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martedì 4 marzo 2025

THE SUBSTANCE (2024) DI CORALIE FARGEAT. Un Freaks Show non convincente

  


 

 

Continua l’indagine sulla mutazione dei corpi.

Da Crimes of the Future (David Cronenberg, 2022) e il precedente Titane (Julia Ducournau, 2022) il body-horror è ormai sistemico in un cinema  che ambisce alla legittimazione critica attraversando in questo caso  il parallelismo nascita/disgregazione.

Grazie a Coralie Fargeat torniamo alle origini del progetto Cinepeep, nei meandri più oscuri della settima arte in cui il disgusto e la putrescenza vengono elevati a opera d’arte e strumento di lotta contro il politicamente corretto, cancro dell’audiovisivo contemporaneo … e forse non solo.

 

Ma The Substance ha una tale forza eversiva? 

 


 

 

Il film di Coralie Fargeat (francese come Julia Ducournau) è un connubio tra il dissacrante attacco al potere di Society;The Horror, Brian Yuzna, 1989 e l’indagine sul potere alienante dell’audiovisivo di  Videodrome, David Cronenberg, 1983,  con una sequenza ispirata, in modo fin troppo evidente, a Carrie; lo sguardo di Satana, Brian De Palma, 1976. Altri temi centrali sono la tematica del doppio ispirata a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde o Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson oltre alla critica sul taglio patriarcale e la mercificazione del corpo femminile.

 

L'articolo continua al link: https://www.cinepeep.org/home/cinema-horror/the-substance-2024-di-coralie-fargeat

mercoledì 12 febbraio 2025

NOSFERATU (2024) DI ROBERT EGGERS Uno stucchevole esercizio di stile.


 Nosferatu è una delle più grandi delusioni di quest’anno, delusione che ha origine dalle grandi aspettative su Robert Eggers dopo opere come The Witch e The Lighthouse… di The Northman   abbiamo ampiamente parlato.

Il giovane regista newyorkese ha imbastito una messa in scena ridondante che stride fortemente con l’immaginario della figura del vampiro degli anni venti, metafora di tragedie contemporanee e tradisce il desiderio stesso di Eggers di reinventare il cinema del passato in chiave postmoderna specie per la caduta del discrimine tra cultura popolare e cultura alta… e qualcuno prima o poi si prenderà l’onere di spiegarlo.

 

Andiamo per ordine: Siegfried Kracauer in Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco (Lindau, 2007) mette in luce come il cinema della repubblica di Weimar raccontava l’inconscio collettivo del popolo tedesco che prefigurava l’avvento del nazismo; Nosferatu di F. Murnau emerge come una delle grandi metafore delle paure di un’epoca che si avviava verso la catastrofe della guerra, immaginario che viene confermato da un’altra opera monumento del cinema tedesco come M, il mostro di Dusseldorf  (Fritz Lang 1931) in cui emerge il tema dei criminali al potere.

Tuttavia il rapporto tra la peste e la guerra (o i processi sommari) o tra vampirismo e dittatura non ha più ragione di essere nel momento in cui non solo la Germania ha elaborato il proprio passato (a differenza dell’Italia) ma a livello cinematografico il tema del vampirismo è stato destrutturato aprendolo a diverse interpretazioni: dalla commedia (Per favore, non mordermi sul collo, Roman Polanski, 1966) ad opere adolescenziali (l’intera saga di Twilight) … persino i cartoni animati.

L’opera di Eggers impatta nell’assenza di un sottotesto aperto alla contemporaneità: il suo limite nasce proprio dal voler riproporre uno schema narrativo incapace oggi di portare con sé un immaginario legato alla società dei primi del novecento al contrario di Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmush 2013) in cui emerge lo spettro dei nostri giorni.

 

 Oggi ciò che fa più paura non è il mostro (specie quello classico) ma il viscerale senso di solitudine dell’uomo moderno… una quieta disperazione del tutto priva di enfasi … Adam ne è un esempio perfetto.

 

Se il cinema di Murnau era saturo di un fuori campo ricco di sogni e presentimenti (non solo nel Nosferatu ma anche in capolavori come Faust del 1926 o Aurora del 1927) in Eggers l’opera è tutta in campo eliminando ogni possibile atto critico/interpretativo dello spettatore e nel momento in cui tutto ci è posto su di un piatto d’argento la domanda è: questo grande sforzo produttivo cos’ha aggiunto all’immaginario sui vampiri, alla carriera di Eggers e al cinema in generale? Che il regista newyorkese possiede una grande tecnica cinematografica? Non solo già lo sapevamo ma Nosferatu è l’ennesima conferma che un’opera (soprattutto nel cinema horror) priva di sottotesti si infrange contro il muro del già visto e già sentito.

