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lunedì 1 aprile 2024
venerdì 8 dicembre 2023
C’E’ ANCORA DOMANI (2023) DI PAOLA CORTELLESI: SI IMPONE UNA RIFLESSIONE
Partiamo da una considerazione generale: ogni opera che dia adito a una discussione e a un confronto aperto arreca un contributo di valore alla comunità nell’epoca dell’essere umano digitale, veloce, poco riflessiva (non solo al cinema) che reclama un incremento di crescita personale propria dei vecchi cineforum. Detto questo, corre l’obbligo di precisare che da sempre il lavoro di Cinepeep è orientato a proporre mezzi critici per analizzare un lavoro cinematografico a diversi livelli che possano generare giudizi di merito che, il più delle volte, viene confuso con il giudizio di gusto. Un’attenta analisi dell’opera in sé a stretto contatto con la contemporaneità ci consente di prendere le distanze dalla logica dell’intrattenimento ribadendo che l’esperienza dello spettatore cinematografico (non il cinema in sé) è dettata dal tempo presente … dal qui e ora.
Chiariti tali presupposti C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi, dimostra il potenziale (parola densa di significato) registico dell’artista romana. Al termine della visione ciò che appare evidente è non solo il desiderio di portare a compimento la propria idea di cinema (nel grigiume del cinema italiano contemporaneo – quanto meno delle opere di successo – è senz’altro positivo) ma anche omaggiare la grande stagione del cinema neorealista (consapevole?) anche attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio dell’Istituto Luce. Nonostante sia un’opera che dimostri un grande trasporto umano verso la condizione della donna nel nostro paese (mai cambiata in modo sostanziale) la nota di merito essenziale che desidero sottolineare non è tanto questa ma la ricerca personale che allontana l’ombra del marito Riccardo Milani dal ruolo simile a quello che Sergio Leone ebbe col Carlo Verdone degli esordi.
Ma esistono anche elementi di criticità.
Non posso affermare con certezza se sia da imputare alla Cortellesi o a imposizioni produttive tipiche del cinema italiano che ormai da anni, eccetto pochi casi (come la regista Alina Marazzi restando in ambito femminile) lavora contro la libertà stilistica (al contrario, del cinema orientale) quindi li metterò in evidenza sospendendo il giudizio.
Il primo aspetto è la colonna sonora: le musiche di Daniele Marchitelli (in arte Lele) sono in aperto contrasto con l’universo raccontato: un mondo fatto di violenza, di umiliazioni quotidiane ma anche di sofferenza e traumi inelaborati personali e collettivi… ricordiamo che siamo nell’immediato dopo guerra. La storia del cinema è carica di compositori che riuscivano a esprimere a pieno l’immaginario visivo dei registi per cui lavoravano (si pensi a Nino Rota per Federico Fellini o Angelo Badalamenti per David Lynch). Se l’intento di tale scelta era creare una sorta di shock nello spettatore non si è rivelata efficace in quanto nonostante la violenza subita da Delia sia quotidiana (al punto che anche il padre di Ivano sembra ribellarsi) Paola Cortellesi fa una scelta di campo chiara: mostrarla il meno possibile (in molte sequenze infatti è immaginata e non mostrata). Se l’inferno della protagonista emerge da una quotidianità divenuta ormai insopportabile ciò non consente alle musiche spensierate di Lele Marchitelli di creare quello shock estetico che (forse) la Cortellesi cercava (per comprendere meglio il concetto si pensi ad un film come Eraserhead: la mente che cancella – David Lynch, 1977 - e alla sua musica finale).
Questo è vale anche per le due sequenze di danza nel pieno della volgare violenza di Ivano.
Se un film come La vita é bella (Roberto Benigni, 1997) fu definito da Liliana Segre non realistico, nei confronti di C’è ancora domani vale lo stesso criterio: queste due sequenze rendono giustizia alle vittime di oggi? Inoltre, nel decidere di affrontare un tema drammaticamente attuale come la violenza sulle donne attraverso l’immaginario del neorealismo (scelta in partenza efficace) perché distaccarsi dai dettami estetici di una vera e propria scuola che così tanto ha dato al cinema italiano (e non solo) rappresentando a pieno la realtà per ciò che era?
