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venerdì 8 dicembre 2023

C’E’ ANCORA DOMANI (2023) DI PAOLA CORTELLESI: SI IMPONE UNA RIFLESSIONE

Partiamo da una considerazione generale: ogni opera che dia adito a una discussione e a un confronto aperto arreca un contributo di valore alla comunità nell’epoca dell’essere umano digitale, veloce, poco riflessiva (non solo al cinema) che reclama un incremento di crescita personale propria dei vecchi cineforum. Detto questo, corre l’obbligo di precisare che da sempre il lavoro di Cinepeep è orientato a proporre mezzi critici per analizzare un lavoro cinematografico a diversi livelli che possano generare giudizi di merito che, il più delle volte, viene confuso con il giudizio di gusto. Un’attenta analisi dell’opera in sé a stretto contatto con la contemporaneità ci consente di prendere le distanze dalla logica dell’intrattenimento ribadendo che l’esperienza dello spettatore cinematografico (non il cinema in sé) è dettata dal tempo presente … dal qui e ora.




 

Chiariti tali presupposti C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi, dimostra il potenziale (parola densa di significato) registico dell’artista romana. Al termine della visione ciò che appare evidente è non solo il desiderio di portare a compimento la propria idea di cinema (nel grigiume del cinema italiano contemporaneo – quanto meno delle opere di successo – è senz’altro positivo) ma anche omaggiare la grande stagione del cinema neorealista (consapevole?) anche attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio dell’Istituto Luce. Nonostante sia un’opera che dimostri un grande trasporto umano verso la condizione della donna nel nostro paese (mai cambiata in modo sostanziale) la nota di merito essenziale che desidero sottolineare non è tanto questa ma la ricerca personale che allontana l’ombra del marito Riccardo Milani dal ruolo simile a quello che Sergio Leone ebbe col Carlo Verdone degli esordi.




Ma esistono anche elementi di criticità.


Non posso affermare con certezza se sia da imputare alla Cortellesi o a imposizioni produttive tipiche del cinema italiano che ormai da anni, eccetto pochi casi (come la regista Alina Marazzi restando in ambito femminile) lavora contro la libertà stilistica (al contrario, del cinema orientale) quindi li metterò in evidenza sospendendo il giudizio.

Il primo aspetto è la colonna sonora: le musiche di Daniele Marchitelli (in arte Lele) sono in aperto contrasto con l’universo raccontato: un mondo fatto di violenza, di umiliazioni quotidiane ma anche di sofferenza e traumi inelaborati personali e collettivi… ricordiamo che siamo nell’immediato dopo guerra. La storia del cinema è carica di compositori che riuscivano a esprimere a pieno l’immaginario visivo dei registi per cui lavoravano (si pensi a Nino Rota per Federico Fellini o Angelo Badalamenti per David Lynch). Se l’intento di tale scelta era creare una sorta di shock nello spettatore non si è rivelata efficace in quanto nonostante la violenza subita da Delia sia quotidiana (al punto che anche il padre di Ivano sembra ribellarsi) Paola Cortellesi fa una scelta di campo chiara: mostrarla il meno possibile (in molte sequenze infatti è immaginata e non mostrata). Se l’inferno della protagonista emerge da una quotidianità divenuta ormai insopportabile ciò non consente alle musiche spensierate di Lele Marchitelli di creare quello shock estetico che (forse) la Cortellesi cercava (per comprendere meglio il concetto si pensi ad un film come Eraserhead: la mente che cancella – David Lynch, 1977 - e alla sua musica finale).

 

Questo è vale anche per le due sequenze di danza nel pieno della volgare violenza di Ivano.

Se un film come La vita é bella (Roberto Benigni, 1997) fu definito da Liliana Segre non realistico, nei confronti di C’è ancora domani vale lo stesso criterio: queste due sequenze rendono giustizia alle vittime di oggi? Inoltre, nel decidere di affrontare un tema drammaticamente attuale come la violenza sulle donne attraverso l’immaginario del neorealismo (scelta in partenza efficace) perché distaccarsi dai dettami estetici di una vera e propria scuola che così tanto ha dato al cinema italiano (e non solo) rappresentando a pieno la realtà per ciò che era?





