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giovedì 30 novembre 2023

martedì 13 dicembre 2022

COFFE AND CIGARETTES (2003) DI JIM JARMUSH - Il jukebox di Tesla

 

Louie louie che suona nei titoli di testa (e anche in quelli di coda, ma ne parleremo) già di per sé apre l'immaginario estetico dell'opera di Jarmusch.  

 


In Coffee and cigarettes i suoni e le immagini si intrecciano rendendo l'opera un grande album musicale/visivo. Parlavamo di Louie Louie di Richard Berry and the Pharaohs, la prima e originale versione, il brano più coverizzato della storia del r'n'r, è un classico doo-wop di metà anni '50, ballabile, con tanto di coretti sdolcinati, ma la versione più conosciuta è quella del '63 dei Kingsmen, e qui è un'altra storia, poiché rifanno il brano in uno sfasciato r'n'r incasinato e rumoroso (per l'epoca) adatto a sballoni della middle class bianca americana (vi ricordate la storia dei bianchi che rubavano la musica ai neri e ci facevano anche dei soldi? Perfetto! Questo è un esempio!) e non può non venire in mente la scena della festa delle matricole nella Delta House in Animal House dove in preda a deliri alcolici si balla questo pezzo. Ma perchè mi soffermo su Louie Louie? Perchè è stata importante per la nascita di tante band della metà anni '60 (ho detto garage? Eh..si tratta proprio di band garage!) una di queste si chiamava The Iguanas e ci suonava come batterista Iggy Pop (l'iguana per l'appunto). Iggy, anche lui presente in uno degli episodi di Coffee and Cigarettes insieme a Tom Waits, e mentre discutono e un pò si scontrano su caffè, sigarette e musica, il jukebox suona un pezzo di musica hawaiana (Hanalei moon di tale Jerry Byrd).Mi è sempre piaciuto pensare che il regista qui giochi un po’... Un incontro, due rumoristi come Iggy e Waits (e qui si parla del Tom Waits moderno post Bone machine) possibile che ascoltino un palloso pezzo di musica hawaiana e ognuno non trovi nel jukebox un pezzo dell'altro? 

E Iggy Pop con gli Stooges sono i protagonisti anche dell'episodio con Jack e Meg White (gli White Stripes): dal jukebox arriva sparato tutto l'inizio di Down on the street, primo pezzo di Funhouse, secondo album dei Stooges, in pratica: l'invenzione del punk! Jack spiega ed espone a Meg, la bobina di Tesla, un trasformatore ad alta tensione che può generare dei fulmini, che è sempre una questione di elettricità (visiva, musicale, tecnica) e mi viene in mente un' intervista a Grandmaster Flash in cui diceva che da piccolo era attratto da tutte le cose elettriche, tutto ciò che si poteva attaccare ad una presa: dj, chitarristi, musicisti…che forse alla fine fanno musica solo per sentire e produrre elettricità. Chissà se anche Tommy James and the Shondells la rifacevano Louie Louie…qui sono presenti invece con Crimson and Clover del '68, uno dei brani classici dei Sixties, anche questa stra-coverizzata in Italia e Soli si muore di Patrick Samson, forse una scelta troppo scontata da parte di Jarmusch. I legami nel film ci sono sempre, la discussione sull'appropriazione delle