Per concludere credo che le strade siano due: se da una parte un film come C’è ancora domani ci comunica che ogni scuola cinematografica è figlia del proprio tempo e cercare di replicarla a distanza di sessant’anni (neanche in modo del tutto fedele) possa risultare un’operazione di maniera, dall’altra, e torno al punto di partenza, una simile opera prima trasmette il desiderio (anche questo un termine saturo di significato) da parte di una giovane artista di mostrare al mondo le sue capacità (aspirazione del tutto legittima) cercando anche la propria identità registica … aspetto centrale per imporsi come autrice e non come regista mestierante.
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Claudio Suriani Filmmaker
giovedì 7 dicembre 2023
C'E' ANCORA DOMANI (2023) DI PAOLA CORTELLESI - RECENSIONE IN USCITA SU HTTP://CINEPEEPBARBARIENELCINEMA.BLOGSPOT.COM E WWWCINEPEEP.NET
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giovedì 18 maggio 2023
LA REGINE DI CASETTA (2018) DI FRANCESCO FEI - "Parto domattina per la Casetta. Là c’è silenzio". Dino Campana
Il documentario nella sua storia ci è sempre stato proposto come un filone audiovisivo separato dal cinema, causa un approccio di tipo manualistico che a oggi ha perso ogni fondamento in quanto non solo il variegato universo sperimentale è andato ben oltre il cinema narrativo ma lo stesso racconto della realtà è diventato un tutt’uno con il cinema meainstrem a partire da opere come F come falso (Orson Welles, 1973) fino alla sua esplosione nel cinema horror.
Nonostante negli esempi citati la fusione tra realtà e finzione sia dichiarata è pur vero che ogni volta che nasce una nuova forma espressiva (di tipo narrativo o figurativo) essa diventa istantaneamente prassi, come se nel cinema il concetto di novità non potesse imporsi in modo duraturo. La Regina di Casetta vive di questa tensione interna: narra la vita di Casetta di Tiara, un piccolo borgo dell’alto Mugello destinato a quel fenomeno tipicamente italiano dello spopolamento dei piccoli borghi; Gregoria è l’unica adolescente e anche lei, con la sua famiglia, è destinata a lasciare Casetta per poter frequentare, da settembre, il liceo.
Attraverso un racconto fatto di gesti quotidiani e di una vita capace ancora di ruotare attorno ai cicli naturali della vita (come la raccolta delle castagne, la caccia al cinghiale o la neve d’inverno) un’opera come La Regina di Casetta riesce a rappresentare il cinema nella sua dimensione archeologica con la messa in scena del tempo e il cinema come archivio del mondo. Se in La Regina di Casetta appare fortissima l’influenza del cinema documentario di Werner Herzog, è pur vero che tale approccio è declinato in modo diverso; se l’intera opera dell’autore tedesco sembra percorrere due strade parallele (come fiction e documentario) Francesco Fei, nel desidero di rendere in modo veritiero la vita della giovane protagonista e della sua piccola comunità, non riesce a cogliere la vita sul fatto (come il cinema russo anni venti ci ha insegnato) arrivando a fondere involontariamente realtà e finzione in quanto non solo tutti fingiamo davanti a un obbiettivo ma ogni decisione formale rappresenta, sempre, una scelta soggettiva dell’autore. Eppure cos’è che rende così affascinate quest’opera? E’ la messa in scena di un tempo ormai rivolto al declino.
Andrej Tarkovskij nel suo volume Scolpire il tempo (Ubulibri, a cura di Vittorio Nadai, Pag. 54) afferma che … per la prima volta nella storia dell'arte e per la prima volta nella storia della cultura, l'uomo trovò il mezzo per registrare direttamente il tempo. E contemporaneamente, trovò la possibilità di riprodurre a piacimento lo scorrere di questo tempo sullo schermo, di ripeterlo, di ritornare a esso. L'uomo ricevette così nelle proprie mani la matrice del tempo reale. Una volta visto e impresso sulla pellicola, da quel momento poté essere conservato a lungo, registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali e questa è secondo me, l'idea fondamentale del cinema e dell'arte cinematografica. Questa idea mi consente di pensare alla sua ricchezza di possibilità non sfruttate, al suo sconfinato futuro. Ed è partendo da essa che costruisco le mie ipotesi di lavoro.