Per concludere credo che le strade siano due: se da una parte un film come C’è ancora domani ci comunica che ogni scuola cinematografica è figlia del proprio tempo e cercare di replicarla a distanza di sessant’anni (neanche in modo del tutto fedele) possa risultare  un’operazione di maniera, dall’altra,  e torno al punto di partenza, una simile opera prima trasmette il desiderio (anche questo un termine saturo di significato) da parte di una giovane artista di mostrare al mondo le sue capacità (aspirazione del tutto legittima) cercando anche la propria identità registica … aspetto centrale per imporsi come autrice e non come regista mestierante.


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Claudio Suriani Filmmaker

 


giovedì 18 maggio 2023

LA REGINE DI CASETTA (2018) DI FRANCESCO FEI - "Parto domattina per la Casetta. Là c’è silenzio". Dino Campana

Il documentario nella sua storia ci è sempre stato proposto come un filone audiovisivo separato dal cinema, causa un approccio di tipo manualistico che a oggi ha perso ogni fondamento in quanto non solo il variegato universo sperimentale è andato ben oltre il cinema narrativo ma lo stesso racconto della realtà è diventato un tutt’uno con il cinema meainstrem a partire da opere come F come falso (Orson Welles, 1973) fino alla sua esplosione nel cinema horror.

 

 

 

 

Nonostante negli esempi citati la fusione tra realtà e finzione sia dichiarata è pur vero che ogni volta che nasce una nuova forma espressiva (di tipo narrativo o figurativo) essa diventa istantaneamente prassi, come se nel cinema il concetto di novità non potesse imporsi in modo duraturo. La Regina di Casetta vive di questa tensione interna: narra la vita di Casetta di Tiara, un piccolo borgo dell’alto Mugello destinato a quel fenomeno tipicamente italiano dello spopolamento dei piccoli borghi; Gregoria è l’unica adolescente e anche lei, con la sua famiglia, è destinata a lasciare Casetta per poter frequentare, da settembre, il liceo.

Attraverso un racconto fatto di gesti quotidiani e di una vita capace ancora di ruotare attorno ai cicli naturali della vita (come la raccolta delle castagne, la caccia al cinghiale o la neve d’inverno) un’opera come La Regina di Casetta riesce a rappresentare il cinema nella sua dimensione archeologica con la messa in scena del tempo e il cinema come archivio del mondo. Se in La Regina di Casetta appare fortissima l’influenza del cinema documentario di Werner Herzog, è pur vero che tale approccio è declinato in modo diverso; se l’intera opera dell’autore tedesco sembra percorrere due strade parallele (come fiction e documentario) Francesco Fei, nel desidero di  rendere in modo veritiero la vita della giovane protagonista e della sua piccola comunità, non riesce a cogliere la vita sul fatto (come il cinema russo anni venti ci ha insegnato) arrivando a fondere involontariamente realtà e finzione in quanto non solo tutti fingiamo davanti a un obbiettivo ma ogni decisione formale rappresenta, sempre, una scelta soggettiva dell’autore. Eppure cos’è che rende così affascinate quest’opera? E’ la messa in scena di un tempo ormai rivolto al declino.

 


 

Andrej Tarkovskij nel suo volume Scolpire il tempo (Ubulibri, a cura di Vittorio Nadai, Pag. 54) afferma che … per la prima volta nella storia dell'arte e per la prima volta nella storia della cultura, l'uomo trovò il mezzo per registrare direttamente il tempo. E contemporaneamente, trovò la possibilità di riprodurre a piacimento lo scorrere di questo tempo sullo schermo, di ripeterlo, di ritornare a esso. L'uomo ricevette così nelle proprie mani la matrice del tempo reale. Una volta visto e impresso sulla pellicola, da quel momento poté essere conservato a lungo, registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali e questa è secondo me, l'idea fondamentale del cinema e dell'arte cinematografica. Questa idea mi consente di pensare alla sua ricchezza di possibilità non sfruttate, al suo sconfinato futuro. Ed è par­tendo da essa che costruisco le mie ipotesi di lavoro.  