musiche nere da parte dei bianchi (ricordate?) la fa da protagonista nell'episodio Gemelli, in cui si parla di Elvis e dei suoi saccheggi musicali tra due gemelli afroamericani ed un cameriere (Steve Buscemi) lo stesso che ne Le Iene di Tarantino non voleva dare la mancia alla cameriera, e qui invece lui non se la merita proprio. Merita però simpatia come cameriere Bill Murray, che in uno dei cortometraggi ha a che fare con RZA e GZA (Wu-Tang Clan) mentre in sottofondo da un jukebox che non si vede ma che deve esserci, suona Nappy Dugout dei Funkadelic, un funk che parte dalla giungla africana ed arriva in un astronave ai confini dell'universo…straordinaria. I Funkadelic sono presenti nella colonna sonora anche con A joyful process uno strumentale funk che parte in sordina, poi esplode portandosi dietro tutta la cultura della black music, da Jimi Hendrix a James Brown e Sly Stone e naturalmente i Parliament (George Clinton è stata la voce di entrambe le band). Da segnalare anche Nimble foot ska dei Skatalites, favoloso strumentale rocksteady con sassofono da atmosfera jazz, di Rolando Alphonso in primo piano, che guida tutto il pezzo. Ed infine si torna a Louie Louie…Nei titoli di coda c'è quella fatta da Iggy Pop (da American Caesar del '93) ed è ancora diversa da altre centinaia di versioni, è lenta, grezza e minimale, con delle chitarre metalliche in primo piano, la voce è limpida e quasi glam, gli assoli sono puro punk/blues. Alla fine questo brano ha attraversato tutta la pellicola e come il r'n'r si è ripetuto e trasformato (e neanche tanto) ma a me piace così.

E con questo il cerchio si chiude.

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Massimo Fiore


I


BROKEN FLOWERS (2005) DI JIM JARMUSH

Uno dei meriti della colonna sonora di Broken Flowers di Jarmusch è aver riportato in auge una certa scena musicale etiope, ovvero il glorioso Ethio Jazz già tanto celebrato qualche anno prima dalle raccolte Ethiopique. Ma non è solo questo...e come potrebbe esserlo per una pellicola ambientata nella più profonda provincia americana? 

 

 
Ma andiamo con ordine. Una premessa: Broken Flower, del 2005, è ambientato in un contesto pre-rivoluzione/involuzione digitale, internet c’è, ma non ha ancora cambiato le nostre vite, i cellulari non sono ancora indispensabili nella quotidianità e per ascoltare bene la musica c’è ancora bisogno di un impianto audio, un lettore cd in auto con relativo supporto, magari masterizzato. Il ruolo chiave della storia è in carico a Winston (Jeffrey Wright) che convince l’amico Don (Bill Murray) a intraprendere un viaggio nella provincia americana organizzandogli tutto compreso un cd di musica etiope che gli masterizza (una colonna sonora nella colonna sonora). I pezzi strumentali di Mulatu Astatke (padre putativo del jazz etiope) vengono usati soprattutto nelle scene del viaggio del protagonista: Yegelle Tezet, un pezzo quasi rocksteady, Yekermo Sew e Gubelye, jazz minimale e scuro, punto d’incontro tra Etiopia e scena jazz newyorkes

Poi c’è la bellissima cover in acido di Ethanopium, dei Dengue Fever…

Queste musiche accompagnano Don (apatico, silenzioso e scettico) lungo il suo viaggio nelle contraddizioni americane e più che stare nel caos delle autostrade sembra invece di essere in un fumoso club jazz.

Ma come dicevo, nella colonna sonora c’è tanto altro.



Penso alla There is an end, dai sapori sixties, di Holly Golightly (una delle tante ex muse di Biily Childish e fategli una statua per favore a questo uomo!) accompagnata dai Greenhornes, il reggae Ride your donkey dei Tennors, la classica I want you di Marvin Gaye, la bellissima psichedelia anni ’90 di Not if you were the last dandy on earth dei Brian Jonestown Massacre, addirittura presenti i pesanti Sleep con Dopesmoker in una favolosa scena dove Don ha un brutto incontro con dei motociclisti tardo hippy.

Nel lavoro complesso di assemblare pezzi di vari artisti nella stessa colonna sonora, credo che in Broken Flowers siano state fatte scelte azzeccate, non scontate.

Gli accostamenti tra i pezzi scelti e le varie scene confermano la competenza e la passione del regista verso musicisti anche non allineati (come per esempio l’azzardo Sleep). Ed anche solo per questo verso Jarmusch non si può che avere massimo rispetto.

