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sabato 18 marzo 2023

PILLOLE DI CINEMA - LA GRANDE ABBUFFATA (1973) DI MARCO FERRERI – IL SESTO CANTO DELL’INFERNO

La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) ci trasporta a pieno titolo nel terzo cerchio dell’Inferno (Come nel già incontrato Picnic ad Hanging Rock l’immaginario dantesco riemerge in tutta la sua forza) in cui il cibo, elemento vitale per antonomasia, diventa non solo uno strumento di morte ma, attraverso un’opera divenuta un pilatro del cinema grottesco italiano (e forse mondiale) riesce a imporsi nella storia del cinema nonostante l’ostracismo della giuria del festival di Cannes del 1973 nel quale fu presentato. 

 

In La grande abbuffata tutto si gioca sul corpo e sulla perdita di ogni possibile orizzonte di riferimento (persino quello del piacere) in quanto i protagonisti non arrivano mai a provare alcun tipo di soddisfazione … né sica né morale. Persino la morte viene vissuta con noia e indifferenza, proprio come nell’Inferno dantesco mangiare è una condanna autoinflitta che si racchiude nella frase divenuta celebre … se non mangi tu non puoi morire. Uno dei grandi meriti  de La grande abbuffata (e dell’intera filmografia di Marco Ferreri)  è quello di aver rivitalizzato una scena cinematografica come quella italiana in cui non solo la censura era ancora molto forte (lo sanno bene Ciprì e Maresco per Totò che visse due volte per aver realizzato il primo film vietato  a tutti - film del 1998 - e Pier Paolo Pasolini per Teorema - del 1968 sequestrato direttamente dalla procura di Roma - solo per citare i casi più famosi) e di essersi imposto nella storia del cinema contemporaneo per la sua forza visionaria  perché, come scrisse Gilles Jacobs, è un film Cinico, nichilista, disturbante, imprescindibile: un film moderno come il suo autore, osteggiato, censurato e sopravvissuto fino a divenire un classico. Un sorridente studio della fisiologia intestinale, una fiaba visionaria sulla società dei consumi, in tutta la sua oscenità, e sull'eccesso come arte. 

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 Claudio Suriani Filmmaker

martedì 10 gennaio 2023

PERSONA (1966) DI INGMAR BERGMAN - Il racconto dell'orgia

Da sempre cariche di desiderio, le immagini cinematografiche hanno il potere di stimolare le pulsioni più inaccessibili generando tra gli altri, due effetti ancora oggi determinanti. Nei primi anni del novecento il cinema fu definito un’arte pornografica per via dello sguardo dello spettatore ritenuto non contemplativo (tipico delle arti classiche) ma feticistico, mentre altrove stava acquisendo un profondo valore politico grazie al lavoro di registi/teorici come Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn. Emerge in ogni caso la capacità di parlare sia al singolo che alle masse alimentando la dimensione del desiderio (di natura erotica, sociopolitica o altro). Persona (Ingmar Bergman, 1966) narra la vicenda dell’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ulmann) e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson): la prima è colta da una profonda crisi che la trascinerà in uno stato di mutismo mentre la seconda la assisterà prima in clinica, poi in una casa al mare dove le due donne si recheranno per far ritrovare alla Vogler la serenità perduta. Tra loro nasce subito una forte intesa che culminerà la sera del primo giorno in cui Alma, in un inarrestabile flusso di coscienza, le racconta l’esperienza di un'orgia sulla spiaggia con persone a lei sconosciute. 

 

