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mercoledì 8 febbraio 2023

TITANE (2021) DI JULIA DUCOURNAU - RIPENSARE IL RUOLO DEI FESTIVAL

Nell’approcciarmi all’analisi di Titane, film vincitore della palma d’oro al festival di Cannes del 2021, ritengo necessario porre una domanda preliminare: qual è il ruolo dei festival del cinema? Come dovrebbero contribuire alla riflessione estetica rassegne come Cannes, Venezia e Berlino? E’ una domanda centrale per analizzare uno dei quesiti fondamentali che il film della Ducournau ha suscitato nel mondo della critica. 

 

 

Titane narra le vicende di Alexia a cui  da bambina, a causa di un grave incidente, venne impiantata una placca di titanio in testa che la porterà in età adulta a sviluppare un rapporto feticistico con le auto. Il primo aspetto che balza agli occhi è il rapporto di ibridazione tra uomo e macchina. Ripercorrendo la storia del cinema notiamo che è un topos narrativo fin dai tempi di Metropolis (Fritz Lang, 1927) fino ad imporsi nel cinema contemporaneo attraverso autori come Shin'ya Tsukamoto con il suo manifesto Tetsuo (1989) David Cronemberg attraverso Crash e Videodrome (rispettivamente 1995 e 1983) opere talmente pregnanti  di significato da riuscire ad ampliare la portata del proprio messaggio nella sua declinazione digitale come in Ex Machina (Alex Garland ,2015),  E.R. intelligenza artificiale ( Steven Spielberg, 2011) oppure il capolavoro 2001, odissea nello spazio (Stankey Kubrick, 1968) in cui il rapporto con la tecnica si manifesta attraverso la nascita della stessa (come nella sequenza del primate che scopre i vari utilizzi dell’osso). A questo punto è necessario tornare alla domanda iniziale e chiederci se un film come Titane aveva la forza per imporsi nel festival di Cannes, soprattutto se pensiamo che la palma d’oro è un premio vinto da alcuni dei più grandi registi di tutti i tempi con opere che hanno creato un immaginario cinematografico moderno altamente rivoluzionario tra cui Viridiana (Louis Bunuel, 1961) Miracolo  a Milano (Vittorio de Sica, 1951) Il caso Mattei (Francesco Rosi, 1972) La conversazione e Apocalypse Now (Francis  Ford Coppola, rispettivamente 1974 e 1979) e mi fermo qui perché l’elenco sarebbe lunghissimo.


 

Titane è un film che ha una sua dignità e che si inserisce in questo sotto-genere cinematografico ma nel momento in cui approda alle vette della cinematografia internazionale perde di credibilità in quanto è un’opera che non aggiunge nulla alla riflessione teorico/estetica sull’arte cinematografica.

Le altre tematiche come la gravidanza, la sessualità fluida, il titanio come simbolo  della perdita di umanità riescono a essere carichi di un  politically correct che non può sposarsi con uno shock movie con ambizioni autoriali; paradossalmente il suo film precedente (Raw; una crudele verità, 2016) risultava essere molto più efficace perché nel suo essere altamente violento riusciva a conservare forti tratti di autenticità e di libera espressione di idee. Titane si muove su un equilibrio precario tra immaginario horror shock e desiderio di accedere all’olimpo del cinema d’autore fallendo tuttavia in entrambe le aspirazioni in quanto la storia del cinema ha dimostrato che l’immaginario horror shock percorre strade diverse da quelle dei grandi maestri e proprio attraverso questa libera espressione di sé  tali opere continuano a essere amate e a influenzare il cinema contemporaneo ( si pensi al capolavoro di Tobe Hooper The Texas Chain Saw MassacreNon aprite quella porta del 1974 e agli innumerevoli sequel e remake che ha avuto nel corso degli anni). 

 


Un altro punto di forte debolezza del film è la volontà dichiarata della regista di attribuire alle donne una sorta di dignità nella violenza emancipandole dal ruolo di vittime; attribuire alla mera violenza una sorta di rivincita sociale non solo tende ad affrontare tale tematica con profonda ingenuità ma arriva a rendere pedante un cinema che non si è mai fatto portatore di facili moralismi. La notte dei morti viventi di George Romero (1968) si inserì nella lotta per i diritti civili degli afroamericani e nel suo denunciare il razzismo dell’uomo bianco non arriva mai a essere retorico o demagogico. Avere un’autorialità forte e riconoscibile richiede il coraggio di percorrere strade inesplorate e Julia Ducournau con il suo Titane fallisce tale sfida.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

