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venerdì 22 settembre 2023

OPPENHEIMER (2023) DI CHRISTOPHER NOLAN - MINACCIA NUCLEARE ED INTRATTENIMENTO



Con il mese di settembre inizia una nuova stagione di Cinepeep e data l’incombenza dei maggiori festival del cinema europei (Venezia, Cannes e Berlino) e l’uscita di pellicole divenute veri e propri fenomeni mediatici ci apprestiamo ad indagare la natura delle opere che più stanno facendo discutere in questo periodo.

Il primo film in questione è Oppenheimer (Christopher Nolan, 2023).

Partiamo da considerazioni di ordine generale: in primis Christopher Nolan ad oggi è uno dei brand più influenti del cinema americano contemporaneo, capace di indirizzare lo sguardo dello spettatore cinematografico medio e riportarlo al cinema rafforzando il legame tra l’opera e la sala, luogo naturale per la sua fruizione.

Se consideriamo ciò un elemento di indiscusso valore (in quanto oggi il cinema rischia di subire una trasformazione epocale passando da un’esperienza comunitaria a pura esperienza di solitudine a causa del proliferare delle piattaforme streaming) un film come Oppenheimer si inserisce in un contesto storico in cui non solo la tematica del nucleare è diventata di grande attualità  a livello civile (l’incidente di Fukushima e le relative conseguenze) e militare (la guerra in Ucraina e la relativa minaccia nucleare) e si propone come un’opera carica di ridondante classicismo creando una frattura tra forma e sostanza.




Nel corso del lavoro di Cinepeep abbiamo indagato più volte il legame tra l’opera e il tempo, tra produzione e fruizione:  Oppenheimer appare come una sorta di capitolo finale di un percorso rivolto a scandagliare i misteri della fisica di Interstellar (2014) e Tenet (2020) in relativo racconto bellico di Dunkirk (2017) punto di congiunzione tra due mondi apparentemente distanti ma che, nel corso del XX secolo, hanno trovato una tragica comunione di intenti.

Il cinema di Christopher Nolan è privo di elementi innovativi proprio in virtù del suo essere profondamente hollywoodiano e, di conseguenza, incapace di innovare il linguaggio filmico fornendo a uno spettatore navigato il gusto amaro del già visto.

Data la rilevanza storica del tema trattato è necessario interrogarsi se attraverso le vicende di J. Robert Oppenheimer, Nolan abbia voluto prendere posizione sull’uso dell’energia nucleare e in caso affermativo se ci sia riuscito.

Io penso che il suo intento fosse questo…ma che non ci sia riuscito.

Il cinema ha affrontato il tema delle armi atomiche da diversi punti di vista: dal romanticismo di Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais, 1959) alla forza grottesca de Il dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964) fino a A prova di errore (Sidney Lumet, 1964 considerato a torto uno dei suoi film minori). La classicità dell’opera di Nolan non ha la forza di creare un filo conduttore con le opere citate in quanto l’assenza di una marca autoriale riconoscibile non fa emergere la posizione di Nolan rispetto agli eventi narrati e neppure sui rischi nucleari contemporanei facendo emergere dal film la totale assenza di sottotesti efficaci.

Se il cinema di Christopher Nolan può rientrare a pieno titolo nella categoria dell’intrattenimento (settore in cui ha dimostrato il meglio delle sue capacità registiche) è doveroso interrogarsi sul valore etico dell’opera in questione … specialmente su una tematica così drammaticamente attuale come la minaccia nucleare come arma di offesa.





Inoltre in Oppenheimer si articola una sorta di relativismo culturale attraverso la descrizione del nostro protagonista combattuto tra un acritico senso di responsabilità e la percezione dell’orrore che andava costruendo.

Se Hollywood rappresenta uno dei maggiori imperi economici dell’America, un film come Oppenheimer non ha la forza di opporsi alla sua politica atomica, una delle maggiori forme di potere, e fallisce il tentativo di elaborazione del trauma storico di Hiroshima e Nagasaki.