 

Eggers attraverso il Nosferatu ha voluto intraprendere una strada troppo più grande di sé: il voler uccidere i propri maestri sfociando in un formalismo estetizzate privo di interesse…è come se  raccontasse molto più dello stesso Eggers che del Conte Orlok specie se si riflette sul desiderio dello stesso di affrontare i classici dell’orrore: è forse  questa lotta iconoclasta che priva il vampiro di quell’eleganza che è propria del suo personaggio?

 

Da Murnau a Herzog, passando per Tod Browning fino a Jarmush la raffinatezza è sempre stata una componente essenziale del vampiro capace di creare contrasto interno tra i modi esteriori e l’orrore di cui esso è portatore. Tuttavia non si può negare che questo desiderio di emancipazione di Eggers dai suoi stessi padri lo ha portato a sbagliare l’iconografia del personaggio non solo perché ci appare come Frankestein, storico alter-ego del Conte Dracula, ma a livello formale realizza un’opera dal taglio classico che vi si richiama fallendo in pieno questa (possibile) emancipazione.

 

Avendo amato profondamente le prime due opere di Eggers (soprattutto The Lighthouse) mi auguro che il regista americano porti avanti questa sua lotta interiore ma che abbandoni questa sterile riproposizione dei classici dell’orrore per esprimerla in opere nuove che rappresentino in pieno il suo grande potenziale registico … e forse autoriale.


Claudio Suriani Filmmaker


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giovedì 21 novembre 2024

ENYS MEN ( Mark Jenkin 2022 ) - Fantasmi dalla Cornovaglia




#EnysMen #Horror #FolkHorror

Enys Men ( Mark Jenkin, 2022) fu proiettato in anteprima nella sezione Quinzaine des Realisateurs del festival di Cannes del 2022 e si impose da subito nella sua essenza satura di simbolismo che affonda le proprie radici nella cultura pagana e animistica in cui la natura assume un valore religioso. E' un opera che si discosta dal canonico Folk- Horror soprattutto per influenze che vanno dal documentario al mystery movie.

Enys Men narra le vicende di Mary Woodvine, una botanica che studia l'evoluzione di un fiore raro in un'isola della Cornovaglia caratterizzata dall'assenza quasi totale di vegetazione e capace di trasmettere un forte senso di solitudine.
Abbiamo visto in numerosi casi come la solitudine nel cinema (e non solo) rappresenti la genesi di uno sguardo perturbante: non solo l'unico legame della protagonista con il mondo è legato a un fragile contatto radio ma la natura ostile del paesaggio la priva di ogni possibilità di fuga materiale e spirituale dalla sua condizione.

Se lo spettatore si approccia ad Enys Men per vivere un'esperienza stile The Wicker Man ( Robin Hardy, 1973) rimarrà deluso in quanto è un'opera dal forte valore sperimentale che fonde il cinema documentaristico di Herzog con alcune delle opere più significative del mistery cinema come Picnic ad Hanging Rock (Peter Weir, 1975) e The Lighthouse (Rober Heggers, 2019) arrivando a rappresentare un universo in cui le coordinate spazio-temporali si sottraggono per dar spazio a figure dal forte valore fantasmatico in un dialogo aperto con le opere citate.

Enys Men inoltre è caratterizzato da una fotografia stile pellicola anni settanta portandolo verso il found footage che, forse per la prima volta, si apre a numerose influenze ( sia narrative che visive ) dando nuova linfa vitale a uno stile che fino a oggi non aveva più nulla da dire.

Enys Men è sicuramente una delle opere più interessanti uscite negli ultimi anni capace di cercare nuove forme espressive senza il facile apprezzamento di un pubblico ormai assuefatto alla banalità corrosiva. 


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 Claudio Suriani Filmmaker

martedì 14 febbraio 2023

THE NORTHMAN (2022) DI ROBERT EGGERS - LE ORIGINI DEL REVENGE-MOVIE

 La storia della letteratura ci ha consegnato le vicende di Amleto come un’opera originale, quindi ben pochi sanno che il drammaturgo inglese scrisse la sua opera più famosa ispirandosi direttamente allo scrittore danese Saxo Grammaticus e alla sua antologica Gesta Danorum, opera fondamentale della letteratura nordica e di notevole  ispirazione per la drammaturgia che ne seguì.