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Massimo Fiore


domenica 4 dicembre 2022

24 HOUR PARTY PEOPLE (2002) DI MICHAEL WINTERBOTTON) - La scelta di Tony

Per capire bene la nostra storia partiamo da una data: 4 giugno 1976. In 24 hour party people di Michael Winterbottom se ne parla all'inizio: il protagonista Tony Wilson (Steve Coogan) voce narrante, racconta di quella serata in cui suonarono per la prima volta a Manchester, al Lesser Free Trade Hall, i Sex Pistols facendola coincidere con la data dell'inizio del Manchester sound, anche perché tra i pochi presenti al concerto ci sono alcuni dei protagonisti della scena musicale mancuniana degli anni a venire. 
 





Siamo quasi all'esplosione del punk, la ventata fresca che porta queste nuove band è un toccasana per i giovani inglesi stanchi di suoni triti e ritriti, dei lunghi tecnicismi, dei pantaloni a zampa, di capelloni e barbe lunghe. Arrivano i punks che riportano tutto all'essenziale e al minimo impegno nel saper e nel voler suonare... e tutto cambia. Non voglio fare il radicale come Tim Warren che sostiene che il r'n'r è morto nel '67 ucciso da Sgt.Pepper's, lo so, che il punk c'era già negli Stati Uniti, lo so delle garage band americane, dei Stooges e degli MC5, dei Velvet Underground e dei New York Dolls, dei Ramones e delle altre band newyorkesi del giro CBGB's e Max's Kansas City, ma è in Inghilterra che nascono le prime fanzines, nasce un (non) movimento e persino un modo di ballare.
Nella colonna sonora del film sono presenti appena tre classici del primo punk inglese, ci sono naturalmente i Sex Pistols con Anarchy in the Uk, ci sono i Clash con Janie Jones e i Buzzcocks (prima band punk di Manchester) con Ever fallen in love (with someone you shouldn't've) tutte band che Tony Wilson passa nel suo programma musicale televisivo. 
 
 
 
Poi decide che la sponsorizzazione televisiva non basta e si dà anche alla produzione e distribuzione delle nuove band di Manchester facendo nascere, insieme ad Alan Erasmus, la Factory Records (un omaggio a Warhol?) l'etichetta che cambierà...o devierà la storia della musica pop. Entrerà nel gioco come produttore anche Martin Hannett (nella sua lapide giganteggia la frase “produttore e creatore del Manchester sound”, per far capire che personaggio abbiamo di fronte) che il suo metodo di lavoro poco convenzionale di sperimentatore incallito e il suo amore per l'eroina ne fanno un tipo non proprio facile da gestire. La sua genialità e il suo atteggiamento da padre padrone dentro lo studio di registrazione lo porteranno ad essere odiato da alcuni musicisti, in alcuni casi pretenderà persino di essere accreditato come scrittore e compositore dei brani (e meno male che Wilson non ingaggiò...o non ci riusci'...gli Smiths ed i Fall, ve lo immaginate che casino sarebbe successo tra Hannett, Morrissey e Mark E. Smith?).
Qui lo possiamo sentire nel lavoro fatto con i Joy Division...e con Transmission e la sua famosa linea di basso martellante e ripetitiva, la batteria secca e veloce (la firma di Hannett) uno dei capisaldi di tutto il post punk, poi She's lost control sempre con il basso che guida tutto, le batterie con ritmi meccanici sovrapposte, la bellissima Atmosphere con quel ritmo tribale e i sintetizzatori con sonorità scure per poi aprirsi a suoni celestiali mentre la voce profonda di Ian Curtis canta non andartene in silenzio, non andartene ... quello che avrei voluto dirgli il 18 maggio del 1980 prima che decidesse di lasciare questa disgraziata terra...e infine Love will tear us apart con la struttura da normale (perfect) rock song dove il giro oramai inconfondibile di tastiera la fa da padrone. L'altra band del primo giro Factory presente nella colonna sonora sono i Durutti Column, qui con Otis, brano guidato dall'arpeggio di chitarra di Vini Reilly che insieme agli inserti di voce quasi in lontananza rendono l'atmosfera del brano rilassata e ultraterrena ... molto bella.
 