 

lunedì 6 febbraio 2023

ANNETTE (2021) DI LEOS CARAX - UNA FIABA CONTEMPORANEA

 

Annette è figlio della rinascita del musical degli anni 2000 che vede tra le proprie fila opere come The Greatest Showman (Michael Gracey, 2017), La La Land (Damien Chazelle, 2016), Chicago (Rob Marshall, 2002), Moulin Rouge! (Baz Luhrmann, 2001) e molti altri di indiscusso valore…si…ma Leos Carax viene da un film come Holy Motors in cui emerge una marcata linea autoriale… possiamo supporre quindi che Annette si distanzi dal musical classico? Vediamo…

 

 

Il primo aspetto è una scrittura caratterizzata da una volontà di velare piuttosto che di narrare. In diversi passaggi chiave i protagonisti fuggono dallo sviluppo conseguenziale degli eventi senza creare il fascino del mistero; se durante i suoi spettacoli Adam è incalzato dal pubblico con la domanda Perché sei diventato comico? è per creare una forma di spettacolo interno al film e non per portare avanti la narrazione in modo causale; emerge inoltre un vincolo che lega in modo diretto il pubblico degli spettacoli e noi spettatori. La nostra  chiamata in causa  è centrale in Annete in quanto ci spinge a creare un rapporto enigmatico (attraverso il prologo in cui Carax si rivolge direttamente a noi chiamandoci ad un surplus di attenzione) con il pubblico degli spettacoli di Henry (non di Ann in quanto il mondo della lirica non prevede un’interazione con il pubblico). Questa fusione ci permette di implementare la forza drammatica delle vicende perché lo sguardo fuori campo diventa capace di dare ad un genere ben strutturato come il musical un forte tocco di modernità.

 


Annete è caratterizzato dal legame con il mondo della drammaturgia attraverso un ulteriore elemento formale prettamente cinematografico: il piano sequenza (PS). Nonostante le teorie classiche del cinema teorizzarono il PS come un possibile mezzo per rappresentare la realtà (termine che oggi necessita di un radicale approfondimento) in quanto appartenente al découpage classico (insieme alla profondità di campo) la storia del cinema ci mostra come molte delle opere cinematografiche più innovative non solo abbiano lavorato su questo mezzo espressivo anche nella più stretta contemporaneità come Aleksandr Sokurov in Arca russa (2002), Gustavo Hernandèz con La casa muta (2012), Alfonso  Cuaron con Gravity (2013) e il cinese Bi Gan con Un viaggio lungo una notte (2018) ma ad oggi il découpage classico è una struttura formale ormai del tutto sorpassata dalle nuove tecnologie grazie alle quali l’atto di filmare diventato parte integrante della società contemporanea. La realtà del piano sequenza in Annete ci mostra un’opera carica di due echi contrapposti: la classicità della lirica incarnata da Ann e la modernità degli spettacoli comici di Henry in cui il rapporto dialettico tra attore e pubblico si esprime anche attraverso le nuove tecnologie, aspetto chiave in cui si materializza l’intermedialità dell’opera di Carax. 

 



Annette nel suo ultimo spettacolo (quello che doveva sancire il suo abbandono delle scene) appare non solo in diversi smartphone e tablet ma la sequenza termina dietro uno schermo che, a differenza dei primi spettacoli del padre, la separa non solo dal pubblico ma anche da noi spettatori. Se la tecnica diviene una barriera che si frappone tra noi e l’immedesimazione nei personaggi, questo è ancor più vero nel caso della nostra protagonista. Inoltre, a differenza di La doppia vita  di Veronica (Krzysztof Kieślowski, 1991) il suo essere marionetta per quasi l’intero film non sembra rifarsi alla grande tradizione del teatro delle marionette ma esprime l’utilizzo della tecnica come mezzo espressivo tipico del cinema contemporaneo. Nel far riemergere la voce della madre attraverso un carillon e il suo gioco di luci Annette, personaggio al limite tra tecnica e autodeterminazione, diviene il nodo focale attorno al quale ruota la svolta decisiva del film. Il personaggio di Annette è saturo di un legame innaturale con il mondo esterno portandola ad un desiderio di emancipazione che non potrà mai compiersi del tutto; dopo la sua rivincita nei confronti del padre Annette torna ad essere una marionetta … ormai abbandonata da tutti.