Il cinema di Christopher Nolan rappresenta il filo conduttore che lega potere economico e industria dell’intrattenimento e nel momento in cui si affrontano tematiche con forti implicazioni storico/filosofiche ed etiche si esce inevitabilmente da quell’ambito di cui è resta esemplare la trilogia su Batman (Batman Begins del 2005, Il cavaliere oscuro del 2012 e Il cavaliere oscuro; Il ritorno del 2012) che, decisamente, ci sembra più nelle sue corde.


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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 27 luglio 2023

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO - In che direzione sta andando il cinema hollywoodiano?

L’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones ci pone di fronte diversi interrogativi. In primo luogo perché si continui a portare avanti le vicende di un personaggio che ha caratterizzato il cinema d’intrattenimento degli anni ottanta ma che oggi risulta estraneo alle dinamiche del cinema contemporaneo. Da sempre le opere seriali (cinematografiche e televisive) soffrono l’eccessivo protrarsi di saghe nel momento in cui superano una canonica trilogia, nel caso del cinema, o un determinato numero di episodi nel caso della televisione; nel cinema hollywoodiano (di cui Steven Spielberg è il massimo rappresentante contemporaneo) appare evidente che l’obiettivo di investire su un brand di sicuro richiamo tenda a mettere in subordine il tema cardine del nostro discorso: un personaggio come Indiana Jones, oggi, ha ancora la forza di creare nuovi mondi




Se uno dei pregi della trilogia originaria si trova nella scrittura e conferisce ai film la forza narrativa delle grandi opere d’avventura (come Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain o l’intera bibliografia di Jules Verne) qui James Mangold si affida a una regia che mette in scena sequenze d’azione con inseguimenti in puro stile Fast & Furious e che nei momenti cruciali rischia di cadere in scelte formali sensazionalistiche facendo perdere di forza alla sua struttura narrativa, il découpage classico cede il posto a un montaggio frenetico tradendo la stessa idea di cinema dell’autore della saga. E’ difficile credere che Steven Spielberg si sia lasciato sfuggire il controllo su uno dei suoi personaggi più rappresentativi…E’ evidente che questa perdita di cura nella scrittura danneggi allo stesso tempo il potere visionario del cinema nonché il personaggio di Indiana Jones. Il cinema crea immagini-simbolo: se l’Indiana Jones anni ottanta era l’emblema di un cinema d’intrattenimento capace di creare mondi attraverso uno stile di messa in scena narrativo tipicamente hollywoodiano, Indiana Jones e il quadrante del destino soffre di una mancanza di chiarezza di intenti. 




Se nell’incipit de Il trionfo della volontà (Leni Riefenstahl, 1935) Leni Riefenstahl non narra il viaggio in aereo di Hitler ma la superiorità del Führer sul proprio popolo, i primi tre capitoli della saga ci riportano al cinema di Frank Capra per la vittoria del modello culturale americano, al grande Western di John Ford per la rappresentazione del Gran Canyon e della Monument Valley (in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)). Indiana Jones e il quadrante del destino è privo di sottotesti credibili in quanto la lotta ai nazisti non solo ha il sapore amaro del già visto ma appare come una scelta scontata verso la quale gli spettatori possono facilmente immedesimarsi. Inoltre il nazismo in quest’ultimo capitolo è rappresentato attraverso un falso storico che necessita di essere chiarito: il personaggio di Jürgen Voller, che desidera tornare indietro nel tempo per uccidere Hitler e invertire il corso della seconda guerra mondiale, si pone contro uno dei fondamenti su cui si basava l’intero nazionalsocialismo. Il Führer incarnava la prassi politica del Terzo Reich: ciò significava non solo che la parola di Hitler diventava direttamente legge dello stato ma l’intera struttura di potere (legislativo e militare) erano incarnate nella persona di Hitler e ogni nazista era pienamente cosciente di ciò. Quindi arriviamo alla domanda iniziale: in che modo il cinema può tornare a creare nuovi mondi? In che modo lo spettatore può rivivere il dolce smarrimento del cinema delle origini? La forza identitaria del western di John Ford o il terrore viscerale delle origini dell’horror? Nonostante sia un tema complesso che merita una riflessione apposita è necessario partire dall’augurio che in ogni caso possa tornare a investire sulla creazione di nuove storie ridando anche centralità alla sala come esperienza cinematografica nella sua interezza 