 
 

Poi tutto cambia. Ian Curtis muore ed i Joy Division diventeranno i New Order, faranno ballare tutto il mondo, venderanno milioni di dischi e apriranno la strada a una nuova scena (Manchester) di band come gli Happy Mondays di quei flashati dei fratelli Shaun e Paul Ryder. Nella pellicola si dà ampio spazio alle musiche e alle scorribande grottesche e divertenti dei fratelli Ryder, la loro musica è un cocktail di dance e funky bianco tutto shackerato con il post punk e servito ad una festa sballatissima. La festa sarebbe potuta esserci all'Hacendia (Fac 51) anche se li' è in tutti gli altri club aperti in quel periodo i giovani preferivano l'ecstasy all'alcool. La cultura del club, con l'esplosione dell'house e dell'acid house e il ruolo principale del dj sarà la nuova moda nei locali di Manchester, prima, e di tutto il mondo, poi.  Bella la scena finale dell'ultima serata dell'Hacendia, mentre il dj suona Hallelujah degli Happy Mondays in versione club mix (la dance anni '90 come sarebbe dovuta essere) Tony Wilson incita i giovani a saccheggiare tutta la strumentazione prima di lasciare il locale e non può non venire in mente il blackout di New York tra il 13 ed il 14 luglio del 1977, quando centinaia di ragazzi assaltarono i negozi di elettronica e rubarono mixer e giradischi che non avrebbero mai potuto permettersi. Si dice che la futura scena hip hop newyorkese nacque quella notte.

Martin Hannett morirà di infarto a soli 42 anni il 18 aprile del 1991 e la Factory chiuderà per fallimento nel 1992. E proprio in quegli anni inizierà in Inghilterra quel mega imbroglio del Britpop.

Ma si può dire che la popular music alla fine è sempre stata tutta una grande truffa e i Sex Pistols lo avevano capito bene.

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Massimo Fiore

 

sabato 3 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - HEIMA; SIGUR ROS - Dalla meravigliosa terra d'Islanda

 
 
La turnè del 2006 dei Sigur Rós fu seguita dal regista canadese Dean DeBlois (conosciuto soprattutto per il suo cinema di animazione) e da tale collaborazione nacque Heima, uno dei documentari musicali più interessanti degli ultimi anni.
  
In questa serie di concerti in madre patria Dean DeBlois riesce a fondere a pieno il sound della band con la natura islandese caratterizzata da un gioco di luci talmente espressivo capace di dare all'opera un valore fortemente cinematografico. La natura psichedelicha del sound  dei Sigur Rós si sposa a pieno con lo spazio naturale nordico in cui i lunghi periodi di luce (e di buio) creano un atmosfera fuori dal tempo ed è per questo che la scuola cinematografica scandinava è, storicamente, una delle più importanti. 
 
Heima un opera dal valore contemplativo; è un percorso audiovisivo in cui il post/rock dei Sigur Rós arriva ad esprimere una laica spiritualità.

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Claudio Suriani Filmmaker
 
 

venerdì 25 novembre 2022

ELVIS (2022) DI BAZ LUHRMANN - La società dello spettacolo

Per analizzare un personaggio complesso come Elvis Presley attraverso l’occhio di Baz Luhrmann, regista conosciuto per il suo stile barocco al limite del ridondante, ritengo necessario partire da un presupposto di ordine generale: parlare di Elvis Presley vuol dire parlare del XX secolo e di quell’America che ormai aveva lasciato alle proprie spalle il secondo conflitto mondiale ma che si ritrovò a combattere contro il nemico interno della segregazione razziale.

Gli anni 50 furono un periodo storico ricco di contraddizioni ma anche saturo di una forza creativa i cui frutti si sentono ancora oggi in tutto il mondo. Tuttavia l’opera di Luhrmann ci descrive ciò che Guy Debord definì La società dello spettacolo. Ricorro alle linee guida di quest’importantissima opera filosofia in quanto la sua parabola rappresenta in modo determinante quel processo di mercificazione tipico della società contemporanea che ha come unico scopo la propria autolegittimazione. 

