La zona d’interesse (Jonathan Glazer, 2023) necessita di un’introduzione propedeutica.
La Shoah è un evento storico che s’impone da sé in quanto la sua elaborazione e memoria portò alle estreme conseguenze determinati aspetti della contemporaneità oggi ancora vivi che potremmo riassumere nella filosofia a cui Michel Foucault e in Italia Roberto Esposito e Giorgio Agamben diedero il nome di Biopolitica.
Questo allargamento della riflessione ci permette non solo di riattualizzare l’Olocausto (soprattutto a causa dei mutati rapporti di forza nel panorama geopolitico mondiale) ma anche di evitare una facile deriva retorica costantemente presente quando si affrontano queste tematiche. Come mettere in relazione la catastrofe del passato (non così remoto) con quelle di oggi? Ci rivolgiamo al filosofo sloveno Slavoj Žižek e alla sua analisi. Žižek in una lunga video-intervista rilasciata a Enrico Ghezzi nella serie Parola (su una) data (una videocosa, per riprendere un termine caro al critico italiano) affronta il tema della catastrofe arrivando a distinguere La catastrofe visibile da quella invisibile, ponendo l’accento sulla seconda (citando come esempio Cernobyl) come elemento caratterizzante del mondo a venire in quando inelaborabile in immagine.
La zona d’interesse sembra prendere vita proprio da tale concetto e dall’assunto teorico di Claude Lanzmann in Shoah (Tascabili Bompiani, 2000): In un certo senso si può affermare che nessuno sia mai stato ad Auschwitz perché coloro che vi sono stati deportati e che sono morti subito, in realtà … non hanno fatto in tempo a sapere ciò che c’era.
Jonathan Glazer mette in scena la vita quotidiana della famiglia Hoss che vive in una casa a ridosso del campo di sterminio di Auschwitz, attribuendo un ruolo di primissimo piano al sonoro proveniente dal campo e alle immagini che lo stesso suggerisce allo spettatore o che (non) suggerisce agli inquilini di casa Hoss in cui si vive secondo una quotidianità ben strutturata tipica del Terzo Reich. Assistiamo a un processo di privazione deliberata della realtà, un fuori campo che sfocia in un’oppressione anestetizzante che, tuttavia, non arriverà mai alla coscienza degli inquilini di casa Hoss sottoforma di trauma.
E’ come se la Shoah non esistesse in quanto ogni elemento del contesto concentrazionario attua, o subisce, la privazione dello sguardo sulla camera a gas e il crematorio … un destino che accomunerà vittime e carnefici da due prospettive diametralmente diverse: i primi persero la vita mentre i secondi, la capacità di portare a coscienza l’orrore.
Negare lo sguardo significa relegare tali eventi al di fuori della storia rendendo tali traumi fuori da ogni possibilità elaborativa personale e/o storica. La zona di interesse era un’area di quaranta metri quadrati adiacente al perimento dei campi, una sorta di zona cuscinetto che doveva impedire ai cittadini delle zone abitate di entrarvi in contatto, in particolar modo con i prigionieri e in cui i protagonisti del film convergono le proprie attenzioni quotidiane come un orto e un giardino ben curato ...
Casa Hoss viene vissuta dai suoi inquilini come un paradiso come dimostra la sofferenza della Sg.ra Hoss alla notizia del trasferimento del marito. E’ un paradiso che tuttavia si basa sempre sul principio della selezione e che in La zona d’interesse ci appare come l’elemento chiave dell’intera pellicola. E’ come se in ogni inquadratura ci sia una sorta di lavoro interno al visibile capace di svilupparsi a diversi livelli: il primo è strettamente concettuale in quanto il paradiso di casa Hoss ci appare profondamente inquietante, il secondo è capace di lavorare sul sensibile rendendo questo sentimento perturbante, chiave per far travalicare il fuori campo nella dimensione del visibile. Azzarderei che Glazer non riesce ad avere un pieno controllo sugli effetti del fuori campo ma cerca di assecondarlo creando un’opera, nella sua alta drammaticità, satura di una libertà stilistica capace di dare un contributo innovativo alla tradizione cinematografica sulla Shoah.
Inoltre, se questa ha tra le sue tematiche la privazione (o selezione) dello sguardo, tale processo da sempre è stato convertito dal cinema in una separazione tra l’opera e la sala: a questo punto si impone una questione puramente cinematografica. Abbiamo visto in altri articoli come l’orrore perda efficacia nel momento del suo manifestarsi, concetto valido sia per il cinema horror sia per l’orrore di carattere storico. Tuttavia se nell’horror cinematografico l’orrore celato ci conduce verso una tensione di tipo hitchcockiana in cui è più corretto parlare di terrore, in La zona d’interesse è la negazione stessa dello sguardo a risultare un’azione violenta capace di condurre lo spettatore in quella zona grigia tipica dei burocrati nazisti.
In La zona d’interesse l’orrore della storia si apre in un mondo chiuso in se stesso che, tuttavia, impedisce allo spettatore di cadere in quel meccanismo anestetizzante dell’intrattenimento tipico del cinema di consumo.
Non è azzardato affermare che La zona d’interesse non sia un film sulla memoria ma su quei processi culturali e psicologici che portano l’essere umano a normalizzare gli orrori del mondo rendendolo, oggi, non così diverso dagli inquilini di casa Hoss.
Claudio Suriani Filmmaker