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Claudio Suriani Filmmaker



mercoledì 22 marzo 2023

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE (2022) DANIEL KWAN E DANIEL SCHEINERT - BENVENUTI NEL MULTIVERSO


Il nuovo film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, vincitore di dieci statuette agli Oscar 2023, si sta imponendo come uno dei film più importanti degli ultimi anni non solo per il riscontro della critica ma anche per la sua capacità di rinnovare il linguaggio cinematografico. Dopo la prima visione,  decisamente faticosa, ho intuito che per entrare nei meccanismi dell’opera dovevo rivolgermi a Carlo Rovelli e alla sua opera Sette brevi lezioni di fisica. Nonostante Everything everywhere all at once sia una delle opere più visionarie degli ultimi anni (e forse dell’intera storia del cinema) nel momento in cui siamo chiamati a rendere sistematica questa forza visionaria scopriamo con profondo piacere che la capacità di guardare oltre non è in antitesi con un approccio scientifico. Rovelli: …la scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La forza dell’immaginazione è da sempre ciò che spinge l’essere umano a un impegno sistematico per provare o smentire (in una parola creare) la propria visione del mondo che da sempre accomuna scienza e arte.

In Everything everywhere all at once tutto ruota intorno all’universo e alle leggi che lo animano. Nella terza lezione intitolata L’architettura del cosmo Rovelli afferma che … esistono quindi migliaia di miliardi di miliardi di pianeti come la Terra nell’universo. E in ogni direzione si guardi questo è ciò che appare. Fin dalle  origini il cinema ha seguito  due indirizzi generali: il desiderio di raccontare diversi livelli di realà ( dinamica che possiamo già trovare in George Melies con Il viaggio sulla luna del 1902 per citare il più famoso) e la necessità di filmare il mondo allo scopo di documentarlo con approcci antropologici, come nell’archivio di Alber Kahn.

Nel corso degli anni questo dualismo si è molto assottigliato e ogni autore ha sviluppato  la propria visione di mondo in modo del tutto personale. Oggi il cinema e l’audiovisivo in generale sono  un insieme eterogeneo: la visione immersiva della sala è diversa, se non opposta, a quella delle piattaforme streaming nelle quali lo spettatore entra a piene mani nell’opera stessa stoppando e creando dei montaggi involontari e infiniti collegamenti in quanto la rete non conosce titoli di testa e di coda.

 

Everything everywhere all at once punta a mettere in scena queste galassie interconnese non da regole prestabilite ma dal caso. Nel film la versione alphaverso di Weymond (Ke Huy Quan) spiega a Evelyn (Michelle Yeoh) che solo attraverso azioni casuali prive di senso le permetteranno di accedere ai diversi universi possibili, e Rovelli ci spiega come il caso sia una vera e propria componete della fisica (teorizzata da Ludwig Boltzmann) capace di spiegare perché il calore tende a muoversi verso il freddo (e non viceversa).

Brevemente: il calore nel passaggio dal caldo al freddo non risponde a regole universali fisse ma lavora per grande probabilità influendo direttamente sulle dinamiche del tempo. Rovelli chiarisce che quando non c’è scambio di calore (causato dall’attrito degli atomi) il futuro si comporta esattamente come il passato, ma quando gli atomi si muovono dando vita ad un contrasto capace di generare calore, futuro e passato divergono.