Attraverso la vicenda di Gregoria Francesco Fei realizza un’opera caratterizzata da temporalità conflittuali: ci narra un tempo presente in cui da una parte sopravvivono ritualità dal sapore pagano ma dall’altro è divenuto incapace di costruire una nuova storia per Gregoria e per la sua piccola comunità. Qui il fuoricampo della grande metropoli entra prepotentemente in gioco come elemento determinante sia per lo sviluppo narrativo che per il senso generale dell’opera.
La Regina di Casetta non è un documentario dal sapore antropologico (come erroneamente è stato definito) ma uno sguardo malinconico su una comunità destinata a scomparire portando con sé l’infinito bagaglio di culture e tradizioni centenarie…è come se Francesco Fei volesse rendere omaggio a questo piccolo ma importante borgo per l’opera di scrittori come Dino Campana e Sibilla Alemaro e per esser stato teatro di importanti lotte partigiane (come riportato nel volume Appuntamento a Casetta di Tiara – Serena Cinque, Michele Geroni, Sarnus editore) senza poter sfuggire a un sottile, ma profondo senso di malinconia per un mondo destinato a sparire per sempre.
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Claudio Suriani Filmmaker
martedì 7 febbraio 2023
FREAKS OUT (2021) DI GABRIELE MAINETTI - La memoria perduta
Freaks Out narra le vicende di un gruppo di fenomeni da circo durante l’occupazione nazista di Roma e porta con sé numerosi interrogativi che necessitano di essere contestualizzati.
Un primo aspetto di carattere generale è che Freaks Out è un opera di corto respiro: il cinema degli ultimi anni ha prodotto numerose opere ambientate nel mondo circense come The greatest showman del (2017) Big Fish, Le storie di una vita incredibile (Tim Burton, 2003) Mirror Mask (Dave McKean, 2005) e Dumbo (Tim Burton 2019) senza dimenticare i classici come Il circo (Charlie Chaplin, 1928) e La strada (Federico Fellini, 1954) oltre a serie tv di alto valore come Carnivale (HBO, 2013). In Freaks Out la caratterizzazione dei personaggi resta legata a doppia mandata all’anima popolare delle strade di Roma a differenza delle opere citate che si sono imposte nella storia del cinema come capolavori del genere circus grazie alla loro capacità di narrare storie universali. Questo è un aspetto riscontrato molte volte nelle produzioni RAICINEMA: nel produrre opere che fin dalla loro uscita mirano ai passaggi televisivi in prima serata si arriva a mettere in scena un film per famiglie de tutto privo di incisività (a differenza del fascino perverso di Freaks di Tod Browning).
L’aspetto tuttavia più complesso è la rappresentazione della questione ebraica. In Freaks Out la fiaba tende a fagocitare il tema della memoria storica rendendola quasi un’appendice. Mainetti sembra dimenticare (o peggio non conoscere) l’analisi di Serge Daney del film Kapò (G. Ponecorvo, 1960): l’opera di Pontecorco ci dimostra, come scrisse Daney, che Non ci si deve mai mettere dove non si è, né parlare al posto degli altri. La questione ebraica in Freaks Out resta una tematica di contorno del tutto secondaria rispetto alle vicende dei protagonisti e questo è un aspetto della massima importanza non solo perché è un punto cardine per gran parte della critica contemporanea (si pensi al rapporto che esiste tra opere come Nuit et brouillard di Alain Resnair, Shoah di Claude Lanzmann e L’Histoire(s) Dù Cinemà di J.L.Godard) ma porta con sé la capacità di dare valore testimoniale alle immagini per rendere giustizia alle vittime non solo della Shoah ma anche degli orrori contemporanei. Questa debolezza strutturale rende Freaks out un film adatto alle prime serate in famiglia ma che toglie a Gabriele Mainetti una forte marca autoriale e la capacità di ritagliarsi un posto all’interno del panorama del cinema italiano e internazionale (e in questo risulta un forte passo indietro rispetto a Lo chiamavano Jeeg Robot) perché il paragone con i capolavori del genere circus sono inevitabili e come abbiamo visto non regge il confronto.