Attraverso la vicenda di Gregoria Francesco Fei realizza un’opera caratterizzata da temporalità conflittuali: ci narra un tempo presente in cui da una parte sopravvivono ritualità dal sapore pagano ma dall’altro è divenuto incapace di costruire una nuova storia per Gregoria e per la sua piccola comunità. Qui il fuoricampo della grande metropoli entra prepotentemente in gioco come elemento determinante sia per lo sviluppo narrativo che per il senso generale dell’opera.

 



La Regina di Casetta non è un documentario dal sapore antropologico (come erroneamente è stato definito) ma uno sguardo malinconico su una comunità destinata a scomparire portando con sé l’infinito bagaglio di culture e tradizioni centenarie…è come se Francesco Fei volesse rendere omaggio a questo piccolo ma importante borgo per l’opera di scrittori come Dino Campana e Sibilla Alemaro e per esser stato teatro di importanti lotte partigiane (come riportato nel volume Appuntamento a Casetta di Tiara – Serena Cinque, Michele Geroni, Sarnus editore) senza poter sfuggire a un sottile, ma profondo senso di malinconia per un mondo destinato a sparire per sempre.

 

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 Claudio Suriani Filmmaker

 

 

 

 

martedì 7 febbraio 2023

FREAKS OUT (2021) DI GABRIELE MAINETTI - La memoria perduta

 

Freaks Out narra le vicende di un gruppo di fenomeni da circo durante l’occupazione nazista di Roma e porta con sé numerosi interrogativi che necessitano di essere contestualizzati.

Gabriele Mainetti lavora su una zona di confine tra universo fiabesco e gli orrori della seconda guerra mondiale, approccio che Roberto Benigni portò avanti con La vita è bella ma che lui sviluppa ulteriormente con risultati migliori dal punto di vista visivo ma ugualmente poveri da un punto di vista contenutistico.

Un primo aspetto di carattere generale è che Freaks Out è un opera di corto respiro: il cinema degli ultimi anni ha prodotto numerose opere ambientate nel mondo circense come The greatest showman del (2017) Big Fish, Le storie di una vita incredibile (Tim Burton, 2003) Mirror Mask (Dave McKean, 2005) e Dumbo (Tim Burton 2019) senza dimenticare i classici come Il circo (Charlie Chaplin, 1928) e La strada (Federico Fellini, 1954) oltre a serie tv di alto valore come Carnivale (HBO, 2013). In Freaks Out la caratterizzazione dei personaggi resta legata a doppia mandata all’anima popolare delle strade di Roma  a differenza delle opere citate che si sono imposte nella storia del cinema come capolavori del genere circus grazie alla loro capacità di narrare storie universali. Questo è un aspetto riscontrato molte volte nelle produzioni RAICINEMA: nel produrre opere che fin dalla loro uscita mirano ai passaggi televisivi in prima serata si arriva a mettere in scena un film per famiglie de tutto privo di incisività (a differenza del fascino perverso di Freaks di Tod Browning). 

 


L’aspetto tuttavia più complesso è la rappresentazione della questione ebraica. In Freaks Out la fiaba tende a fagocitare il tema della memoria storica rendendola quasi un’appendice. Mainetti sembra dimenticare (o peggio non conoscere) l’analisi di Serge Daney del film Kapò (G. Ponecorvo, 1960): l’opera di Pontecorco ci dimostra, come scrisse Daney, che Non ci si deve mai mettere dove non si è, né parlare al posto degli altri. La questione ebraica in Freaks Out resta una tematica di contorno del tutto secondaria rispetto alle vicende dei protagonisti e questo è un aspetto della massima importanza non solo perché è un punto cardine per gran parte della critica contemporanea (si pensi al  rapporto che esiste tra opere come Nuit et brouillard di Alain Resnair, Shoah di Claude Lanzmann e L’Histoire(s) Dù Cinemà  di J.L.Godard) ma porta con sé la capacità di dare valore testimoniale alle immagini per rendere giustizia alle vittime non solo della Shoah ma anche degli orrori contemporanei. Questa debolezza strutturale rende Freaks out un film adatto alle prime serate in famiglia ma che toglie a Gabriele Mainetti una forte marca autoriale e la capacità di ritagliarsi un posto all’interno del panorama del cinema italiano e internazionale (e in questo risulta un forte passo indietro rispetto a Lo chiamavano Jeeg Robot) perché il paragone con i capolavori del genere circus sono inevitabili e come abbiamo visto non regge il confronto.