Questo è un passaggio decisivo in Everything everywhere all at once: il primo approdo di Evelyn nel multiverso le fa rivivere la propria vita così come la ricorda anche se il personaggio di Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis) le appare da subito come conflittuale … una conflittualità destinata a crescere in modo esponenziale. In Everything everywhere all at once il conflitto, da un punto di vista narrativo, non è unidirezionale ma si sviluppa dal punto di vista di ogni personaggio: non solo la figlia Joy diventerà la terribile Jobu Tubaki (un agente del chaos) ma ogni singola comparsa diventerà un elemento capace di influenzare l’approdo dei protagonisti nell’infinita galassia del multiverso. La violenza (o attrito per dirla con Rovelli) in Everything everywhere all at once diventa la rappresentazione del movimento atomico nello spazio capace di influenzare le dinamiche del calore ma, soprattutto, del tempo.

 

Questo ci porta direttamente alla legge generale della relatività in quanto lo spazio non è un ambiente neutro ma qualcosa di dinamico e se tale dinamicità è invisibile dal punto di vita fisico in Everything everywhere all at once diviene il punto centrale dell’intera opera riuscendo a mettere in relazione il più piccolo granello di polvere con il macrocosmo in un vortice di interconnessioni talmente veloci da mettere a dura prova lo spettatore…specialmente durante la prima visione. Le interconnessioni di cui stiamo parlando non si riferiscono solo al continuo passaggio nei diversi universi possibili ma anche alla natura stessa dei protagonisti: Evelyn e Joy passano dall’essere persone, disegni elementari di bambini, pignatte appese pronte per essere rotte fino a sassi inanimati in un mondo privo di vita.

Le forme di vita messe in scena da  Kwan e Scheinert  vanno dal grottesco, come avere dei wuster al posto delle dita, al  rammarico, come una carriera di successo nel caso in cui Evelyn e Weymond non si fossero sposati, in una rappresentazione dell’universo(i) che riesce a essere al tempo stesso  complessa e autoironica.

 

Consideriamo Jobu Tupaki e il suo universo racchiuso in un Bagel.

Questo elemento, apparentemente autoironico, non può che rifarsi alla gravità quantistica a loop, teoria della fisica contemporanea capace di unire la relatività generale con la meccanica quantistica, leggi che regolano l’universo apparentemente contrapposte (per un approfondimento rimando alla  quinta delle Sette brevi lezioni di fisica). Il bagel (una ciambella) di Jobu Tupaki è il punto di congiunzione, da li ogni singolo atomo della vita nasce per poi morire divenendo la legge finale di ogni elemento.

Ci sarebbero ancora moltissime cose da dire…ma le regole generali che animano Everything everywhere all at once spero siano delineate. Scienza, arte e una profonda autoironia fusi a livelli altissimi: sono sicuro che si imporrà come uno dei film più importanti degli anni duemila.

Naturalmente questa non è l’unica interpretazione del funzionamento dell’universo…Ma questa è un’altra storia.

 

Troverete l'articolo anche sul nostro sito web al seguente link:  https://www.cinepeep.net/cinema-americano/everything-everywhere-all-at-once-2022-daniel-kwan-e-daniel-scheinert

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 Claudio Suriani Filmmaker

Claudio Suriani Filmmaker

mercoledì 15 marzo 2023

THE WHALE (2022) DI DARREN ARONOFSKY - INSCINDIBILITA' TRA VITA E MORTE

Vita e morte sono veramente due condizioni contrapposte come ci è stato insegnato?

The Whale, ultimo lavoro di Darren Aronofsky, ci appare come una summa della sua intera filmografia: risuonano gli echi biblici di Madre (2017), i tormentati rapporti famigliari di The Wrestler (2008) e soprattutto il senso di solitudine e di fallimento dei protagonisti ormai divenuto totalizzante.

