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lunedì 11 novembre 2024

MISERICORDIA (2023) DI EMMA DANTE IL CINEMA DELLA CATARSI MANCATA


 

La catarsi è un atto di liberazione spirituale che produce eventi. Per Aristotele era il risultato della tragedia classica sugli spettatori e ci accorgiamo di come Misericordia ( Emma Dante, 2023) cerca di percorrere tale sentiero fallace tuttavia proprio nel finale … momento catartico per eccellenza. Al termine della visione sorge il tragico sospetto che le regole commerciali delle produzioni Rai Cinema abbiano influenzato il lavoro di una delle registe più importanti del panorama culturale contemporaneo. E dire che per la sua intera durata Misericordia si impone come un’opera dall’altissima forza comunicativa: è una storia di degrado in cui la disabilità di Arturo, nonostante i suoi gravi effetti sulle sue facoltà mentali, lo porta a incarnare quel ruolo di personaggio guida, ultima realtà di un orizzonte privo di un qual si voglia futuro. Emergono numerosi riferimenti a importanti opere cinematografiche: lo spazio urbano devastato di Gummo (Harmony Korine, 1997), bambini dalle sembianze minacciose simili ai protagonisti di opere come Anche i nani hanno cominciato da piccoli (Werner Herzog, 1970) senza dimenticare il grande cinema italiano in cui appare un chiaro riferimento a Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976) privo tuttavia di quella profonda ironia che caratterizzava il capolavoro del maestro. Allargando all’intera opera ci accorgiamo di come manchi di coerenza strutturale. Se nell’opera di Ettore Scola l’ironia è una costante dell'intero film realizzando un capolavoro di perfetta fusione di orizzonti divergenti, in Misericordia il finale è un corpo estrano rispetto all’universo rappresentato incapace di realizzare l’effetto shock a cui avrebbe potuto ambire: Arturo ci appare come una creatura mitologica, metà adulto e metà bambino identificato in psicologia con il termine Puer aeternum (per un approfondimento rimandiamo ad opere come La psicologia dell'archetipo del bambino di Carl Gustav Jung (articolo contenuto nella quarta parte di Archetipi e inconscio collettivo (Opere, volume 9) e Il problema del Puer Aeternus di Marie-Louise von Franz (1950).


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 Claudio Suriani Filmmaker

sabato 18 marzo 2023

PILLOLE DI CINEMA - LA GRANDE ABBUFFATA (1973) DI MARCO FERRERI – IL SESTO CANTO DELL’INFERNO






La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) ci trasporta a pieno titolo nel terzo cerchio dell’Inferno (Come nel già incontrato Picnic ad Hanging Rock l’immaginario dantesco riemerge in tutta la sua forza) in cui il cibo, elemento vitale per antonomasia, diventa non solo uno strumento di morte ma, attraverso un’opera divenuta un pilatro del cinema grottesco italiano (e forse mondiale) riesce a imporsi nella storia del cinema nonostante l’ostracismo della giuria del festival di Cannes del 1973 nel quale fu presentato. 

 

In La grande abbuffata tutto si gioca sul corpo e sulla perdita di ogni possibile orizzonte di riferimento (persino quello del piacere) in quanto i protagonisti non arrivano mai a provare alcun tipo di soddisfazione … né sica né morale. Persino la morte viene vissuta con noia e indifferenza, proprio come nell’Inferno dantesco mangiare è una condanna autoinflitta che si racchiude nella frase divenuta celebre … se non mangi tu non puoi morire. Uno dei grandi meriti  de La grande abbuffata (e dell’intera filmografia di Marco Ferreri)  è quello di aver rivitalizzato una scena cinematografica come quella italiana in cui non solo la censura era ancora molto forte (lo sanno bene Ciprì e Maresco per Totò che visse due volte per aver realizzato il primo film vietato  a tutti - film del 1998 - e Pier Paolo Pasolini per Teorema - del 1968 sequestrato direttamente dalla procura di Roma - solo per citare i casi più famosi) e di essersi imposto nella storia del cinema contemporaneo per la sua forza visionaria  perché, come scrisse Gilles Jacobs, è un film Cinico, nichilista, disturbante, imprescindibile: un film moderno come il suo autore, osteggiato, censurato e sopravvissuto fino a divenire un classico. Un sorridente studio della fisiologia intestinale, una fiaba visionaria sulla società dei consumi, in tutta la sua oscenità, e sull'eccesso come arte. 

