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domenica 2 luglio 2023

THE LAST OF US (2023) DI CRAIG MAZIN - UNA TELEVISIONE VIDEOLUDICA

Per poterci approcciare a un’opera seriale come The last of us (serie tv tratta dall’omonimo videogioco) è necessario partire da considerazioni di ordine generale.

 Il videogame contemporaneo è entrato a pieno diritto nell’analisi teorica sull’audiovisivo spingendoci a riflettere sui cambiamenti strutturali della televisione dal punto di vista tecnologico (nel passaggio dal tubo catodico alla tv digitale) ma soprattutto sulla modalità di fruizione delle opere seriali. Questi cambiamenti strutturali hanno innescato nello spettatore un approccio videogiocante verso ogni sorta di prodotto ed è in questo cambiamento epocale che le odierne piattaforme streaming si sono inserite.





Se la serialità anni novanta era caratterizzata da un’attesa capace di creare l’evento della messa in onda di ogni episodio, oggi la capacità di poter manipolare l’intero corpus degli episodi dà vita a una dinamica sconosciuta in passato.

Considerando questo processo irreversibile è necessario interrogarsi su come far dialogare serialità televisiva e videogame e qui veniamo a The last of us. A una prima visione appare come una serie tv di buona qualità, non solo perché annovera tra i suoi registi Ali Abassi (regista di opere come Shelley del 2016 e Border; Creature di confine del 2018) ma soprattutto perché mette in scena un dramma coinvolgente in cui si fondono pienamente le dinamiche del lutto individuale e comunitario attraverso il mondo post-apocalittico tipico dell’universo zombie. The last of us presenta punti di interesse e punti di debolezza.

E’ degno di nota il fatto che un’opera post-apocalittica, dopo la pandemia da COVID 19, non ci appaia più così inverosimile in quanto parole come quarantena e infezione, per due anni, sono diventate un’esperienza quotidiana arrivando a influenzare le scelte politiche  su larga scala e trasformando il nostro sguardo sul mondo e in questo The last of us si differenzia da The Walking Dead: se nella seconda l’apocalisse zombie è il tema principale con sottotesti del tutto trascurabili nella prima diventa un mezzo per raccontare la radicale trasformazione della politica e della vita sociale nei nuclei cittadini.

Se The last of us non è certo la prima opera audiovisiva che ci racconta il passaggio delle città da comunità a luogo in cui vige lo stato d’eccezione (si pensi a 1997: Fuga da New York - John Carpenter, 1981) è pur vero tuttavia che tra i vari effetti collaterali della pandemia da COVID 19 c’è quello di aver creato un dialogo tra due universi narrativi da sempre distanti: la fantascienza e il racconto della contemporaneità in quanto lo spettatore, nella visione, non può non guardare l’opera di riferimento attraverso il suo sguardo sul mondo … è la storia della critica.





A questo punto è necessario chiedersi in che modo la logica videoludica e un racconto di fantascienza aperto ad eventi divenuti plausibili possano coesistere: la mia idea è che il videogioco, nell’epoca dei social e delle piattaforme streaming, è diventato la nostra forma mentis ed è paradossale notare come le piattaforme in cui è possibile muoversi nella legalità siano caratterizzate da un logaritmo matematico che ha come effetto la creazione di una zona di confort e la perdita di spirito di ricerca … è un confronto con un’intelligenza artificiale che porta verso prospettive limitnell’esperienza della visione con una contrazione critica sul mondo dell’audiovisivo…ed eccoci al punto più debole di The last of us.