Tutto parte dal titolo: The Whale (la balena). Il nostro protagonista Charlie affetto da un’obesità ormai fuori controllo vive un intimo rapporto con il romanzo di Herman Melville Moby Dick divenuto la sua fragile ancora di salvezza dall’inferno in cui è precipitato. Charlie è un docente universitario di letteratura e attraverso le sue lezioni sulle piattaforme digitali (rigorosamente a telecamera spenta) riesce a costruirsi uno sguardo sul mondo… uno sguardo fragile e carico dei traumi che, fin dall’inizio, sappiamo non potranno essere elaborati.

 

La lotta di Charlie contro il suo corpo è persa in partenza in quanto sappiamo che dovrà morire e l’intero film è intriso di un nichilismo contro cui si infrangono religione,  affetti più cari (il compagno morto, una famiglia abbandonata, una figlia che lo odia – proprio come in The Wrestler del 2008) e ogni tipo di rapporto con il mondo esterno. Nonostante il cibo sia la sua maledizione Charlie riesce a immaginare un mondo al di fuori del suo incubo anche osservando un uccellino che si posa regolarmente sulla sua finestra che nutre regolarmente: anche in questo caso sarà una speranza effimera e incapace di incidere sugli eventi.

 

Il personaggio di Charlie ci accompagna nel suo mondo fatto di cibo ingurgitato, quattro mura opprimenti e un passato che pesa più di ogni altra cosa;  ciò che ci porta a empatizzare con lui è il suo desidero di affetto divenuto nel tempo del tutto acritico. Il desiderio di riconquistare il rapporto con la figlia ormai adolescente lo porta a essere cieco di fronte alle gratuite cattiverie a cui lo sottopone (come la pubblicazione sul profilo social di foto scattate furtivamente o quando gli dice Sbrigati a morire) che esulano da un rancore giustificabile da parte di una figlia abbandonata.

 Il dramma messo in scena da Aronofsky si carica di un’indagine sul corpo al limite del pornografico (che per chi segue Cinepeep sa che non è inteso in senso dispregiativo quando riesce a farsi carico di idee) non solo quando Charlie chiede ripetutamente a Thomas ( Ty Simpkins) se lo trovi disgustoso ma anche quando decide di rivelare ai propri studenti la sua condizione abbandonando ogni forma di protezione e sottoponendosi all’inevitabile giudizio altrui: questo sarà il punto di rottura definitivo.


Da un punto di vista formale Aronofsky si affida al formato 4:3: una scelta che si rivelerà del tutto efficace in quanto crea uno schiacciamento dell’immagine riducendo l’effetto di profondità. Per tutta la durata di The Whale siamo inchiodati alla poltrona non solo per generico senso di empatia nei confronti di Charlie ma, soprattutto, per una scelta di messa in scena coerente e funzionale alla storia narrata.

 

Il cinema è un’arte visiva e, in quanto tale, la storia narrata ha bisogno di scelte formali coerenti capaci di farci entrare a pieno nella vita dei protagonisti. A questo punto torniamo alla domanda iniziale ampliandone la portata: perché lo spettatore deve farsi carico di un universo così drammatico e privo di speranza? Se come abbiamo detto in The Whale risuonano gli echi della sua intera filmografia (specialmente The Wrestler e Madre) è anche vero che Aronofsky decide di indagare la capacità del cinema non solo di sviluppare ulteriormente i fulcri narrativi delle opere precedenti ma di farsi carico di un universo drammatico senza diventare pedante o scendere nel bodyhorror … un universo che non gli appartiene.

 


 

 

Inoltre se il cinema esiste nell’occhio dello spettatore singolo (in quanto ognuno darà il suo contributo creativo nell’interpretazione di un’opera) ritengo sia necessario indagare la sua capacità di uscire dalle logiche dell’intrattenimento per intraprendere percorsi dolorosi ma capaci di incidere sulla nostra sensibilità più profonda. Ci sono inoltre numerosi sottotesti che alimentano il film come rapporti umani mediati dagli schermi, il valore dell’insegnamento e molti altri; tuttavia sono tematiche che non arrivano mai ad imporsi come punto focale dell’intera opera. The Whale è la storia di un uomo dal corpo enorme che cerca dolorosamente di riconquistare un frammento di vita prima dell’inevitabile destino ed è proprio questo che ci porta al meraviglioso finale: un finale aperto che ci spinge a non avere paura della morte anche quando siamo chiamati a lottare contro le nostre sofferenze più grandi …Vita e morte si riconciliano.