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venerdì 20 gennaio 2023
NIGHTMARE IN A DAMAGED BRAIN (1981) DI ROMANO SCAVOLINI - L'orrore del rimosso
Tuttavia l’opera per cui è maggiormente ricordato è lo slasher Nightmares in a Damaged Brain del 1981, opera che si pone come uno dei film più importanti del genere per la sua capacità di rappresentare il concetto di trauma freudiano (evidente l’influenza del cinema di Alfred Hitchcock, specialmente di Marniedel 1964). La trama è la seguente: George Tatum, criminale con profonde turbe psichiche, viene dimesso dall’ospedale psichiatrico in quanto il suo medico lo ritiene guarito dalle sue psicosi. Fin da piccolo la sua malattia ruota attorno a un sogno ricorrente: un bambino che assiste a una scena di sesso tra un uomo ed una donna nell’atto di un rapporto sado, l’uomo legato al letto dalla donna e picchiato duramente.
Tatum nel corso di tutto il film ricerca, attraverso i suoi omicidi, sia l’esperienza che ha determinato la breccia inferta nella barriera protettiva, attraverso il meccanismo della coazione a ripetere, sia il soddisfacimento di una pulsione sessuale che trova nell’ascia la scarica energetica attraverso un oggetto parziale. Tatum non arriva mai ad avere un rapporto fisicamente soddisfacente (e neanche parzialmente come nella scena della spogliarellista) e esemplifica lo sviluppo teorico freudiano della teoria traumatica: dal momento dell’omicidio non è più l’atto in sé ad essere traumatico quanto la sua mancata elaborazione attraverso le vicende che lo vedono protagonista. L’io di Tatum è consapevole dell’orrore delle sue azioni ma è la pulsione di morte a guidarlo arrivando a vivere la propria morte come una liberazione.
Da un punto di vista formale Nightmares In a Damaged Brain è in linea con le maggiori opere definite Video Nasty (termine ideato dalla censura del Regno Unito per indicare opere audiovisive particolarmente violente e commercializzate come home video) come I Spit on Ypur Grave (Non violentate Jennifer – Meir Zarchi, 1978) La casa (Sam Raimi, 1981) o La casa sperduta nel parco (Ruggero Deodato, 1980) opere caratterizzate da una messa in scena di taglio televisivo e prodotte per il mercato degli home video. Nightmares In a Damaged Brain trova il suo punto di maggior interesse nella rappresentazione del rimosso e della coazione a ripetere freudiana e arrivò ad influenzare fortemente il mondo della cultura underground (come ad esempio la copertina del disco del Cripple Bastards Massacrecore del 1997).
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martedì 6 dicembre 2022
PILLOLE DI CINEMA - ACCATTONE (1961) DI PIER PAOLO PASOLINI - La fame dello Zanni
Pasolini lavora sulla composizione dell'inquadratura considerata indissolubile dalle arti del passato in cui risuonano gli echi della pittura tre/quattrocentesca toscana che svilupperà ulteriormente in opere successive come Mamma Roma (1962), La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).
Inoltre a differenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) in cui le figure di Aldo Fabrizi e di Anna Magnani catalizzarono l'immaginario dello spettatore (secondo la logica dello Star System hollywoodiano), in Accattone non esistono attori professionisti: Franco Citti sarà per sempre Accattone in quanto non c'è separazione, di ordine professionale, tra lui e il personaggio.
venerdì 2 dicembre 2022
OCCHIALI NERI (2022) DI DARIO ARGENTO - Il declino di un grande maestro.
domenica 27 novembre 2022
PILLOLE DI CINEMA - UN ORA SOLA TI VORREI (2002) DI ALINA MARAZZI - Memorie famigliari
venerdì 25 novembre 2022
PILLOLE DI CINEMA - EUROPA 51(1952) DI ROBERTO ROSSELLINI - Una ricerca dolorosa
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