Andando oltre l’aspetto puramente narrativo ci accorgiamo che l’esperienza della visione di The last of us ci dice molte cose in più: The last of us è una serie che non ha un valore estetico in sé in quanto non riesce a distaccarsi dalle dinamiche videoludiche a causa della natura stessa del media di riferimento e alla sua trasformazione epocale ormai irreversibile.  Se P. Paolo Pasolini in un’intervista con Enzo Biagi affermò che il messaggio televisivo è sempre calato dall’alto e, di conseguenza, spaventosamente antidemocratico, il passaggio dalla televisione analogica a quella digitale (specialmente nella sua fusione con le piattaforme internet) ha privato lo spettatore medio di ogni possibile spazio di riflessione e di creazione di una coscienza critica.

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Claudio Suriani Filmmaker


giovedì 4 maggio 2023

SKINAMARINK (2022) DI KYLE EDWARD BALL - AI CONFINI DEL CINEMA

 

Nella storia del cinema un sentimento arcaico come la paura nasce dalla perdita di un orizzonte visivo riconoscibile ed elaborabile e sono pochi gli autori che nell’arco degli anni hanno saputo intraprendere un vero percorso di ricerca rivolto al terrore nella sua forma più pura.

Il cinema americano nasce da un profondo dualismo strutturale: una forte componente industriale (tipica del mondo hollywoodiano) che nel corso della sua storia ha influito fortemente sulle opere  dal punto di vista formale e narrativo (con importanti eccezioni) e un universo autoriale al di fuori degli onori hollywoodiani capace di portare avanti nuove forme espressive e, nel caso del cinema horror, di tornare a una componente arcaica del terrore rifiutando il facile orrore che ad oggi non ha più nulla da dire.

Skinamarink (2022) del regista canadese Kyle Edward Ball (ad esordio su lungometraggio) si è imposto come un’opera seminale per quella folta schiera di cineasti che, nell’epoca delle piattaforme streaming, cercano nel puro atto di filmare un’importante chiave espressiva.

 

 

Il film narra le vicende dei piccoli Kevin e Kaylee: una notte si svegliano e si accorgono che i genitori e le finestre di casa sono scomparsi … a dominare sono l’oscurità, schermi televisivi privi di segnale e un perenne stato di attesa. La nostra casa, luogo familiare per antonomasia, diventa il simbolo di un universo perturbante in cui la paura arcaica del buio è il fulcro narrativo intorno al quale ruota l’intera opera.

Secondo Schelling E’ detto unheimlich tutto ciò che potrebbe restare […] segreto, nascosto, e che è invece affiorato (Schelling, Filosofia della mitologia) e per Freud Il perturbante è quella sorta di spavento che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare (Sigmund Freud, Il perturbante, 1919). Seguendo questa linea interpretativa osserviamo in Skinamarink un doppio processo perturbante: alla perdita di familiarità della casa si unisce un’estetica che nulla ha a che fare con il cinema horror mainstream. Se consideriamo film come La casa (Sam Raimi, 1981) o Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974) opere cardine in cui è lo spazio abitativo a essere il fulcro narrativo notiamo un orrore manifesto e non un terrore atavico indotto da un perenne stato di attesa .. è come se Kyle Edward Ball avesse voluto realizzare la versione cinematografica di Aspettando Godot (Samuel Beckett, 1948-1849) caricandola di un’oscurità talmente pervasiva da ricordare la casa di Diane in Mulholland Drive (David Lynch, 2001) e… ancora lo spazio abitativo ritorna. 

 


 

Skinamarink è un’opera che affonda le proprie radici nel cinema underground di Cassandra Stark, nella forza sperimentale di Andy Wharol fino ai primi passi dell’horror found footage (come The Blair Witch Project di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez- del 1999 - opera seminale che diede vita alla saga di Paranormal Activity). E’ una premessa determinante per leggere i meccanismi interni di un’opera tanto affascinante quanto complessa: l’orrore, nel momento stesso in cui si manifesta, perde la sua forza creativa mentre il terrore nasce da istanti, brevi battute o semplici inquadrature capaci di far emergere l’idea che anima l’opera in questione ( come lo sguardo in macchina di Lars Thorwald in Real windows (La finestra sul cortile - Alfred Hitchcock, 1954). Allora l’idea che anima Skinamarink è la fusione tra uomo e fantasma. Il fantasma nelle arti visive è il simulacro, un prodotto che vive attraverso la sua assenza … quale arte se non il cinema lo può quindi rappresentare al meglio?