 

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 Claudio Suriani Filmmaker

domenica 11 dicembre 2022

BITTERSWEET RAINBOW - di Luca Bertossi

 

Bittersweet Rainbow è il nuovo lavoro del giovane regista friuliano Luca Bertossi; formatosi nel cinema di genere con opere che vanno dallo slasher di That Thing in the Darkness, al dramma di La Confessione e Il Dono fino alle tematiche post-apocalittiche di Lost Notes (consultabili gratuitamente sul canale YouTube della casa di produzione Deep Mind Film Factory) con Bittersweet Rainbow affronta per la prima volta il cinema romantico all'interno della comunità LGBT. 

  

Il film racconta le vicende di Niccolò che, dopo la tragica morte del padre e del suo compagno, parte per diversi anni allo scopo (forse) di elaborare i propri lutti e trovare la forza interiore di dichiarare la propria omosessualità. Bertossi in quest'ultimo lavoro conferma le doti già riscontrate in precedenza: sa come mettere in scena un film facendo fruttare al meglio le poche risorse di una produzione crowdfunding. Bittersweet Rainbow è caratterizzato da una messa in scena efficacemente lineare: appare chiaro che manchino i mezzi per sviluppare ulteriormente la forza visiva dell'opera (attraverso un carrello, un dolly ecc..); Bertossi riesce tuttavia a seguire le vicende del protagonista con un occhio discreto e sensibile sfruttando appieno le risorte a disposizione.

Bittersweet Rainbow è caratterizzato, inoltre, da un ritmo narrativo che ben si adatta all'animo riflessivo del protagonista utilizzando il meccanismo del flashback in modo attento ed efficace; tuttavia, nonostante risulti essere un lavoro ben costruito vendibile sul mercato italiano presenta elementi di riflessione: il più evidente è il repentino cambio di registro rispetto ai lavori precedenti.

Le opere finora realizzate erano contraddistinte da un'ottima costruzione della tensione (in particolare nel cortometraggio slasher Una serata tranquilla, presentato al FiPiLi Horror Festival 2019); affrontare tematiche così diverse tra loro spesso può risultare un azzardo correndo il rischio di non riuscire ad esprimere in pieno il proprio talento. Questo è un aspetto di assoluto rilievo se pensiamo ad un film come La congiura degli innocenti (Alfred Hitchcock, 1955); nonostante sia una commedia Hitchcock riuscì a dargli il suo taglio realizzando il capolavoro del genere commedia nera.

Il mio consiglio è di lavorare attentamene sulla propria idea di cinema in modo da poter esprimere la propria impronta stilistica riconoscibile anche all'interno di opere eterogenee.

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Claudio Suriani Filmmaker



giovedì 8 dicembre 2022

THE BATMAN (2022) DI MATT REEVES - L’anima nera di Gotham City

 

Iniziamo da una considerazione generale: Batman è uno dei personaggi dei fumetti più sfruttati a livello cinematografico (il primo film è del lontano 1943 di Lambert Hillyer) ed è stato rielaborato in numerose chiavi interpretative fino al punto che Joker (Todd Phillips - 2019) è stato definito una riflessione sull’universo di Batman e non un film a sé privo di legami con l’universo di Gotham City. 



