Uno
dei meriti della colonna sonora di Broken
Flowers
di Jarmusch è aver riportato in auge una certa scena musicale
etiope, ovvero il glorioso Ethio Jazz già tanto celebrato qualche
anno prima dalle raccolte Ethiopique. Ma
non è solo questo...e come potrebbe esserlo per una pellicola
ambientata nella più profonda provincia americana?
Ma
andiamo con ordine. Una premessa: Broken
Flower,
del 2005, è ambientato in un contesto pre-rivoluzione/involuzione
digitale, internet c’è, ma non ha ancora cambiato le nostre vite,
i cellulari non sono ancora indispensabili nella quotidianità e per
ascoltare bene la musica c’è ancora bisogno di un impianto audio,
un lettore cd in auto con relativo supporto, magari masterizzato. Il
ruolo chiave della storia è in carico a Winston (Jeffrey Wright) che convince l’amico Don (Bill Murray) a intraprendere un viaggio
nella provincia americana organizzandogli tutto compreso un cd di
musica etiope che gli masterizza (una colonna sonora nella colonna
sonora). I
pezzi strumentali di Mulatu Astatke (padre putativo del jazz etiope)
vengono usati soprattutto nelle scene del viaggio del protagonista:
Yegelle
Tezet,
un pezzo quasi rocksteady, Yekermo
Sew
e Gubelye,
jazz minimale e scuro, punto d’incontro tra Etiopia e scena jazz
newyorkes
Poi
c’è la bellissima cover in acido di Ethanopium,
dei Dengue Fever…
Queste
musiche accompagnano Don (apatico, silenzioso e scettico) lungo il
suo viaggio nelle contraddizioni americane e più che stare nel caos
delle autostrade sembra invece di essere in un fumoso club jazz.
Ma
come dicevo, nella colonna sonora c’è tanto altro.
Penso
alla There
is an end,
dai sapori sixties, di Holly Golightly (una delle tante ex muse di
Biily Childish e fategli una statua per favore a questo uomo!)
accompagnata dai Greenhornes, il reggaeRide
your donkey
dei Tennors, la classica I
want you
di Marvin Gaye, la bellissima psichedelia anni ’90 di Not
if you were the last dandy on earth
dei Brian Jonestown Massacre, addirittura presenti i pesanti Sleep
con Dopesmoker
in una favolosa scena dove Don ha un brutto incontro con dei
motociclisti tardo hippy.
Nel
lavoro complesso di assemblare pezzi di vari artisti nella stessa
colonna sonora, credo che in Broken
Flowers
siano state fatte scelte azzeccate, non scontate.
Gli
accostamenti tra i pezzi scelti e le varie scene confermano la
competenza e la passione del regista verso musicisti anche non allineati (come per esempio l’azzardo Sleep). Ed anche solo
per questo verso Jarmusch non si può che avere massimo rispetto.
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Per capire bene la nostra storia
partiamo da una data: 4 giugno 1976. In 24
hour party people di Michael Winterbottom se ne parla all'inizio:
il protagonista Tony Wilson (Steve Coogan) voce narrante, racconta di
quella serata in cui suonarono per la prima volta a Manchester, al
Lesser Free Trade Hall, i Sex Pistols facendola coincidere con la
data dell'inizio del Manchester sound, anche perché tra i pochi
presenti al concerto ci sono alcuni dei protagonisti della scena
musicale mancuniana degli anni a venire.
Siamo quasi all'esplosione
del punk, la ventata fresca che porta queste nuove band è un
toccasana per i giovani inglesi stanchi di suoni triti e ritriti, dei
lunghi tecnicismi, dei pantaloni a zampa, di capelloni e barbe
lunghe. Arrivano i punks che riportano tutto all'essenziale e al
minimo impegno nel saper e nel voler suonare... e tutto cambia. Non
voglio fare il radicale come Tim Warren che sostiene che il r'n'r è
morto nel '67 ucciso da Sgt.Pepper's, lo so, che il punk c'era già
negli Stati Uniti, lo so delle garage band americane, dei Stooges e
degli MC5, dei Velvet Underground e dei New York Dolls, dei Ramones e
delle altre band newyorkesi del giro CBGB's e Max's Kansas City, ma è
in Inghilterra che nascono le prime fanzines, nasce un (non)
movimento e persino un modo di ballare. Nella colonna sonora del film
sono presenti appena tre classici del primo punk inglese, ci sono
naturalmente i Sex Pistols con Anarchy in the Uk, ci sono i
Clash con Janie Jones e i Buzzcocks (prima band punk di
Manchester) con Ever fallen in love (with someone you
shouldn't've) tutte band che Tony Wilson passa nel suo programma
musicale televisivo.