 

 Skinamarink è priva di primi (o primissimi) piani dei giovani protagonisti in quanto il primo piano definisce sia la psicologia che la fisicità dei personaggi ... determinano il loro essere qui e ora. Poi  c’è un secondo aspetto che amplifica la portata del fuori campo: lo schermo televisivo privo di segnale e/o non a fuoco in quanto l’assenza di un soggetto catalizzatore delle vicende priva i dispositivi del loro valore comunicativo.

Per concludere ritengo sia importante sottolineare quanto un’opera come Skinamarink rappresenti  la volontà di un giovane autore di sperimentare nuove strade espressive … un atto di rivincita contro l’omologazione delle piattaforme streaming e la perdita della memoria di cos’è il cinema e delle sue radici tecnico-espressive.

 

 

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 Claudio Suriani Filmmaker


Claudio Suriani Filmmaker

martedì 14 febbraio 2023

THE NORTHMAN (2022) DI ROBERT EGGERS - LE ORIGINI DEL REVENGE-MOVIE

 La storia della letteratura ci ha consegnato le vicende di Amleto come un’opera originale, quindi ben pochi sanno che il drammaturgo inglese scrisse la sua opera più famosa ispirandosi direttamente allo scrittore danese Saxo Grammaticus e alla sua antologica Gesta Danorum, opera fondamentale della letteratura nordica e di notevole  ispirazione per la drammaturgia che ne seguì.

 

 

The northman nasce da questo oblio storico. Nel nuovo film di Robert Eggers la cultura nordica si impone in maniera decisiva come a voler riaffermare la vera natura delle vicende di Amleto inteso come topos narrativo e, in seguito, del genere revenge movie. Robert Eggers, dopo un esordio più che convincente come The witch e il capolavoro espressionista The Lighthouse, approda al cinema epico in cui lo schema della vendetta si fonde attraverso la mitologia vichinga. La trama è la seguente: D.C. E Hrafnset, figlio del re Aurvandil, assiste all’omicidio del padre da parte di suo fratello Fjölnir; l’intero film è basato sul desiderio di Hrafnset di vendicare la morte del padre e salvare la madre dalla violenza dello zio. La struttura narrativa è basata sul culto di Odino (come il rituale dei cani che vogliono diventare uomini) e dal culto della fisicità vichinga in cui la brutalità delle sequenze di lotta e il rapporto tra riti di ascensa all’età adulta del protagonista creano un racconto filmico affascinante e carico di pathos.  

 


The northman abbandona l’approccio espressionista di The Lighthouse a favore di un cinema narrativo sulla falsa riga di The Witch, ma sembra calcare la mano su un senso di virilità vichinga che, alla lunga, risulta essere ridondante e strizzare l’occhio agli amanti del cinema epico blockbuster come Il signore degli anelli (Peter Jackson, 2001), La bussola d’oro (Chris Weitz , 2007) o Le Crociate (Ridley Scott, 2005)  perdendo la natura autoriale ben delineata nelle sue prime due opere. Questa caratteristica può non essere considerata un difetto strutturale ma di certo risulta essere un profondo cambio di prospettiva. Eggers per la prima volta guarda al grande pubblico costruendo un’opera lineare priva di sottotesti e l’aver avuto a disposizione un budget incredibilmente più alto rispetto al passato (che oscillava tra i 75 e i 90 milioni di dollari) gli ha permesso di costruire un impianto visivo efficace ma non caratterizzante.