Nonostante il suo personaggio possa rimandare alle grandi marionette della storia del cinema è necessario ricordare che il topos narrativo dell’animazione dell’inanimato rievoca in modo diretto non solo i classici dell’horror  ma l’intero universo perturbante come le opere iconiche Eva futura (del 1886) o Frankenstein (o il Prometeo Moderno, 1816-1817) fino  al grande cinema muto tedesco con opere come Homunculus (1916) di Otto Rippert, poi con le due versioni del Golem (1914 e 1920) di Paul Wegener; con lo sberleffo di Ernst Lubitsch con Bambola di carne (Die Puppe, 1919); con Metropolis ( Fritz Lang, 1927).

Annette di Leos Carax nonostante lavori su diversi piani interpretativi riesce ad infondere allo spettatore un senso di inquietudine allo stesso tempo profondo e inafferrabile ed è su questo topos narrativo che l’intero cinema di Carax muove i suoi aspetti più interessanti.

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 13 gennaio 2023

ADIEU AU LANGAGE (2014) DI JEAN-LUC GODARD – La nuova dimensione del linguaggio cinematografico

Adieu au langage rappresenta l'atto finale di una riflessione sul rapporto tra le immagini e linguaggio e al tempo stesso sul perché il cinema non trovi più nell'essere umano il suo fulcro narrativo in quanto l'atto di filmare è divenuto un'esperienza quotidiana. Ma vi è anche una riflessione sul rapporto tra storia, immagini e lettura critica a cui lo spettatore è chiamato. 

 

 

L'obbiettivo di Godard è la decostruzione della semiotica cinematografica classica per costruire un nuovo tipo di approccio al cinema capace di fornire strumenti analitici capaci di far emergere i mille piani teorizzati da Gilles Deleuze che in Adieu Au Langage si manifestano attraverso uno schema interattivo in cui ogni frammento memoriale messo in scena da schermi e dispositivi digitali si lega a un presente dichiaratamente sfuggevole.

La macchina da presa in Godard non solo cerca di far emergere le falde del passato andate perdute ma di renderle archivio di se stesse: nell'istante in cui l'occhio meccanico crea un'immagine si apre un dialogo con le epoche successive superando la concezione cronologica del tempo. Oggi questo dialogo non può che essere tra il cinema del passato e l'immagine digitale intesa come schermo e manipolazione delle immagini in quanto tutti ormai sanno caricare video sulle varie piattaforme disponibili e creare sia piccoli montaggi che infinite copie.


 

Il concetto classico di verità deve prestare il fianco dunque a coordinate radicalmente nuove. Lo spettatore è chiamato a decidere come interpretare le immagini attraverso la propria competenza critica (specialmente per l’immagine 3D) restituendo all’occhio umano la capacità di sintetizzare, tagliare e montare. Nonostante questa sia una riflessione iniziata con le Histoire(s) Dù Cinema e proseguita con Film Socialisme, qui Godard mira a un'opera testamento indicando come la capacità di manipolare le immagini e la sovraesposizione degli schermi digitali (si pensi a Times Square) sia il tratto distintivo della nostra epoca e la necessità di inglobare nella riflessione sul cinema ogni tipologia di immagine filmata (riflessione anticipata da Ridley Scott in Blade Runner nel 1982).

 

Adieu Au Langage si articola attraverso un disordine organizzato di suoni e musiche costantemente fuori sincrono che si scontrano con lo sguardo di un cane, sguardo innocente capace di rappresentare il rovesciamento del punto di vista umano sul cumulo di macerie che la storia ci consegna in eredità e che la storia del cinema é incapace di inglobare nella sua narrazione della contemporaneità che comporta l'uso dei dispositivi multimediali, dello streaming e del filesharing che hanno trasformato in maniera irreversibile il concetto stesso di film/oggetto, la sua mercificazione e il proliferare di infinite copie sulle piattaforme digitali.

In Adieu Au Langage il concetto di soglia che caratterizza A Ghost Story si forma tra il concetto di verità come lavoro riflessivo sulla storia e sullo sviluppo della tecnica cinematografica (che ad oggi si compie nel 3D) e quello di falso inteso come radicale trasformazione di una narrazione sul cinema a cui oggi non crede più nessuno.