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 Claudio Suriani Filmmaker

martedì 10 gennaio 2023

PERSONA (1966) DI INGMAR BERGMAN - Il racconto dell'orgia


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a sempre cariche di desiderio, le immagini cinematografiche hanno il potere di stimolare le pulsioni più inaccessibili generando tra gli altri, due effetti ancora oggi determinanti. Nei primi anni del novecento il cinema fu definito un’arte pornografica per via dello sguardo dello spettatore ritenuto non contemplativo (tipico delle arti classiche) ma feticistico, mentre altrove stava acquisendo un profondo valore politico grazie al lavoro di registi/teorici come Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn. Emerge in ogni caso la capacità di parlare sia al singolo che alle masse alimentando la dimensione del desiderio (di natura erotica, sociopolitica o altro). Persona (Ingmar Bergman, 1966) narra la vicenda dell’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ulmann) e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson): la prima è colta da una profonda crisi che la trascinerà in uno stato di mutismo mentre la seconda la assisterà prima in clinica, poi in una casa al mare dove le due donne si recheranno per far ritrovare alla Vogler la serenità perduta. Tra loro nasce subito una forte intesa che culminerà la sera del primo giorno in cui Alma, in un inarrestabile flusso di coscienza, le racconta l’esperienza di un'orgia sulla spiaggia con persone a lei sconosciute. 

 

Se consideriamo questa sequenza come uno dei cardini dell’intera pellicola vediamo come Bergman non cada nel facile meccanismo del flashback affidando alla parola il valore erotico degli eventi narrati. Il desiderio di raccontare di Alma tuttavia contrasta con il silenzio di Elisabeth creando una tensione carica di un erotismo non appagato in quanto Elisabeth non offre alcuna reazione ai suoi racconti. E’ una sequenza in cui emergono le dinamiche del mito (si pensi alle Erinni o a Edipo) e dell’opera shakespeariana in cui si evince che non esiste erotismo privo di tragedia. Persona è un’opera non solo sulla tensione erotica tra le protagoniste ma anche sull’incomunicabilità. Considerando l’assunto teorico di Christian Metz secondo cui il cinema è un mezzo di espressione e non di comunicazione, il crescente contrasto che viene a crearsi tra Alma ed Elisabeth arriva a rappresentare il conflitto tra un linguaggio autoreferenziale (Alma) e l’incapacità di saper corrispondere agli eventi del mondo (Elisabeth di fronte all’immagine del monaco in fiamme si smarrisce per sempre). Questo conflitto interno deflagra attraverso un atto traumatico (la sequenza dell’acqua bollente): è un’ azione di rottura attraverso cui vengono meno i processi di identificazione tipici del cinema narrativo portando l’opera verso la tragica seconda parte. Alma spaventa Elisabeth, pur riuscendo a farla parlare e ottiene come risultato l’inibizione della pulsione erotica descritta conducendole verso un finale che le allontanerà del tutto. Tuttavia, nell’istante stesso in cui Elisabeth pronuncia quelle poche parole emerge la forza veritativa dell’immagine cinematografica: un istante, allo stesso tempo folgorante e sfuggente, capace di sottrarsi al ferreo controllo della messa in scena autoriale esattamente come una pellicola che si brucia all’improvviso durante la proiezione. Un ulteriore aspetto determinante è il rapporto simbiotico che si viene a creare tra personaggio e strumento cinematografico. Bergman lavora sulla rimozione dell’idea di spettacolo scarnificando a tal proposito lo stesso dispositivo tecnico: immagine proiettata sottoposta all’impermanenza del mondo. 