 

Elvis è un film in linea con lo stile registico di Luhrmann: fin dall’inizio cogliamo il filo rosso che lo collega a pellicole come Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996), Moulin Rouge! (2001) o Il grande Gatsby (2013) tuttavia, andando oltre l’analisi delle scelte formali di messa in scena, emergono diversi elementi dell’opera di Debord come la separazione delle immagini dalla vita, concetto presente nel capitolo La divisione perfetta. Quando Debord afferma che Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli non solo chiarisce quanto dietro fenomeni della portata di Elvis Presley ci siano strutture economico-produttive capaci di sovrastare la forza creativa dell’artista di Menphis, ma arriva a definire i processi di autolegittimazione del mondo dello spettacolo capaci di influenzare la nostra più stretta vita politica ( e in Italia gli esempi non mancano…).

Il film sembra essere consapevole di tutto ciò in quanto cerca di andare oltre il seminato della narrazione classica; tuttavia dal punto di vista formale la tendenza ad aggiungere anziché ridurre fa correre al regista rischi di ordine strutturale e il più evidente è il ricalcare eccessivamente eventi trascurabili. Nella sequenza della prima esibizione di Elvis il pubblico femminile ha una reazione di eccitazione al limite dell’isterismo (in rete si trova la registrazione originale del concerto) che non può che strappare una risata allo spettatore. Nel momento in cui Debord afferma che lo spettacolo è una visione del mondo che si è oggettivata, sia la musica che il cinema smettono di parlarci del mondo e di farci aprire ad esso, per costruire un meccanismo autoreferenziale in cui emergono in modo decisivo i dettami del sistema economico capitalista. Questo aspetto coglie in pieno la parabola di Elvis Presley che da autentico animale da palcoscenico diventò prima un mediocre attore hollywoodiamo per finire nella lunghissima serie di esibizioni all’l' International Hotel di Las Vegas. Lo spettacolo diventa, al tempo stesso, il mezzo e il fine di se stesso. Una prima obiezione che si potrebbe portare è che il film di Luhrmann ci mostra non solo la forza creativa di Elvis ma anche il suo declino come artista e come uomo. Anche in questo caso ci viene incontro Debord ponendo al centro il concetto di feticismo della merce: in ogni forma espressiva il messaggio portante cambia attraverso il sistema economico sul quale è basata l’intera società che lo produce arrivando, nel capitalismo ad un feticcio.


Questo fenomeno ha creato una profonda contraddizione nella società contemporanea arrivando a celebrare il capitalismo anche in assenza di sovrabbondanza di beni la quale, in ogni caso, non ha liberato l’uomo dalla necessità sia del consumo che del lavoro divenuto anch’esso una merce. La parabola di Elvis Presley è un esempio di come uno dei fenomeni più importanti del XX secolo sia divenuto un fenomeno di mercificazione talmente radicale da influenzare l’intera industria dello spettacolo e il film di Luhrmann, nonostante riesca a raccontare in modo dettagliato gli eventi, non riesce tuttavia a cogliere tali contraddizioni di ordine concettuale. Il limite interno al film di Luhrmann è che si limita ad una narrazione di tipo lineare non riuscendo a cogliere i percorsi teorici delineati: Elvis da personaggio vedette concentrò su di se gli sguardi del mondo intero dimenticando di non essere altro che il portavoce di interessi opposti al proletariato … e non a caso era chiamato il re. Elvis di Baz Luhrmann è un ottimo film di intrattenimento (in fondo per molti il cinema non è altro che questo) e lo si guarda con interesse e senza annoiarsi; tuttavia se cerchiamo uno sguardo più profondo che sia capace di parlarci della contemporaneità attraverso scelte formali coerenti, la mia opinione è che in questo film, non lo troveremo.

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 Claudio Suriani Filmmaker








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