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 16 dicembre 2022

LA VITA DI ADELE (2013) DI ABDELLATIF KECHICHE - La forza penetrante dello sguardo


 La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013), ispirato alla grafic novel Il blu è un colore caldo ( Jul' Maroh, 2010) è la storia di una giovane ragazza che apre il suo cuore a nuove emozioni innamorandosi di Emma, più grande di lei. Nonostante sia divenuto negli anni un film simbolo della comunità LGBTQR ritengo che tale interpretazione sia errata in quanto il film narra il puro atto dell’innamoramento e non la scoperta della propria identità sessuale a differenza di film come Pride (Matthew Warchus, 2014) o Milk (Gus Van Sant, 2009). Uno dei suoi aspetti cardine è la forza penetrante dello sguardo incrociato delle protagoniste

 

 

Nell’approcciarsi a un’opera può succedere che il desiderio di analizzare ogni suo aspetto  ci faccia perdere di vista l’impatto emozionale della prima visione. L'approccio analitico/interpretativo infatti dev'essere conquistato attraverso la reiterazione in quanto il buio della sala ci pone in una condizione passiva dando vita a una serie di processi psicoanalitici teorizzati da autori come Cristian Metz, Alberto Angelini, Robert Stam e Maria Grazia Vassallo Torrigiani.

Il primo incontro tra Adele ed Emma mette in scena una dinamica assimilabile al capolavoro di Luchino Visconti Ossessione (1943): l’identificazione delle protagoniste ha inizio dallo sguardo inquadrato in primo piano e in questa doppia immedesimazione il cinema si carica dello sguardo del regista, delle protagoniste e dello spettatore. Questo triplo legame è determinante, ci spinge a riflettere sul concetto di verità nel cinema: uno sguardo rubato è capace di cambiare la vita delle protagoniste, il cinema esprime la forza di raccontare storie attraverso  singoli fotogrammi, è l’arte del hic et nunc. La vita di Adele dal punto di vista stilistico è il punto di congiunzione di alcune delle opere più significative  degli ultimi anni in particolare La classe (Laurent Cantet, 2008) e Lussuria (Ang Lee, 2007): Kechiche riesce a creare un perfetto legame estetico/narrativo ma anche una sorta di realismo visivo. Il film segue le vicende di Adele inizialmente nel suo periodo di formazione ed infine nel dolore per l’abbandono di Emma. Non esiste alcuna sovrastruttura estetica, nessun occhio morboso nelle scene erotiche: questo risultato è stato raggiunto grazie ad una direzione delle attrici rivolta a consumare ogni forma di resistenza attraverso innumerevoli ciack in particolar modo nelle sequenze più compromettenti dal punto di vista emotivo. Nonostante tale regia tirannica sia stata ampiamente criticata dalle attrici (per motivi tuttavia discutibili) è fuori dubbio che il risultato sullo schermo è incredibile in quanto la forza drammatica riesce a coinvolgere totalmente lo spettatore dando alla pellicola la stessa forza  della graphic novel.

  

La struttura è costruita attraverso un'ellissi temporale che divide il film in due parti: adolescenza di Adele e la sua vita adulta  tra insegnamento e  convivenza con Emma. Non ci è dato sapere se tra le due parti del film siano accaduti eventi determinanti, ciò che vediamo è un importante cambio di direzione delle protagoniste che le porta a trasformare la natura stessa del loro rapporto. Abbiamo visto come il film ci narri del puro atto dell’innamoramento: la rottura tra Emma ed Adele invece non risulta coerente con il racconto e ci porta quasi a tifare per la seconda. Seguendo questa impronta  il finale ci appare carico di una sottile crudeltà in quando l'ostentata indifferenza del congedo di  Emma ci arriva più dura di un sincero e sentito rifiuto. Nonostante queste, in fondo perdonabili, perplessità di struttura, La vita di Adele rimane un'opera capace di raccontare  senza inutili divagazioni ed è questo il suo maggior punto di forza.

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 Claudio Suriani Filmmaker


lunedì 28 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - PERSONAL SHOPPER (2016) DI OLIVIER ASSAYAS; La natura immateriale del cinema

 
 Gli studi psicoanalitici sul cinema creano da sempre analogie tra l'immagine filmica e le più importanti proiezioni figurative come Il sogno, il fantasma e il delirio allucinatorio. Personal Shopper è una riflessione sulla natura stessa del cinema; è un opera che si apre al lavoro elaborativo non solo della protagonista ma anche dello spettatore. Assayas mette in scena la continua ricerca di Maureen non solo del fratello defunto ma anche del senso della sua stessa vita che la vede incatenata ad un lavoro che odia e da cui si vorrebbe distaccare. Elaborare vuol dire tagliare creando del solchi talmente profondi da cambiarci del tutto, Personal Shopper è uno dei migliori film del XXI secolo e merita il premio come miglior regia al fetival di Cannes del 2016.
 
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Claudio Suriani Filmmaker
 

domenica 27 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA: SILS MARIA (2014) DI OLIVIER ASSAYAS - Una fusione tra arte e vita.