 


La struttura narrativa del film è lineare e riconoscibile, può sembrare un passo indietro nel lavoro di un autore che si stava imponendo nel panorama del cinema mondiale come un punto di incontro tra W. Herzog, Lars Von Trier e l’intero universo del folk horror.  The northman Eggers  invece a mio avviso si apre in modo magistrale a un sottogenere come il revenge-movie che ha dato vita a capolavori del cinema d’autore e del cinema d’exploitation e come La fontana della vergine ( Ingmar Bergman, 1960), Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971), Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave) (1978) di Meir Zarchi, L'angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), Mr. Vendetta (Park Chan-Wook, 2002). Il mio consiglio è di vedere l’intera filmografia dell’autore americano per poterne apprezzare la duttilità e la capacità di aprirsi a diverse tipologie narrative sempre con ottimi risultati. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 13 febbraio 2023

ULTIMA NOTTE A SOHO (2021) DI EDGAR WRIGHT - LEGAME TRA SOGNO E REALTA'

In Ultima notte a Soho (2021) Edgar Wright lavora sull’universo sixties mirando  a far riemergere l’anima di un decennio che tanto ha dato alla cultura giovanile attraverso scelte di messa in scena e tematiche tipiche del cinema classico americano.  

 



Ultima notte a Soho è un’opera costruita sul rapporto tra sogno e realtà, caratteristica non solo dell’immagine filmica in sé ma anche di molte pellicole classiche e contemporanee, L’arte del sogno (Michel Gondry, 2016), Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999), Inception (Christofer Nolan, 2010), Io ti Salverò (Alfred Hitchcock, 1945) Sogni (Akira Kurosawa, 1990) e molte altre. Nonostante la dimensione onirica faccia parte dell’intima natura del cinema, Edgar Wright la inserisce in un contesto più ampio arrivando a toccare il cinema di Bob Fosse e il suo amore per il musical. L’Inghilterra degli anni 60 era un paese in cui la tradizione musicale  e i  movimenti giovanili erano tali da influenzare ancora oggi la cultura pop contemporanea - dalla beat generation, il movimento mod, i Teddy Boys fino al british-rock, con un impatto su ogni forma di comunicazione come l’editoria e la moda intese come mezzo espressivo e di appartenenza. In Ultima notte a Soho il concetto di moda è inserito in una rappresentazione del sogno efficace ma  non innovativa; possiamo cogliere il gusto per l’estetica retrò non solo a livello tematico ma anche nelle scelte formali: la fotografia gioca sullo scontro tra una realtà cupa e opprimente (dai colori scuri e decadenti) a una dimensione onirica caratterizzata dai colori vivi e spettacolari che tendono  a sparire quando il sogno si trasforma in incubo. 

 

Le inquadrature e i movimenti di macchina rimandano a un immaginario horror-thriller di stampo classico influenzato da opere come La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945), Vertigine (Otto Preminger, 1944) o Repulsione (Roman Polanski, 1965). Questo eccesso nostalgico mette in secondo piano una delle tematiche che potevano essere sviluppate in modo personale: la rappresentazione del quartiere di Soho e della sua storia. Ultima notte a Soho è un’opera che cerca di nascondere attraverso una messa in scena spettacolare non solo una proposta tematica ormai datata che ha rappresentato le basi per gran parte del cinema americano (autoriale e di genere) del secondo dopo guerra, ma pone allo spettatore un contrasto evidente tra forma e sostanza, contrasto che tende a ripresentarsi spesso negli ultimi anni specialmente nel cinema mainstream.

 

La mia conclusione è che se lo spettatore si rapporta a questo film come opera di puro intrattenimento riesce ad esserne coinvolto, ma se Wright mira a un posto di rilevo nel panorama cinematografico contemporaneo fallisce nel suo scopo: l’eccessiva nostalgia per la cultura sixties rende il film incapace di aprire nuove strade espressive oltre a manifestare limiti evidenti nella delineazione dei personaggi e nel distacco da un universo cinematografico ormai del tutto storicizzato.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

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