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Claudio Suriani Filmmaker

 

venerdì 20 gennaio 2023

NIGHTMARE IN A DAMAGED BRAIN (1981) DI ROMANO SCAVOLINI - L'orrore del rimosso


 
La carriera registica di Romano Scavolini inizia nel 1964 con il suo primo lungometraggio La quieta Febbre per proseguire fino al 2012 con film di genere di diversa natura: documentari come Così vicino così lontano (1970) e Lsd (1970) e la trilogia incappata nella censura A mosca cieca (1966), La prova generale (1968) ed Entonce (1968) fino ad opere a carattere storico come Ustica, Una spina nel cuore (2001) e Le ultime ore del Che (2004). 

 

Tuttavia l’opera per cui è maggiormente ricordato è lo slasher Nightmares in a Damaged Brain del 1981, opera che si pone come uno dei film più importanti del genere per la sua capacità di rappresentare il concetto di trauma freudiano (evidente l’influenza del cinema di Alfred Hitchcock, specialmente di Marniedel 1964). La trama è la seguente: George Tatum, criminale con profonde turbe psichiche, viene dimesso dall’ospedale psichiatrico in quanto il suo medico lo ritiene guarito dalle sue psicosi. Fin da piccolo la sua malattia ruota attorno a un sogno ricorrente: un bambino che assiste a una scena di sesso tra un uomo ed una donna nell’atto di un rapporto sado, l’uomo legato al letto dalla donna e picchiato duramente.


Tuttavia fin dal primo colloquio di Tatum con il terapeuta scopriamo che la dinamica del sogno non è chiara in quanto Tatum non riesce a capire il suo ruolo all’interno del sogno (non sa se lui osserva la scena, se è lui il bambino del sogno e il ruolo dell’uomo; inoltre quando il medico gli fa questa domanda diretta lui ha una crisi nervosa). Il nostro protagonista tuttavia non è affatto guarito, comincia a trucidare vittime innocenti e, dirigendosi in California, viene morbosamente attratto da una famiglia composta da madre e tre figli; alla fine del film scopriremo non solo che il bambino del sogno è lo stesso Tatum ma che le sue nevrosi da adulto hanno come causa la rimozione dell’omicidio del padre e della donna in questione per mano sua. Per l’analisi del film rivolgiamo la nostra attenzione al concetto di trauma iniziando dalla prima definizione che Freud ne diede in una delle sue prime opere: Il trauma si dovrebbe definire come un incremento di eccitamento nel sistema nervoso che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria (Freud S., Breuer J., 1892-1895, pag. 156). Inoltre in uno scritto del 1920, mettendo in rapporto gli eventi traumatici con gli effetti sull’individuo, l’accento non è posto su l’evento traumatizzante in sé ma su gli affetti penosi del terrore, dell'angoscia, della vergogna, del dolore psichico (Ibidem, pag. 177).

 


 
Nel momento in cui il giovane Tatum vede il proprio padre nel pieno di un rapporto sessuale, per di più in una posizione di sottomissione fa emergere una profonda pulsione di morte che lo porterà non solo ad ucciderli entrambi, ma a manifestare in modo devastante ciò che Freud definì incremento di eccitamento nel sistema nervoso.