Poi decide che la sponsorizzazione
televisiva non basta e si dà anche alla produzione e distribuzione
delle nuove band di Manchester facendo nascere, insieme ad Alan
Erasmus, la Factory Records (un omaggio a Warhol?) l'etichetta che
cambierà...o devierà la storia della musica pop. Entrerà nel gioco
come produttore anche Martin Hannett (nella sua lapide giganteggia la
frase “produttore e creatore del Manchester sound”, per far
capire che personaggio abbiamo di fronte) che il suo metodo di lavoro
poco convenzionale di sperimentatore incallito e il suo amore per
l'eroina ne fanno un tipo non proprio facile da gestire. La sua
genialità e il suo atteggiamento da padre padrone dentro lo studio
di registrazione lo porteranno ad essere odiato da alcuni musicisti,
in alcuni casi pretenderà persino di essere accreditato come
scrittore e compositore dei brani (e meno male che Wilson non
ingaggiò...o non ci riusci'...gli Smiths ed i Fall, ve lo immaginate
che casino sarebbe successo tra Hannett, Morrissey e Mark E. Smith?).
Qui lo possiamo sentire nel lavoro fatto con i Joy Division...e con Transmission e la sua famosa linea di basso martellante e
ripetitiva, la batteria secca e veloce (la firma di Hannett) uno dei
capisaldi di tutto il post punk, poi She's lost control sempre
con il basso che guida tutto, le batterie con ritmi meccanici
sovrapposte, la bellissima Atmosphere con quel ritmo tribale e
i sintetizzatori con sonorità scure per poi aprirsi a suoni
celestiali mentre la voce profonda di Ian Curtis canta non
andartene in silenzio, non andartene ... quello che avrei voluto
dirgli il 18 maggio del 1980 prima che decidesse di lasciare questa
disgraziata terra...e infine Love will tear us apart con la
struttura da normale (perfect) rock song dove il giro oramai
inconfondibile di tastiera la fa da padrone. L'altra band del primo
giro Factory presente nella colonna sonora sono i Durutti Column, qui
con Otis, brano guidato dall'arpeggio di chitarra di Vini Reilly
che insieme agli inserti di voce quasi in lontananza rendono
l'atmosfera del brano rilassata e ultraterrena ... molto bella.
Poi tutto cambia. Ian Curtis muore ed i
Joy Division diventeranno i New Order, faranno ballare tutto il
mondo, venderanno milioni di dischi e apriranno la strada a una nuova
scena (Manchester) di band come gli Happy Mondays di quei flashati
dei fratelli Shaun e Paul Ryder. Nella pellicola si dà ampio spazio
alle musiche e alle scorribande grottesche e divertenti dei fratelli
Ryder, la loro musica è un cocktail di dance e funky bianco tutto
shackerato con il post punk e servito ad una festa sballatissima. La festa sarebbe potuta esserci
all'Hacendia (Fac 51) anche se li' è in tutti gli altri club aperti in
quel periodo i giovani preferivano l'ecstasy all'alcool. La cultura
del club, con l'esplosione dell'house e dell'acid house e il ruolo
principale del dj sarà la nuova moda nei locali di Manchester,
prima, e di tutto il mondo, poi. Bella la scena finale dell'ultima
serata dell'Hacendia, mentre il dj suona Hallelujah degli Happy
Mondays in versione club mix (la dance anni '90 come sarebbe dovuta
essere) Tony Wilson incita i giovani a saccheggiare tutta la
strumentazione prima di lasciare il locale e non può non venire in
mente il blackout di New York tra il 13 ed il 14 luglio del 1977,
quando centinaia di ragazzi assaltarono i negozi di elettronica e
rubarono mixer e giradischi che non avrebbero mai potuto permettersi.
Si dice che la futura scena hip hop newyorkese nacque quella notte.
Martin Hannett morirà di infarto a
soli 42 anni il 18 aprile del 1991 e la Factory chiuderà per
fallimento nel 1992. E proprio in quegli anni inizierà in
Inghilterra quel mega imbroglio del Britpop.
Ma si può dire che la popular
music alla fine è sempre stata tutta una grande truffa e i Sex
Pistols lo avevano capito bene.
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La turnè del 2006 dei Sigur Rós fu seguita dal regista canadese Dean DeBlois (conosciuto soprattutto per il suo cinema di animazione) e da tale collaborazione nacque Heima, uno dei documentari musicali più interessanti degli ultimi anni.
In questa serie di concerti in madre patria Dean DeBlois riesce a fondere a pieno il sound della band con la natura islandese caratterizzata da un gioco di luci talmente espressivo capace di dare all'opera un valore fortemente cinematografico. La natura psichedelicha del sound dei Sigur Rós si sposa a pieno con lo spazio naturale nordico in cui i lunghi periodi di luce (e di buio) creano un atmosfera fuori dal tempo ed è per questo che la scuola cinematografica scandinava è, storicamente, una delle più importanti.
Heima un opera dal valore contemplativo; è un percorso audiovisivo in cui il post/rock dei Sigur Rós arriva ad esprimere una laica spiritualità.