Se consideriamo questa sequenza come uno dei cardini dell’intera pellicola vediamo come Bergman non cada nel facile meccanismo del flashback affidando alla parola il valore erotico degli eventi narrati. Il desiderio di raccontare di Alma tuttavia contrasta con il silenzio di Elisabeth creando una tensione carica di un erotismo non appagato in quanto Elisabeth non offre alcuna reazione ai suoi racconti. E’ una sequenza in cui emergono le dinamiche del mito (si pensi alle Erinni o a Edipo) e dell’opera shakespeariana in cui si evince che non esiste erotismo privo di tragedia. Persona è un’opera non solo sulla tensione erotica tra le protagoniste ma anche sull’incomunicabilità. Considerando l’assunto teorico di Christian Metz secondo cui il cinema è un mezzo di espressione e non di comunicazione, il crescente contrasto che viene a crearsi tra Alma ed Elisabeth arriva a rappresentare il conflitto tra un linguaggio autoreferenziale (Alma) e l’incapacità di saper corrispondere agli eventi del mondo (Elisabeth di fronte all’immagine del monaco in fiamme si smarrisce per sempre). Questo conflitto interno deflagra attraverso un atto traumatico (la sequenza dell’acqua bollente): è un’ azione di rottura attraverso cui vengono meno i processi di identificazione tipici del cinema narrativo portando l’opera verso la tragica seconda parte. Alma spaventa Elisabeth, pur riuscendo a farla parlare e ottiene come risultato l’inibizione della pulsione erotica descritta conducendole verso un finale che le allontanerà del tutto. Tuttavia, nell’istante stesso in cui Elisabeth pronuncia quelle poche parole emerge la forza veritativa dell’immagine cinematografica: un istante, allo stesso tempo folgorante e sfuggente, capace di sottrarsi al ferreo controllo della messa in scena autoriale esattamente come una pellicola che si brucia all’improvviso durante la proiezione. Un ulteriore aspetto determinante è il rapporto simbiotico che si viene a creare tra personaggio e strumento cinematografico. Bergman lavora sulla rimozione dell’idea di spettacolo scarnificando a tal proposito lo stesso dispositivo tecnico: immagine proiettata sottoposta all’impermanenza del mondo. 

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Claudio Suriani Filmmaker

mercoledì 14 dicembre 2022

HANAPPE BAZOOKA (1992) DI KAZUO KOIKE - I nostri demoni

Il mondo degli anime è divenuto nel tempo parte integrante del cinema contemporaneo: registi come Hayao Miyazaki, Satoshi Kon e Katsuhiro Ōtomo (già incontrato nella recensione di Akira) riescono non solo ad influenzare il cinema mainstream (si pensi all'influenza di Perfect Blue in Mulholland Drive - David Lynch, 2001 - o sui primi film di Darren Aronofsky) ma a far defragrare l'ingombrante canone dell'animazione disneyana.

   

 Hanappe Bazooka, di Kazuo Koike, non rientra tra i capolavori del genere. La trama è la seguente: il giovane Hanappe è un liceale timido e insicuro follemente innamorato della giovane Takayanagi e vittima degli abusi dei bulli del quartiere. Un giorno, nell’atto di masturbarsi davanti ad un filmato pornografico, riesce ad evocare due spiriti demoniaci: Bazooka e Mefisto Dance, spiriti che sembrano animare nel giovane Hanappe le sue più profonde paure (specialmente verso Mefisto Dance verso la quale prova un misto di attrazione e terrore primordiale). Hanappe Bazooka è caratterizzato da una scrittura tipica del cinema di genere asiatico presentando, tuttavia, evidenti limiti strutturali.

Ci sono al suo interno diverse tematiche eterogenee che non arrivano mai ad un significativo approfondimento: è un commedia romantica, un fantasy e a tratti un horror fino a sfociare in una pornografia infantile incapace di centrare il suo obiettivo: la rappresentazione delle pulsioni sessuali adolescenziali. 


Un ulteriore aspetto sviluppato debolmente è dato dal ruolo dei personaggi di Bazzoka e Mefisto: entrambi costringeranno il giovane Hanappe a sviluppare una forza tale da trasformare tutte le sue insicurezze verso un finale caratterizzato da un misticismo dal sapore evocatorio anch’esso privo di un approfondimento adeguato. Nonostante l’autore dimostra di sapersi destreggiare tra mille generi diversi, Hanappe Bazooka alla fine della visione lascia diversi interrogativi; il suo principale demerito è di aprire troppe strade interpretative senza chiuderne, in realtà, neanche una. Se ci si approccia al film con un animo leggero a puro scopo ludico è un aspetto tutto sommato trascurabile ma ad un occhio critico di spettatori navigati ciò risulta un aspetto determinante rendendo l’opera lontana anni luce dai capolavori del genere (come il già incontrato Akira o Paprika e Perfect Blue di Satoshi Kon). Personalmente è un opera che non mi sento di sconsigliare ma da guardare con profondo senso critico.

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 Claudio Suriani Filmmaker

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