Tatum nel corso di tutto il film ricerca, attraverso i suoi omicidi, sia l’esperienza che ha determinato la breccia inferta nella barriera protettiva, attraverso il meccanismo della coazione a ripetere, sia il soddisfacimento di una pulsione sessuale che trova nell’ascia la scarica energetica attraverso un oggetto parziale. Tatum non arriva mai ad avere un rapporto fisicamente soddisfacente (e neanche parzialmente come nella scena della spogliarellista) e esemplifica lo sviluppo teorico freudiano della teoria traumatica: dal momento dell’omicidio non è più l’atto in sé ad essere traumatico quanto la sua mancata elaborazione attraverso le vicende che lo vedono protagonista. L’io di Tatum è consapevole dell’orrore delle sue azioni ma è la pulsione di morte a guidarlo arrivando a vivere la propria morte come una liberazione.

 

Da un punto di vista formale Nightmares In a Damaged Brain è in linea con le maggiori opere definite Video Nasty (termine ideato dalla censura del Regno Unito per indicare opere audiovisive particolarmente violente e commercializzate come home video) come I Spit on Ypur Grave (Non violentate Jennifer – Meir Zarchi, 1978) La casa (Sam Raimi, 1981) o La casa sperduta nel parco (Ruggero Deodato, 1980) opere caratterizzate da una messa in scena di taglio televisivo e prodotte per il mercato degli home video. Nightmares In a Damaged Brain trova il suo punto di maggior interesse nella rappresentazione del rimosso e della coazione a ripetere freudiana e arrivò ad influenzare fortemente il mondo della cultura underground (come ad esempio la copertina del disco del Cripple Bastards Massacrecore del 1997).

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Claudio Suriani Filmmaker

martedì 6 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - ACCATTONE (1961) DI PIER PAOLO PASOLINI - La fame dello Zanni

 
 
L'opera prima di Pier Paolo Pasolini mette in scena le storie mai raccontate del boom economico italiano: le periferie romane e la loro natura fortemente classista  sono lo scenario  per un sottoproletariato estromesso da ogni visione positiva per il futuro e per la stessa democrazia italiana che, con fatica, cercava di affrancarsi dalle dinamiche del ventennio fascista.
 
Nonostante il film sia affiancato al neorealismo se ne discosta sotto molti aspetti: il primo, di ordine cronoligico, è che Accattone e successivo al 1955 (anno in cui si ritiene che il neorealismo abbia terminato la sua spinta creativa) ma la più importante è l'influenza dell'arte figurativa messa  in scena attraverso tecniche registiche del cinema muto.

 Pasolini lavora sulla composizione dell'inquadratura considerata indissolubile dalle arti  del passato  in cui risuonano gli echi della pittura tre/quattrocentesca toscana che svilupperà ulteriormente in opere successive come Mamma Roma (1962), La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).

Inoltre a differenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) in cui le figure di Aldo Fabrizi  e di Anna Magnani catalizzarono l'immaginario dello spettatore (secondo la logica dello Star System hollywoodiano), in Accattone non esistono attori professionisti:  Franco Citti sarà per sempre Accattone in quanto non c'è separazione, di ordine professionale, tra lui e il personaggio.

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 2 dicembre 2022

OCCHIALI NERI (2022) DI DARIO ARGENTO - Il declino di un grande maestro.

Un autore cinematografico si differenzia dalla figura del regista mestierante grazie alla presenza di un estetica riconoscibile capace di influenzare in modo decisivo la storia del cinema e l’immaginario visivo; tuttavia, quando ci si affida a clishè di genere stereotipati con l’intento di realizzare il film che tutti si aspettano ecco che nasce opere come Occhiali neri.
 

 
 
Per chi ama il cinema e cerca di approfondirlo con un occhio critico capace di oltrepassare il mero giudizio di gusto Occhiali neri non può che rappresentare un profondo dolore; dolore nel vedere un regista dell’importanza di Dario Argento ormai stanco, privo di ogni desiderio creativo e capace di affidarsi a sentieri già percorsi allo scopo di portare a casa il risultato. Occhiali neri è del tutto privo di una struttura narrativa credibile e ci presenta personaggi sprovvisti della più minima caratterizzazione psicologica; se consideriamo il personaggio del serial killer (elemento cardine in ogni thriller che si rispetti) Dario Argento non ci fornisce alcun elemento né di carattere psicologico né di carattere storico/sociale (a differenza di opere cult come Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti, Psycho e Halloween o opere contemporanee come La casa di Jack, The gangster, the cop, the devil, Lady vendetta, Seven o Saw; l’enigmista). 
 