Data l’impossibilità di costruire un opera innovativa da un personaggio che non ha obiettivamente più nulla da dire è necessario indagare se il film di Matt Reeves riesce a farsi carico di interessanti peculiarità; il primo aspetto è la costruzione di un universo noir capace di allontanarsi dall’universo fiabesco del Batman di Tim Burton o dallo cinema hollywoodiano di Christopher Nolan. Nel film di Reeves ci sono echi del cinema di John Huston, Billy Wilder e Orson Welles contestualizzati in una contemporaneità in cui il rapporto uomo/schermo diventa un processo cardine di conoscenza del mondo (si consideri la sequenza iniziale di Blade Runner e il suo universo distopico). La natura noir di The Batman crea una Ghotam City profondamente oscura in puro stile espressionista; Reevees dimostra non solo di conoscere il cinema del passato ma di saperlo reinterpretare in chiave contemporanea fuggendo dal rischio di anacronismo spesso presente nel cinema odierno (si pensi a The artist - Michel Hazanavicius, 2011). The Batman è caratterizzato da un flusso di coscienza capace di rendere l’intera città di Gotham una proiezione dell’animo di Bruce Wayne e del suo senso di fallimento nei confronti di una missione degenerata in un desiderio di vendetta feroce e totalizzante. 
 

 
Il mondo oscuro di Gotham è la manifestazione diretta di un Bruce Wayne ormai privo di speranza ostaggio della sua identità segreta; Batman continua a lottare contro il crimine avendo compreso che non riuscirà mai a scalfire l’anima profonda di Gotham; questo elemento ci dà il segno di come il ruolo stesso della città all’interno del testo filmico risulti totalizzante nei confronti dei protagonisti (non solo di Bruce Wayne) dando all’intera opera un sapore politico in senso etimologico; un film che affronta il tema della polis e delle sue dinamiche interne. Non sono i personaggi a muovere gli eventi ma è la città stessa a vivere di vita propria rendendo gli stessi protagonisti schiavi di uno spazio cittadino privo di tensione verso il futuro.

Il tema della città è stato raccontato dal cinema sotto diverse chiavi come Manhattan (1979, di Woody Allen), Shadows (1959, di John Cassavetes), L.A. Confidential (1997,di Curtis Hanson, Los Angeles Plays Itself (2003, di Thom Andersen) Il Grande Lebowski, 1998, dei fratelli Coen e The Infinite Happiness (2015, diretto da Ila Bêka e Louise Lemoine) – solo per citare i più significativi. The Batman assimila l’immaginario di questi capolavori creando un universo dispotico profondamente radicato nella contemporaneità. 

 

L’eccessiva durata dell’opera (176 minuti) la pone in una doppia posizione: se la prima è l’inevitabile presenza di sequenze dal ritmo irregolare in cui l’anima del film tende a sparire a favore di esercizi di stile fini a se stessi (rischio presente in ogni opera eccessivamente lunga), dall’altra Reevees pare voler realizzare un opera epica grazie alla quale porre il sigillo finale alla vicenda di Bruce Waine; un testamento filmico carico di una spiritualità sofferta consapevole del fatto che la lotta di Batman è stata un fallimento è che ha ragion d’essere solo nell’idea della lotta perenne.

I personaggi dei fumetti non cercano la fine della propria storia; come Dylan Dog vivrà per sempre a Londra con Groucho, Batman è inscindibile dalla città di Gotham e dalla sua anima nera.

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Claudio Suriani Filmmaker













venerdì 25 novembre 2022

ELVIS (2022) DI BAZ LUHRMANN - La società dello spettacolo

Per analizzare un personaggio complesso come Elvis Presley attraverso l’occhio di Baz Luhrmann, regista conosciuto per il suo stile barocco al limite del ridondante, ritengo necessario partire da un presupposto di ordine generale: parlare di Elvis Presley vuol dire parlare del XX secolo e di quell’America che ormai aveva lasciato alle proprie spalle il secondo conflitto mondiale ma che si ritrovò a combattere contro il nemico interno della segregazione razziale.

Gli anni 50 furono un periodo storico ricco di contraddizioni ma anche saturo di una forza creativa i cui frutti si sentono ancora oggi in tutto il mondo. Tuttavia l’opera di Luhrmann ci descrive ciò che Guy Debord definì La società dello spettacolo. Ricorro alle linee guida di quest’importantissima opera filosofia in quanto la sua parabola rappresenta in modo determinante quel processo di mercificazione tipico della società contemporanea che ha come unico scopo la propria autolegittimazione. 