 

Sils Maria mette in scena un ventaglio di sentimenti contrapposti e speculari al tempo stesso: il rimpianto per il passato, la paura di sentimenti inconfessabili e l'amore per l'arte teatrale. Un ulteriore elemento di indiscusso valore è il forte omaggio alle caratteristiche peculiari del cinema nordico come l'isolamento delle protagoniste riscontrabile in Persona (Ingmar Bergman 1966) e Antichrist (Lars von Trier, 2009).

Sils Maria inoltre affronta la paura per un futuro ormai privo di prospettive chiedendo allo spettatore di farsi carico di sentimenti come il rimpianto che poco hanno a che fare con la dimensione dell'intrattenimento.

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 Claudio Suriani Filmmaker


giovedì 24 novembre 2022

ANATOMIA DEL FUTURO; Uno sguardo critico a Crimes of the future di David Cronenberg, 2022

 Mireille Suzanne Francette Porte, in arte Orlan, dal 1986 al 1993 si sottopose ad una serie di operazioni chirurgiche documentate e presentandole come performance artistiche. E' solo uno dei tanti esempi di quel filone dell'arte concettuale conosciuto come body art, che comprende anche il tatuaggio e il body piercing ampiamente e trasversalmente diffusi. Cronenberg ne trae spunto e lo inserisce all'interno del suo percorso tematico…ed è una deflagrazione del pensiero. In fondo le domande si ripetono uguali a se stesse nel suo cinema, ma declinate ogni volta in modo tale da perlustrarne segmenti inediti, facendo emergere in primissimo piano un aspetto, la possibilità magari di rimodulare la domanda.

Non amo parlare di generi e non non lo farò neppure questa volta.

 

Cosa ossessiona Cronenberg? Il corpo, certo...ma il corpo commisto a tecnica, scienza e politica, con continui riferimenti anche all'arte. Dobbiamo a Michel Foucault aver portato avanti studi importanti sulla Biopolitica, cioè semplicemente la politica contemporanea, in cui ciò che è in discussione e ben dissimulato, è il vivere, il lasciar morire, dare la morte, in altre parole, il controllo dei corpi. Come ci mostrò magistralmente Kubrick, l'ominazione inizia quando l'antropoide comprende che con quel femore con cui sta giocherellando può accrescere la potenza del suo braccio e impadronirsi della pozza d'acqua. Tecnogenesi ed antropogenesi coincidono. Quel femore viene lanciato in aria, gira, gira, ed è già un'astronave( 2001; odissea nello spazio, 1968), ma anche la bomba (Il dott. Stranamore, 1964). 

 

Quando parliamo di arte (e Cronemberg ne parla anche a proposito del cinema...uno scivolone che gli perdoniamo volentieri) dobbiamo ricordarci che è un concetto moderno, nato nel rinascimento e che con tutta probabilità, con buona pace del mondo dell'arte ha esaurito il suo ruolo storico. Noi parliamo di arte, di tecnica, ma i greci avevano una sola parola per dire entrambe: thècne, ma ne avevano invece almeno due per dire la vita, Bìos, vita qualificata, intimamente politica, e Zoé, nuda vita, carne mortale, vendibile e sacrificabile. Ora...cos'é umano? Questa è la domanda del secondo Crimes of the future, quello del 2022. Come non pensare a due film straordinari, quelli che ci cambiano la vita. Usciti dalla sala, dopo aver visto Blade Runner (Ridley Scott, 1982) come si può essere ancora le stesse persone? Il famoso replicante di E' tempo di morire.., una volta catturato dall'agente che deve eliminarli tutti, un blade runner, appunto, a cui ha opposto forza e intelligenza, sceglie di morire. E' già un uomo. L'altro film è Non lasciarmi (Mark Romanek, 2010). Ragazzi (cloni..) cresciuti ed istruiti solo per poter espiantare loro gli organi una volta adulti. Al terzo espianto si muore...si è completato il ciclo.

Molte malattie scompaiono in virtù di tali pratiche...vogliamo chiamarlo progresso?

