appare come un 4:3 tipico della televisione a tubo catodico mentre dalle successive stagioni entra in campo il 16:9: televisione e cinema iniziano a dialogare.
IL RUOLO DELLA RETE NEI MECCANISMI BIO-TECNOLIGICI
Un elemento che abbiamo incontrato nei precedenti articoli sulla serialità è il fenomeno denominato Binge Watching: la visione prolungata in numerosi episodi di un’opera seriale. E’ un fenomeno capace di diventare una vera e propria dipendenza arrivando a compromettere la salute psico-fisica nonchè la vita sociale ed economica di una persona. Nonostante sia un fenomeno aggravatosi durante la pandemia da Covid 19 affonda le sue radici nello sviluppo della banda larga e nella possibilità di avere a disposizione l’intero corpus degli episodi perdendo così il valore di evento della messa in onda delle singole puntate. La rete entra nella nostra sfera dell’immaginazione e agisce sulla nostra sfera critica: nasce l’urgenza di un’analisi accurata del fenomeno.
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Claudio Suriani Filmmaker
giovedì 27 luglio 2023
INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO - In che direzione sta andando il cinema hollywoodiano?
L’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones ci pone di fronte diversi interrogativi. In primo luogo perché si continui a portare avanti le vicende di un personaggio che ha caratterizzato il cinema d’intrattenimento degli anni ottanta ma che oggi risulta estraneo alle dinamiche del cinema contemporaneo. Da sempre le opere seriali (cinematografiche e televisive) soffrono l’eccessivo protrarsi di saghe nel momento in cui superano una canonica trilogia, nel caso del cinema, o un determinato numero di episodi nel caso della televisione; nel cinema hollywoodiano (di cui Steven Spielberg è il massimo rappresentante contemporaneo) appare evidente che l’obiettivo di investire su un brand di sicuro richiamo tenda a mettere in subordine il tema cardine del nostro discorso: un personaggio come Indiana Jones, oggi, ha ancora la forza di creare nuovi mondi?
Se uno dei pregi della trilogia originaria si trova nella scrittura e conferisce ai film la forza narrativa delle grandi opere d’avventura (come Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain o l’intera bibliografia di Jules Verne) qui James Mangold si affida a una regia che mette in scena sequenze d’azione con inseguimenti in puro stile Fast & Furious e che nei momenti cruciali rischia di cadere in scelte formali sensazionalistiche facendo perdere di forza alla sua struttura narrativa, il découpage classico cede il posto a un montaggio frenetico tradendo la stessa idea di cinema dell’autore della saga. E’ difficile credere che Steven Spielberg si sia lasciato sfuggire il controllo su uno dei suoi personaggi più rappresentativi…E’ evidente che questa perdita di cura nella scrittura danneggi allo stesso tempo il potere visionario del cinema nonché il personaggio di Indiana Jones. Il cinema crea immagini-simbolo: se l’Indiana Jones anni ottanta era l’emblema di un cinema d’intrattenimento capace di creare mondi attraverso uno stile di messa in scena narrativo tipicamente hollywoodiano, Indiana Jones e il quadrante del destino soffre di una mancanza di chiarezza di intenti.
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Claudio Suriani Filmmaker
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