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Claudio Suriani Filmmaker

martedì 22 novembre 2022

GINGER E ROSA (2012) DI SALLY POTTER - La fuga dalla prigione terrestre


Il 4 ottobre del 1957 l’Unione Sovietica lanciò in orbita il satellite Sputnik (in italiano compagnuccio di strada); fu un evento decisivo per la contemporaneità per due motivi principali: il primo, di natura politica, è che diede vita alla corsa allo spazio (elemento determinante per l’inasprimento della guerra fredda) mentre il secondo, di ordine estetico, portò l’immaginario collettivo verso il superamento della prigione terrestre dando vita all’idea del mondo divenuto immagine

Analizzando questi due aspetti propedeutici al nostro percorso, notiamo come siano conseguenziali in quanto il conflitto tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti si combattè anche sul fronte della corsa agli armamenti nucleari e che la prospettiva di un’imminente catastrofe fece considerare l’abbandono del nostro pianeta come una via del tutto percorribile per la salvaguardia della specie. Per la prima volta l’essere umano viene privato del mondo generando un shock di ordine concettuale. Ginger e Rosa (Sally Potter, 2012) vive di queste dinamiche interne; sono amiche fin dall’infanzia e, passando attraverso diverse avventure tipiche degli anni dell’adolescenza, approdano all’attivismo politico rivolto al bando degli armamenti nucleari. Tuttavia il loro impegno le farà approdare verso orizzonti profondamente diversi: Rosa (Alice Englert) arriverà ad avere una relazione con il padre di Ginger che ne sarà traumatizzata (soprattutto quando la madre a tal riguardo tenterà il suicidio).

Il legame fra trauma storico e trauma individuale è tipico del cinema di genere del secondo dopoguerra; se nel giapponese Godzilla (Ishiro Honda, 1954) affrontava il trauma collettivo del bombardamento nucleare in chiave fantasy e se gli Stati Uniti affrontarono la lotta al nemico comunista attraverso l’applicazione di stringenti codici regolamentari, era chiaro in entrambi i casi che questi eventi si sarebbero imposte come cesure storiche irreversibili. Se il cinema americano cercò di elaborare questo doppio risvolto del trauma attraverso pellicole come Shutter Island (M. Scorsese, 2010) o Redacted (B. DePalma, 2007), Ginger e Rosa aggiunge elementi tipicamente britannici a questa riflessione. 

 Il primo riguarda le dinamiche familiari.

Ginger e Rosa sembra rifarsi a A Family Life (Ken Loach, 1971) in cui tali dinamiche sono inserite in un clima sociopolitico fortemente oscurantista ed oppressivo. La sola idea che la terra potesse realmente essere distrutta influenza in modo decisivo le vicende dell’opera; Ginger nel venire a conoscenza della relazione tra Rosa e il padre si rifugia in un attivismo acritico ormai incapace di scindere i piani del proprio dolore con conseguenze dirette sul linguaggio e sulla sua capacità riflessiva (come nella sequenza in cui Ginger, piangendo, perde la capacità di distinguere tra la propria lotta politica e la propria sofferenza).

 

Proprio come nei film di De Palma e Scorsese, l’elaborazione degli eventi storici è affidata al lavoro del singolo; proprio come molti sopravvissuti ad Auschwitz Ginger perde la capacità di raccontare poichè il linguaggio è una diretta conseguenza dell’elaborazione psichica del proprio vissuto e nel venir meno del padre e della sua amica d’infanzia (il proprio orizzonte di riferimento) viene meno il suo essere nel mondo. Tuttavia le tematiche di Ginger e Rosa non sono sostenute da una messa in scena ad esse coerente, essendo di stampo classico hollywoodiano, in cui il montaggio è celato. Il valore politico dell’immagine nasce nel cinema sovietico degli anni venti attraverso l’opera di autori/teorici come Sergej Ėjzenštejn e Dziga Vertov che lavorando rispettivamente sul montaggio e sullo sdoppiamento del punto di ripresa gettarono le basi per ciò che W. Benjamin definì la politicizzazione dell’arte. Ginger e Rosa trova nell’indagine psicologica della giovane protagonista e sul cinema come lotta politica un punto di indiscusso valore (sostenuta da una grandissima Elle Fanning); tuttavia Sally Potter non riesce a cogliere i tratti caratteristici della nostra più stretta contemporaneità in cui il cinema sta subendo un profondo cambiamento di ordine sia formale che concettuale proprio per la sua scelta incongruente. Nonostante ciò il film risulta meritevole di una visione e di una profonda riflessione.

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Claudio Suriani Filmmaker 

 

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