Ora, a Cronenberg interessa tutto questo. Come cambiano la qualità e le prestazioni della nostra sensibilità al progredire della tecnologia con la quale da sempre abbiamo a che fare e che negli ultimi anni ha innestato marce inedite imprimendo un' accellerazione dei suoi processi e delle sue commistioni che non si era mai vista prima? E la scienza? Dove può fermarsi? Su quale soglia? Abbiamo detto che Crimes of the future del 2022 è il secondo, perché il primo, esattamente con lo stesso titolo, è del 1970, sempre di Cronenberg. Fin'ora ci si è limitati a dire che non è un remake. Lo liquidiamo così? No, vediamo un po' se ci ha voluto dire qualcosa. Il Crimes of the future del '70 finisce con il primo piano di una bambina (impossibile non pensare a Mondrian nell'allestimento scenografico del film) illesa dopo aver portato alla bocca una misteriosa e densa schiuma bianca, che è risultata tossica per tutti gli altri, nella clinica House of Skin del dott.Tripod, nella quale si combatte per tentare, tra auto-asportazioni di organi e tessuti, cavie umane, aberranti pratiche sessuali, di arrestare un virus letale originato dallo smodato uso di cosmetici.


Il secondo Crimes si apre invece con un bambino, un bel bambino con le guance paffute che gioca nell'acqua vicino ad un un grande relitto. Sarà soffocato nel sonno dalla propria madre la sera stessa, colpevole di essersi mangiato un secchio per i rifiuti...si, proprio il secchio di plastica, e averlo digerito tranquillamente. I colori brillanti di Crash (1996), di Cosmopolis, (2012) tornano ad essere cupi...gotici. Lo spazio là fuori non è più quello della città generica, uguale in ogni continente, sembrano rovine generiche piuttosto, ma non sappiamo perché.

Questa la storia: due artisti, meglio performers, Viggo Mortensen (Saul Tenser) e Léa Seydoux (Caprice, ricordiamo la sua splendida interpretazione di Emma ne La vita di Adele, Abdellatif Kechiche, 2013) si esibiscono in coppia. Il primo produce nuovi organi (tumori?) che vengono tatuati nel suo corpo per poi essere espiantati nelle loro esibizioni dalla partner, chirurga performer, grazie a una macchina che serviva un tempo per fare le autopsie.

Se la nuova clandestinità consiste nel creare un registro nazionale degli organi (perché c'è una mutazione in corso di cui non si parla ufficialmente) il poliziotto di turno, Kristen Stewart (Timling) indaga su bande di ricercatori che lavorano affinché le prossime generazioni siano in grado di far fronte alla carenza di cibo e possano alimentarsi di ciò che abbonda anziché di ciò che scarseggia, guardate un po': la plastica! Il bambino che abbiamo incontrato in apertura del film si chiama Breken...rotto. Cos'ha di rotto? La biologia. La madre l'ha concepito e portato in grembo con questa mutazione trasmessa ai suoi geni dal padre che lavora da tempo alla produzione di cibo sintetico. La madre lo uccide perché per lei è una cosa...una cosa.

Ed ecco la domanda: che cos'é umano?

  

Il finale é strepitoso, di quelli che ci piacciono. L'infiltrato Saul si convince ad ingerire una tavoletta di cibo sintetico, tossico per i più, e non capiamo se si é convertito alla causa della banda o lo fa per portare avanti la produzione di tumori. Questi personaggi sono circondati da macchine senza le quali non sarebbe possibile esibirsi, dormire, mangiare. La macchina non è fuori, é il corpo stesso di Saul. Il dolore é bandito, é una civiltà anestetizzata, ma si può inseguire con le macchine: é il nuovo sesso. Quando Saul addenta, mastica, ingerisce una barretta sintetica é avvolto in una di queste che respira ad ogni suo respiro.

C'é a questo punto un avanzamento della macchina da presa, un primissimo piano, il colore defluisce dallo schermo. La macchina respirante si ferma, Saul sorride, una lacrima solca le sue guance. Nel Crimes del 1970 la bambina é illesa, ma dagli occhi del dottor. Tripod di fronte a lei, dopo aver ingerito la medesima sostanza, scendono lacrime viola. L'antropogenesi procede per salti. Uno l'abbiamo sotto i nostri occhi: sono i nativi digitali. Qual'é la sorte di Saul? Perché la macchina si é fermata? Sta morendo? Si é compiuta una mutazione del suo DNA? La ricchezza di senso nei conti che non si chiudono é la cifra di un film riuscito. Ad noi tutt* le risposte e la formulazione di nuove domande.

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Giusy Catapiani

nata a Viareggio il 19-03-1960

Filosofa, allieva di Pietro Montani 

Regista

Collabora con Cinepeep come redattrice e corretrice di bozze


LES REVENANTS (2012 - 2015) di Fabrice Gobert. Il legame tra il tempo e il corpo.