The northman nasce da questo oblio storico. Nel nuovo film di Robert Eggers la cultura nordica si impone in maniera decisiva come a voler riaffermare la vera natura delle vicende di Amleto inteso come topos narrativo e, in seguito, del genere revenge movie. Robert Eggers, dopo un esordio più che convincente come The witch e il capolavoro espressionista The Lighthouse, approda al cinema epico in cui lo schema della vendetta si fonde attraverso la mitologia vichinga. La trama è la seguente: D.C. E Hrafnset, figlio del re Aurvandil, assiste all’omicidio del padre da parte di suo fratello Fjölnir; l’intero film è basato sul desiderio di Hrafnset di vendicare la morte del padre e salvare la madre dalla violenza dello zio. La struttura narrativa è basata sul culto di Odino (come il rituale dei cani che vogliono diventare uomini) e dal culto della fisicità vichinga in cui la brutalità delle sequenze di lotta e il rapporto tra riti di ascensa all’età adulta del protagonista creano un racconto filmico affascinante e carico di pathos.  

 


The northman abbandona l’approccio espressionista di The Lighthouse a favore di un cinema narrativo sulla falsa riga di The Witch, ma sembra calcare la mano su un senso di virilità vichinga che, alla lunga, risulta essere ridondante e strizzare l’occhio agli amanti del cinema epico blockbuster come Il signore degli anelli (Peter Jackson, 2001), La bussola d’oro (Chris Weitz , 2007) o Le Crociate (Ridley Scott, 2005)  perdendo la natura autoriale ben delineata nelle sue prime due opere. Questa caratteristica può non essere considerata un difetto strutturale ma di certo risulta essere un profondo cambio di prospettiva. Eggers per la prima volta guarda al grande pubblico costruendo un’opera lineare priva di sottotesti e l’aver avuto a disposizione un budget incredibilmente più alto rispetto al passato (che oscillava tra i 75 e i 90 milioni di dollari) gli ha permesso di costruire un impianto visivo efficace ma non caratterizzante.

 


La struttura narrativa del film è lineare e riconoscibile, può sembrare un passo indietro nel lavoro di un autore che si stava imponendo nel panorama del cinema mondiale come un punto di incontro tra W. Herzog, Lars Von Trier e l’intero universo del folk horror.  The northman Eggers  invece a mio avviso si apre in modo magistrale a un sottogenere come il revenge-movie che ha dato vita a capolavori del cinema d’autore e del cinema d’exploitation e come La fontana della vergine ( Ingmar Bergman, 1960), Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971), Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave) (1978) di Meir Zarchi, L'angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), Mr. Vendetta (Park Chan-Wook, 2002). Il mio consiglio è di vedere l’intera filmografia dell’autore americano per poterne apprezzare la duttilità e la capacità di aprirsi a diverse tipologie narrative sempre con ottimi risultati. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 13 febbraio 2023

ULTIMA NOTTE A SOHO (2021) DI EDGAR WRIGHT - LEGAME TRA SOGNO E REALTA'


In Ultima notte a Soho
(2021) Edgar Wright lavora sull’universo sixties mirando  a far riemergere l’anima di un decennio che tanto ha dato alla cultura giovanile attraverso scelte di messa in scena e tematiche tipiche del cinema classico americano.   
Ultima notte a Soho è un’opera costruita sul rapporto tra sogno e realtà, caratteristica non solo dell’immagine filmica in sé ma anche di molte pellicole classiche e contemporanee, L’arte del sogno (Michel Gondry, 2016), Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999), Inception (Christofer Nolan, 2010), Io ti Salverò (Alfred Hitchcock, 1945) Sogni (Akira Kurosawa, 1990) e molte altre. Nonostante la dimensione onirica faccia parte dell’intima natura del cinema, Edgar Wright la inserisce in un contesto più ampio arrivando a toccare il cinema di Bob Fosse e il suo amore per il musical. L’Inghilterra degli anni 60 era un paese in cui la tradizione musicale  e i  movimenti giovanili erano tali da influenzare ancora oggi la cultura pop contemporanea - dalla beat generation, il movimento mod, i Teddy Boys fino al british-rock, con un impatto su ogni forma di comunicazione come l’editoria e la moda intese come mezzo espressivo e di appartenenza. In Ultima notte a Soho il concetto di moda è inserito in una rappresentazione del sogno efficace ma  non innovativa; possiamo cogliere il gusto per l’estetica retrò non solo a livello tematico ma anche nelle scelte formali: la fotografia gioca sullo scontro tra una realtà cupa e opprimente (dai colori scuri e decadenti) a una dimensione onirica caratterizzata dai colori vivi e spettacolari che tendono  a sparire quando il sogno si trasforma in incubo. 