 

Elvis è un film in linea con lo stile registico di Luhrmann: fin dall’inizio cogliamo il filo rosso che lo collega a pellicole come Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996), Moulin Rouge! (2001) o Il grande Gatsby (2013) tuttavia, andando oltre l’analisi delle scelte formali di messa in scena, emergono diversi elementi dell’opera di Debord come la separazione delle immagini dalla vita, concetto presente nel capitolo La divisione perfetta. Quando Debord afferma che Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli non solo chiarisce quanto dietro fenomeni della portata di Elvis Presley ci siano strutture economico-produttive capaci di sovrastare la forza creativa dell’artista di Menphis, ma arriva a definire i processi di autolegittimazione del mondo dello spettacolo capaci di influenzare la nostra più stretta vita politica ( e in Italia gli esempi non mancano…).

Il film sembra essere consapevole di tutto ciò in quanto cerca di andare oltre il seminato della narrazione classica; tuttavia dal punto di vista formale la tendenza ad aggiungere anziché ridurre fa correre al regista rischi di ordine strutturale e il più evidente è il ricalcare eccessivamente eventi trascurabili. Nella sequenza della prima esibizione di Elvis il pubblico femminile ha una reazione di eccitazione al limite dell’isterismo (in rete si trova la registrazione originale del concerto) che non può che strappare una risata allo spettatore. Nel momento in cui Debord afferma che lo spettacolo è una visione del mondo che si è oggettivata, sia la musica che il cinema smettono di parlarci del mondo e di farci aprire ad esso, per costruire un meccanismo autoreferenziale in cui emergono in modo decisivo i dettami del sistema economico capitalista. Questo aspetto coglie in pieno la parabola di Elvis Presley che da autentico animale da palcoscenico diventò prima un mediocre attore hollywoodiamo per finire nella lunghissima serie di esibizioni all’l' International Hotel di Las Vegas. Lo spettacolo diventa, al tempo stesso, il mezzo e il fine di se stesso. Una prima obiezione che si potrebbe portare è che il film di Luhrmann ci mostra non solo la forza creativa di Elvis ma anche il suo declino come artista e come uomo. Anche in questo caso ci viene incontro Debord ponendo al centro il concetto di feticismo della merce: in ogni forma espressiva il messaggio portante cambia attraverso il sistema economico sul quale è basata l’intera società che lo produce arrivando, nel capitalismo ad un feticcio.


Questo fenomeno ha creato una profonda contraddizione nella società contemporanea arrivando a celebrare il capitalismo anche in assenza di sovrabbondanza di beni la quale, in ogni caso, non ha liberato l’uomo dalla necessità sia del consumo che del lavoro divenuto anch’esso una merce. La parabola di Elvis Presley è un esempio di come uno dei fenomeni più importanti del XX secolo sia divenuto un fenomeno di mercificazione talmente radicale da influenzare l’intera industria dello spettacolo e il film di Luhrmann, nonostante riesca a raccontare in modo dettagliato gli eventi, non riesce tuttavia a cogliere tali contraddizioni di ordine concettuale. Il limite interno al film di Luhrmann è che si limita ad una narrazione di tipo lineare non riuscendo a cogliere i percorsi teorici delineati: Elvis da personaggio vedette concentrò su di se gli sguardi del mondo intero dimenticando di non essere altro che il portavoce di interessi opposti al proletariato … e non a caso era chiamato il re. Elvis di Baz Luhrmann è un ottimo film di intrattenimento (in fondo per molti il cinema non è altro che questo) e lo si guarda con interesse e senza annoiarsi; tuttavia se cerchiamo uno sguardo più profondo che sia capace di parlarci della contemporaneità attraverso scelte formali coerenti, la mia opinione è che in questo film, non lo troveremo.

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 Claudio Suriani Filmmaker








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