  La serie televisiva Les Revenants di Fabrice Gobert è andata in onda per la prima volta in Francia nel 2004 sull’emittente privata Canal+; è una serie tv che si distacca in molti punti dall’immaginario zombie (come ad esempio da The Walking Dead) in quanto pone al centro la morte non come termine della vita (portando come conseguenza il disfacimento del corpo) ma come intervallo tra due esistenze. 

La storia è la seguente: dopo anni da un incidente stradale in cui morì un intera scolaresca (evento traumatico non solo per i singoli personaggi ma per un intera comunità) i defunti iniziano a tornare in modalità e tempi diversi con l’intenzione di riprendere le loro vite e i loro affetti più cari.  Il primo aspetto che appare decisivo nel suo discostarsi dall’immaginario zombie è dato dal corpo; i ritornati non sono caratterizzati dalla decomposizione in quanto mantengono intatte le proprie sembianze. Non importa quanto tempo sia passato; il trascorrere del tempo non intacca la loro carne in quanto sono al di fuori della concezione cronologica del tempo. Il secondo trauma che segnò la comunità è dato dalla rottura dell’enorme diga avvenuta trent’anni fa che, una volta ricostruita, segnerà la vita degli abitanti non solo attraverso la continua minaccia di una nuova catastrofe ma anche attraverso continui black out elettrici. I capolavori del cinema zombie hanno sempre portato avanti forti tematiche di denuncia sociale; se in La notte dei morti viventi (George Romero, 1968) emergono diverse tematiche ed interpretazioni tutte riconducibili alla politica razziale americana, in Les Revenants la presenza minacciosa della diga è un monito ad avere giustizia per le quattrocentoventuno vittime del disastro francese del 1959 (in Italia ricordiamo il disastro del Vajont del 1963). Appare chiaro come l’aspetto centrale della serie sia la morte nella sua declinazione temporale; se nella cultura occidentale la morte rappresenta il punto finale dell’esistenza, il ritorno da essa diviene il rovesciamento della forza accusatoria della storia nei confronti dei vivi. La morte non è più un evento del singolo ma diventa il ritratto di un epoca caratterizzata da grandi disastri mai elaborati. Fin dal film di George Romero la rappresentazione del non morto supera una scontata estetica horror per affrontare tematiche caratterizzanti della contemporaneità come l’entrata della tecnica nella vita biologica; percorsi biotecnologici che portano a pensare all’immortalità come qualcosa di non più così lontano da noi acquisendo risvolti profondamente perturbanti.

 

I revenant, hanno una duplice caratterizzazione: il soddisfacimento di alcuni bisogni primari (come cibo e rapporti sessuali) e una forte spinta etica: portare a compimento ciò che lasciarono incompiuto in vita a differenza dei vivi che non riescono a staccarsi da sentimenti dolorosi come il senso di colpa e la rassegnazione per non poter più cambiare le proprie vite. La tematica del tempo si imbatte in una sovversione della naturale capacità degli esseri umani di incidere nel mondo; secondo Carlo Rovelli Non c’è passato, non c’è presente, non c’è futuro. Il tempo è solo un modo per misurare il cambiamento. Una delle sovversioni naturali attorno alla quale ruota Les Revenants è l’incapacità dei vivi di incidere sugli eventi per creare cambiamenti di rotta decisivi alla narrazione (es: Thomas attraverso il suo lavoro di gendarme prova invano a difendere la frontiera dell’ordine naturale delle cose mentre Pierre non riesce ad imporre la sua delirante visione religiosa degli accadimenti se non attraverso un apocalittica convivenza tra vivi e morti) ma anche sulla natura ambigua di alcuni di loro (Serge divora le sue vittime incarnando una delle caratteristiche classiche dello zombie mentre Lena e Julie avendo avuto gravissimi incidenti in passato – Julie aggredita da Serge e Lena cadde dalle scale per mano del padre – vivono per l’intera serie nell’ambiguità sull’essere vive o morte). Il tempo nella narrazione di Les revenants non arriva mai a chiarire il suo effetto sugli eventi narrati e sui protagonisti mettendo in luce che i meccanismi che lo animano sono di carattere riflessivo: una sorta di trattato sulla perdita. Il mancato chiarimento dei meccanismi del tempo è animato anche dalla scelta di un piccolo centro montano in quanto l’immagine della città è da sempre caratterizzata da un forte movimento interno anche fin i più semplici come l’apertura e la chiusura dei negozi; il movimento interno della città è riconducibile a cambiamenti epocali poiché è proprio attraverso i dettagli che possiamo scoprire la caratteristiche di un processo di transizione. Il piccolo centro di montagna sembra invece andare in direzione contraria grazie a diversi fattori: il primo è il suo essere circondato non solo da grandi montagne ma anche da un manufatto dell’uomo (come una diga) in un’unione tra tecnica e ambiente che porta alla caratterizzazione sia del tempo della rappresentazione sia alla presenza di alcuni locali stereotipati come Lake Pub e American Diner aumentano la sensazione di un ambiente chiuso in se stesso in quanto o estranei al tema narrativo centrale (American Diner) o luoghi in cui gli eventi dei protagonisti non arrivano mai a una radicale inversione di rotta (Lake Pub). Il punto focale dell’intera struttura narrativa è il superamento di tematiche paranormali di ordine generico per essere ricondotta a tematiche nell’ambito del possibile come il dramma familiare (e comunitario) e l’elaborazione del lutto. Una delle peculiarità della serie di Fabrice Gobert è la capacità di superare l’antinomia sia del codice della realtà sia del codice dell’incongruo creando una struttura narrativa strettamente personale staccandosi anche da I segreti di Twin Peaks a cui spesso è stata accostata. 