 

Le inquadrature e i movimenti di macchina rimandano a un immaginario horror-thriller di stampo classico influenzato da opere come La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945), Vertigine (Otto Preminger, 1944) o Repulsione (Roman Polanski, 1965). Questo eccesso nostalgico mette in secondo piano una delle tematiche che potevano essere sviluppate in modo personale: la rappresentazione del quartiere di Soho e della sua storia. Ultima notte a Soho è un’opera che cerca di nascondere attraverso una messa in scena spettacolare non solo una proposta tematica ormai datata che ha rappresentato le basi per gran parte del cinema americano (autoriale e di genere) del secondo dopo guerra, ma pone allo spettatore un contrasto evidente tra forma e sostanza, contrasto che tende a ripresentarsi spesso negli ultimi anni specialmente nel cinema mainstream.

 

La mia conclusione è che se lo spettatore si rapporta a questo film come opera di puro intrattenimento riesce ad esserne coinvolto, ma se Wright mira a un posto di rilevo nel panorama cinematografico contemporaneo fallisce nel suo scopo: l’eccessiva nostalgia per la cultura sixties rende il film incapace di aprire nuove strade espressive oltre a manifestare limiti evidenti nella delineazione dei personaggi e nel distacco da un universo cinematografico ormai del tutto storicizzato.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 9 febbraio 2023

YOU ARE NOT MY MOTHER (2021) DI KATE DOLAN - RACCONTI DI DONNE SULLA SOGLIA

Negli ultimi anni la casa di produzione Irish Film Board sta portando avanti una scena di registi  capaci di raccontare retroscena della cultura irlandese attraverso linguaggi diversi: pellicole che vanno dall’animazione de La canzone del mare (Tomm Moore, 2014), film  a carattere storico come Bloddy Sunday (Paul Greengrass, 2002) e tanti film dell’orrore tra cui questo  You Are not my mother che vede l’esordio alla regia di Kate Dolan.

 

You Are not my mother è il primo lungometraggio della regista irlandese e narra la storia di Char e della sua famiglia focalizzandosi sulla figura della madre e sul suo passaggio dalla depressione alla manifestazione di una natura demoniaca risalente alla tradizione culturale irlandese.

Fin dagli esordi con Cinepeep ho rivolto la mia attenzione al cinema inedito in Italia non solo per una mera azione divulgativa ma anche per affermare ciò che, nel tempo, è diventato un manifesto e una dichiarazione d’intenti:  l’istituzione cinematografica (intesa come sistema economico produttivo) ha un effetto rilevante sull’immaginario dello spettatore in quanto ogni elemento messo in scena è in rapporto diretto sia con la sfera emotiva che con la sua capacità riflessiva… il vero luogo in cui il film lavora. La nascita di movimenti cinematografici sostenuti da produzioni economicamente non rilevanti (non esiste solo Hollywood o Netflix) è sempre stata una delle vie maestre per narrare la vita nei piccoli centri urbani, come  l’esempio italiano del documentario La regina di Casetta (Francesco Fei, 2018 che affronteremo prossimanente su Cinepeep). Torniamo a You Are not my mother: un giorno la madre di Char, vittima di una grave forma depressiva, sparisce per tornare la sera dopo come se nulla fosse successo.

L’elemento da cui partire è la rappresentazione della periferia.

 

Abbiamo già incontrato diverse opere in cui la lontananza dai grandi centri urbani influisce sulla scrittura e sul ritmo della messa in scena come Antlers, Spirito insaziabile (Scott Cooper, 2021),  Gummo (Harmony Korine , 1997) e Lamb (Valdimar Jóhannsson, 2021).

La periferia di Dublino è rappresentata da una fotografia dai colori cupi sulla quale influisce in modo decisivo la luce che, per il cinema nordico, rappresenta da sempre un ibrido tra cinema e vita. L’alternanza radicale tra luce e buio cela una  totale assenza di comunità  e di emancipazione, profilando una dimensione privata delle protagoniste  in cui l’oscurità regna sovrana e detta le regole estetiche delle vicende che andranno delineandosi. Non mi spingerò oltre per ovvi motivi con la sinossi. Nonostante le tematiche non  siano certo innovative, Kate Dolan riesce a costruire una tensione crescente in cui la sfera privata delle protagoniste si carica di una forza espressiva talmente forte che non possiamo fare a meno di notare l’influenza di importanti scuole: La casa e Non aprite quella porta – Sam Raimi e Tobe Hooper); il cinema orientale contemporaneo come Ju-on: Rancore (Takashi Shimizu, 2002) Visitor Q (Takashi Miike, 2001) mentre per il cinema europeo  tale tematica è stata sviluppata prevalentemente  in chiave sociopolitica come Family Life (Ken Loach, 1971) I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965) e il più recente Lazzaro felice (Alice Rohrwacher, 2018). 