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Per
analizzare un personaggio complesso come Elvis Presley attraverso
l’occhio di Baz Luhrmann, regista conosciuto per il suo stile
barocco al limite del ridondante, ritengo necessario partire da un
presupposto di ordine generale: parlare di Elvis Presley vuol dire
parlare del XX secolo e di quell’America che ormai aveva lasciato
alle proprie spalle il secondo conflitto mondiale ma che si ritrovò
a combattere contro il nemico interno della segregazione razziale.
Gli anni 50 furono un periodo storico ricco di contraddizioni ma
anche saturo di una forza creativa i cui frutti si sentono ancora
oggi in tutto il mondo. Tuttavia l’opera di Luhrmann ci descrive
ciò che Guy Debord definì La società dello spettacolo.
Ricorro alle linee guida di quest’importantissima opera filosofia
in quanto la sua parabola rappresenta in modo determinante quel
processo di mercificazione tipico della società contemporanea che ha
come unico scopo la propria autolegittimazione.
Elvis è un
film in linea con lo stile registico di Luhrmann: fin dall’inizio
cogliamo il filo rosso che lo collega a pellicole come Romeo +
Giulietta di William Shakespeare (1996), Moulin Rouge!
(2001) o Il grande Gatsby (2013) tuttavia, andando oltre
l’analisi delle scelte formali di messa in scena, emergono diversi
elementi dell’opera di Debord come la separazione delle immagini
dalla vita, concetto presente nel capitolo La divisione
perfetta. Quando Debord afferma che Tutta la vita delle
società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione
si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli non solo
chiarisce quanto dietro fenomeni della portata di Elvis Presley ci
siano strutture economico-produttive capaci di sovrastare la forza
creativa dell’artista di Menphis, ma arriva a definire i processi
di autolegittimazione del mondo dello spettacolo capaci di
influenzare la nostra più stretta vita politica ( e in Italia gli
esempi non mancano…).
Il
film sembra essere consapevole di tutto ciò in quanto cerca di
andare oltre il seminato della narrazione classica; tuttavia dal
punto di vista formale la tendenza ad aggiungere anziché
ridurre fa correre al regista rischi di ordine strutturale e
il più evidente è il ricalcare eccessivamente eventi trascurabili.
Nella sequenza della prima esibizione di Elvis il pubblico femminile
ha una reazione di eccitazione al limite dell’isterismo (in
rete si trova la registrazione originale del concerto) che non può
che strappare una risata allo spettatore. Nel momento in cui Debord
afferma che lo spettacolo è una visione del mondo che si è
oggettivata, sia la musica che il cinema smettono di parlarci del
mondo e di farci aprire ad esso, per costruire un meccanismo
autoreferenziale in cui emergono in modo decisivo i dettami del
sistema economico capitalista. Questo aspetto coglie in pieno la
parabola di Elvis Presley che da autentico animale da palcoscenico
diventò prima un mediocre attore hollywoodiamo per finire nella
lunghissima serie di esibizioni all’l'International
Hotel di Las Vegas. Lo spettacolo diventa, al tempo
stesso, il mezzo e il fine di se stesso. Una prima obiezione che si
potrebbe portare è che il film di Luhrmann ci mostra non solo la
forza creativa di Elvis ma anche il suo declino come artista e come
uomo. Anche in questo caso ci viene incontro Debord ponendo al centro
il concetto di feticismo della merce: in ogni forma espressiva
il messaggio portante cambia attraverso il sistema economico sul
quale è basata l’intera società che lo produce arrivando, nel
capitalismo ad un feticcio.
Questo fenomeno ha creato una profonda
contraddizione nella società contemporanea arrivando a celebrare il
capitalismo anche in assenza di sovrabbondanza di beni la quale, in
ogni caso, non ha liberato l’uomo dalla necessità sia del consumo
che del lavoro divenuto anch’esso una merce. La
parabola di Elvis Presley è un esempio di come uno dei fenomeni più
importanti del XX secolo sia divenuto un fenomeno di mercificazione
talmente radicale da influenzare l’intera industria dello
spettacolo e il film di Luhrmann, nonostante riesca a raccontare in
modo dettagliato gli eventi, non riesce tuttavia a cogliere tali
contraddizioni di ordine concettuale. Il
limite interno al film di Luhrmann è che si limita ad una narrazione
di tipo lineare non riuscendo a cogliere i percorsi teorici
delineati: Elvis da personaggio vedette concentrò su di se
gli sguardi del mondo intero dimenticando di non essere altro che il
portavoce di interessi opposti al proletariato … e non a caso era
chiamato il re. Elvis di Baz Luhrmann è un ottimo film
di intrattenimento (in fondo per molti il cinema non è altro che
questo) e lo si guarda con interesse e senza annoiarsi; tuttavia se
cerchiamo uno sguardo più profondo che sia capace di parlarci della
contemporaneità attraverso scelte formali coerenti, la mia
opinione è che in questo film, non lo troveremo.
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