Les Revenants nasce dal tema centrale di La Metamorfosi di Franz Kafka: nonostante siamo sicuri dell’avvenuta trasformazione di Gregor, ciò che ci cattura non è l’orrore della visione ma i drammi familiari dei protagonisti; drammi caratterizzati dal riemergere di un lutto mai del tutto elaborato. La caratteristica del tempo individuata in precedenza (il tempo legato da una natura strettamente biologica) si arricchisce di una nuova sfumatura; gli eventi sono mossi dalla ricerca di un peculiare percorso narrativo; se inoltre consideriamo l’idea di Slavoj Zizek del non-morto come fantasia fondamentale della cultura di massa contemporanea il tempo si arricchisce di un ulteriore peculiarità: la creazione dell’avatar come creatura simbolo della contemporaneità digitale. Quest’ultimo elemento, nonostante tenda a distaccarsi dalla tipologia classica delle creature di confine (vampiri, zombie, fantasmi) possiede, tuttavia, alcuni elementi della sua narrazione profondamente classica; l’elemento che analizzeremo è il ritorno alla propria terra. Un ulteriore elemento di analisi in Les Revenants è la casa: strumento di protezione nei confronti in primo luogo della Gendarmeria e in seguito dai revenant stessi. Entrambe le stagioni sono animate da una forza che tende a dividere le due comunità creando una tensione basata sulla resistenza al cambiamento strutturale del canone del genere zombie ed in seguito la stessa struttura temporale del testo. Nella seconda serie la struttura narrativa di Les Revenants acquista ulteriori elementi proprio legati al significato della casa: attraverso il personaggio di Serge indagheremo una tematica che ci aiuterà a chiudere il cerchio della nostra riflessione: il legame tra vittima e carnefice. Abbiamo visto come tra i protagonisti ce ne siano alcuni dalla natura non definita (Lena, Joulie e Adele); a loro si aggiunge il personaggio di Serge che fin dall’episodio pilota acquista caratteristiche classiche del non/morto

 

Nell’episodio Mme Costa accade un evento che segna un profondo cambio di rotta nella figura stessa del revenant e del loro ritorno nell’universo dei vivi: in casa di Serge e Toni arrivano le vittime di Serge e resteranno come una presenza silenziosa ma profondamente inquietante. Avendo appurato come il revenant torna nel mondo dei vivi per concludere il proprio scopo della vita terrena e di come la natura stessa del personaggio influenza gli eventi del proprio luogo di riferimento, la casa di Tony e Serge assume una natura perturbante in quanto luogo di confine tra due mondi rappresentati arrivando a sovrapporsi; il loro silenzio determina non solo che i morti sono ormai tra i vivi e non se ne andranno per mano loro ma soprattutto la venuta meno del linguaggio come creatore di spazi e di storie. Nel momento in cui la casa diviene uno spazio abitato esclusivamente dai revenant il tempo prevarica la struttura narrativa creando un corto circuito ormai irreversibile; queste donne sembrano non avere altro scopo che spingere Serge ad una elaborazione delle proprie azioni in vita; elaborazione che tuttavia non arriverà mai ad una svolta decisiva creando una dimensione temporale tipica degli spazi di confine in cui non esiste più ne un passato da elaborare (queste donne non rivendicano nulla) ne un futuro nella sua natura di autodeterminazione (queste donne a differenza degli altri revenant non solo non parlano ma non hanno nessuno scopo apparente) vivendo in un continuo istante presente e riaffermando il limbo dantesco come topos narrativo degli spazi di confine.

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Claudio Suriani Filmmaker 







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