 



Un ulteriore elemento di interesse è dato dal fatto che nelle opere contemporanee dalla forte natura perturbante è ricorrente il tema della solitudine: la natura perturbante di You Are Not My Mother nasce dalla tensione nata dalla repressione dei racconti mitologici irlandesi sotto il peso di un cemento anonimo e alienante. You Are Not My Mother vive di una contradizione interna di ordine narrativo che, invece di rendere la pellicola carente, ne accresce la forza espressiva superando il concetto stesso di cinema di genere. Nonostante fin dalla locandina l’opera ci venga presentata come un film horror (quasi a fidelizzare il pubblico di riferimento) i meccanismi interni che la animano non sfociano mai nel puro orrore (come nel cinema di Wes Craven o del nostro Lucio Fulci): il restare sulla soglia tra terrore e orrore permette allo spettatore di vivere una tensione ancora più forte in quanto l’orrore cinematografico è un’immagine storicizzata e del tutto elaborata. You Are Not My Mother lascia ben sperare che Kate Dolan potrà offrirci successive opere di valore.

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Claudio Suriani Filmmaker

     

mercoledì 8 febbraio 2023

TITANE (2021) DI JULIA DUCOURNAU - RIPENSARE IL RUOLO DEI FESTIVAL

Nell’approcciarmi all’analisi di Titane, film vincitore della palma d’oro al festival di Cannes del 2021, ritengo necessario porre una domanda preliminare: qual è il ruolo dei festival del cinema? Come dovrebbero contribuire alla riflessione estetica rassegne come Cannes, Venezia e Berlino? E’ una domanda centrale per analizzare uno dei quesiti fondamentali che il film della Ducournau ha suscitato nel mondo della critica. 

 Titane narra le vicende di Alexia a cui  da bambina, a causa di un grave incidente, venne impiantata una placca di titanio in testa che la porterà in età adulta a sviluppare un rapporto feticistico con le auto. Il primo aspetto che balza agli occhi è il rapporto di ibridazione tra uomo e macchina. Ripercorrendo la storia del cinema notiamo che è un topos narrativo fin dai tempi di Metropolis (Fritz Lang, 1927) fino ad imporsi nel cinema contemporaneo attraverso autori come Shin'ya Tsukamoto con il suo manifesto Tetsuo (1989) David Cronemberg attraverso Crash e Videodrome (rispettivamente 1995 e 1983) opere talmente pregnanti  di significato da riuscire ad ampliare la portata del proprio messaggio nella sua declinazione digitale come in Ex Machina (Alex Garland ,2015),  E.R. intelligenza artificiale ( Steven Spielberg, 2011) oppure il capolavoro 2001, odissea nello spazio (Stankey Kubrick, 1968) in cui il rapporto con la tecnica si manifesta attraverso la nascita della stessa (come nella sequenza del primate che scopre i vari utilizzi dell’osso). A questo punto è necessario tornare alla domanda iniziale e chiederci se un film come Titane aveva la forza per imporsi nel festival di Cannes, soprattutto se pensiamo che la palma d’oro è un premio vinto da alcuni dei più grandi registi di tutti i tempi con opere che hanno creato un immaginario cinematografico moderno altamente rivoluzionario tra cui Viridiana (Louis Bunuel, 1961) Miracolo  a Milano (Vittorio de Sica, 1951) Il caso Mattei (Francesco Rosi, 1972) La conversazione e Apocalypse Now (Francis  Ford Coppola, rispettivamente 1974 e 1979) e mi fermo qui perché l’elenco sarebbe lunghissimo. Titane è un film che ha una sua dignità e che si inserisce in questo sotto-genere cinematografico ma nel momento in cui approda alle vette della cinematografia internazionale perde di credibilità in quanto è un’opera che non aggiunge nulla alla riflessione teorico/estetica sull’arte cinematografica. Le altre tematiche come la gravidanza, la sessualità fluida, il titanio come simbolo  della perdita di umanità riescono a essere carichi di un  politically correct che non può sposarsi con uno shock movie con ambizioni autoriali; paradossalmente il suo film precedente (Raw; una crudele verità, 2016) risultava essere molto più efficace perché nel suo essere altamente violento riusciva a conservare forti tratti di autenticità e di libera espressione di idee. Titane si muove su un equilibrio precario tra immaginario horror shock e desiderio di accedere all’olimpo del cinema d’autore fallendo tuttavia in entrambe le aspirazioni in quanto la storia del cinema ha dimostrato che l’immaginario horror shock percorre strade diverse da quelle dei grandi maestri e proprio attraverso questa libera espressione di sé  tali opere continuano a essere amate e a influenzare il cinema contemporaneo ( si pensi al capolavoro di Tobe Hooper The Texas Chain Saw MassacreNon aprite quella porta del 1974 e agli innumerevoli sequel e remake che ha avuto nel corso degli anni). 