 
 
Il cinema horror senza una sceneggiatura accurata rivolta ad un indagine dell’animo dei protagonisti non solo risulta stucchevole ma rischia persino di cadere nel ridicolo; quando emerge il movente da parte dell’assassino non solo non ho potuto fare a meno di ridere ma mi sono interrogato sul perché proseguire nella visione. Tuttavia l’approssimazione non riguarda solo la scrittura: il film è caratterizzato da una messa in scena del tutto insignificante, sequenze di dubbio gusto con dialoghi approssimativi con, per di più, grossolani errori di regia (come lo scavalcamento di campo nella sequenza della morte della poliziotta). Se è vero che ogni opera una volta conclusa vive di vita propria è anche vero che, proprio per tale peculiarità, non solo dialoga apertamente con i capolavori del genere che porta avanti ma si inserisce nel contesto storico/sociale in cui viene prodotta; se film come Non aprite quella porta o Psycho rappresentano appieno la morte del sogno americano data dallo scandalo Watergate e la nascita dell’orrore viscerale a causa della scoperta del caso di Ed Gein, un film come Occhiali neri si inserisce in un contesto come quello italiano del tutto privo di eventi di rottura di tale portata ed è anche per questo che presto cadrà nel dimenticatoio insieme a quasi la totalità delle produzioni RAI CINEMA.
 
 
Un ulteriore elemento che caratterizza il film è un citazionismo del tutto puerile che va da L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962) a Il gatto a nove code dello stesso Dario Argento (1971); se nel capolavoro di Antonioni l’eclisse si manifestava come l’eclisse dei sentimenti e di una disumanizzazione dei rapporti umani in una società che si avviava verso il boom economico, la sequenza iniziale di Occhiali neri, in cui c’è una vera eclissi, non solo appare scollegata con il resto delle vicende narrate ma riesce a dare all’intera opera un profondo senso di pretenziosità in quanto questa chiave interpretativa non viene minimamente approfondita. Occhiali neri è un film del tutto evitabile perché getta fango sulla carriera di un autore importante del nostro cinema e impedisce al cinema indipendente di imporsi come alternativa al cinema meainstream. 
 
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Claudio Suriani Filmmaker

domenica 27 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - UN ORA SOLA TI VORREI (2002) DI ALINA MARAZZI - Memorie famigliari

 
 
Una delle caratteristiche del capolavoro di Alina Marazzi è quella di riuscire a cogliere peculiarità storiche all'interno di immagini prodotte per la memoria privata. Questo elemento ci porta a comprendere quanto le nostre vite siano non solo interconnesse ma anche parte integrante di processi storici rilevanti e solo uno strumento come il cinema, mezzo espressivo tipicamente novecentesco, sia capace di rappresentarle. 
 
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 Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 25 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - EUROPA 51(1952) DI ROBERTO ROSSELLINI - Una ricerca dolorosa

 
 
Roberto Rossellini attraverso Germania anno 0 e Europa 51 realizza due opere dall'alto valore etico in cui, attraverso le vicende dei protagonisti, si interroga sul suo lavoro in epoca fascista e sul suo prendere coscienza dell'esser stato un regista di regime. La ricerca etica è sempre difficile e dolorosa e il tormento interiore dei protagonisti delle opere citate supera di gran lunga la trilogia della guerra antifascista in importanza storica e in valore etico e morale. Se Roma città aperta si è imposto a livello storico come manifesto del cinema antifascista, Europa 51 pone al centro il dover fare i conti con il proprio passato attraverso una ricerca difficile e dolorosa. Un cinema privo di ogni retorica capace di scavare nell'animo dei protagonisti sia dal punto di vista narrativo sia dal punto formale.
 
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 Claudio Suriani Filmmaker

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