 


Un altro punto di forte debolezza del film è la volontà dichiarata della regista di attribuire alle donne una sorta di dignità nella violenza emancipandole dal ruolo di vittime; attribuire alla mera violenza una sorta di rivincita sociale non solo tende ad affrontare tale tematica con profonda ingenuità ma arriva a rendere pedante un cinema che non si è mai fatto portatore di facili moralismi. La notte dei morti viventi di George Romero (1968) si inserì nella lotta per i diritti civili degli afroamericani e nel suo denunciare il razzismo dell’uomo bianco non arriva mai a essere retorico o demagogico. Avere un’autorialità forte e riconoscibile richiede il coraggio di percorrere strade inesplorate e Julia Ducournau con il suo Titane fallisce tale sfida.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

 

martedì 7 febbraio 2023

NON SIAMO PIU' VIVI (2022) - UN TEEN-HORROR DI CUI NON SI SENTIVA IL BISOGNO

E’ possibile sviluppare idee nuove attraverso una tematica ormai ben strutturata come l’universo zombie? E’ possibile creare non capolavori…ma opere che diano da pensare e che sviluppino un dibattito? L’ultima serie coreana prodotta da Netflix, Non siamo più vivi, ci dice purtroppo di no. Non siamo più vivi, basato sul manga All of Us Are Dead, racconta di un apocalisse zombie in una piccola città sudcoreana e le vicende di un gruppo di studenti braccati nella propria scuola e abbandonati a se stessi dalle istituzioni. Fin dai primi episodi ciò che appare chiaro è l’estrema ripetitività di tali tematiche (non solo all’interno della serie ma anche nell’intera tradizione audiovisiva sullo zombie); la soglia che divide vita e morte e il suo legame con la dimensione biologica è una tematica che si apre, potenzialmente, ad innumerevoli possibilità interpretative (come hanno dimostrato Robin Campillo prima e Fabrice Gobert rispettiva mente con The returned e Les Revenants); inoltre il suo essere rivolto ad un pubblico di adolescenti ha ulteriormente impoverito una tematica molto più complessa di come appare e dalla grande tradizione cinematografica (ricordiamo che il primo film zombie è del 1932 (L'isola degli zombies di Victor Halperin – 1932). La struttura narrativa presenta tematiche deboli e poco convincenti (come la creazione di un virus da parte di un professore di scienze, per permettere al proprio figlio di difendersi dai bulli della scuola) e  inoltre ciò che poteva rappresentare un attacco alle istituzioni sudcoreane (come la decisione di bombardare la città da cui nasce l’epidemia o quella di abbandonare i giovani protagonisti al loro destino) appaiono come scelte difficili da parte delle autorità ma in fondo giustificabili.

Tuttavia il punto più debole dell’intera serie è il rapporto tra l’orrore della violenza zombie e il mondo adolescenziale caratterizzato da topos narrativi ricorrenti (come gli innamoramenti o il pensare alle vicende scolastiche quando ormai la scuola e la propria città non esistono più).

Non siamo più vivi nel mettere in scena un teen-horror a tematica zombie cerca di conservare tratti di positività e di speranza per il futuro ed è qui che fallisce il proprio scopo: non può esserci lieto fine in un’apocalisse o in un bombardamento  a tappeto di una città perché i morti gridano giustizia (come il protagonista di La notte dei morti viventi) oppure ciò che può nascere dal terrore prima, e dall’orrore poi, è un futuro incerto carico di suspense e di incertezza (come nel finale di Gli uccelli - Alfred Hitchcock , 1963).

 

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Claudio Suriani Filmmaker

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