Orgia
visionaria di sangue e violenza, deliziosamente inverosimile ed efferato fino
all’estremo, Ichi the Killer è tra le
opere più famosee anomale di Takashi Miike,
prolifico autore che abbiamo conosciuto per la versatilità e disinvoltura con
cui è in grado di spaziare dal genere storico (13 Assassini) ai drammi familiari più bizzarri (Visitor Q).
Il
film ci presenta le vicende di Kakihara, sicario e luogotenente (piuttosto
pittoresco) al soldo di Anjo, padrino di una gang di yakuza. Kakihara ha, tra
le altre stranezze, la caratteristica di essere mentalmente disturbato.
L’irragionevolezza, anzi la demenza di molte delle sue mosse, rivelano infatti
un unico movente: il masochismo, elevato a metodo filosofico oltre che sessuale.
“Non c’è amore nella tua brutalità” rimprovera al membro di una gang rivale che
lo sta picchiando selvaggiamente. Kakihara, nel corso del film, si lamenta
spesso di non trovare nemici all’altezza del suo autolesionismo. Parallelamente,
e intrecciata alle bizzarre vicissitudini di Kakihara, seguiamo la storia di
Ichi, adolescente timido e problematico dalla personalità pericolosamente
scissa. Nonostante l’aspetto dimesso e impacciato, infatti, Ichi è colto spesso
da accessi transitori ma incontrollabili di ferocia (a cui si abbandona sempre,
peraltro, con un’improbabile tuta da supereroe). Manovrato dal cinico Jiji –
uno Shinya Tsukamoto in ottima forma (come sempre) – Ichi rappresenta il
contraltare, il negativo di Kakihara: è tanto brutalmente sadico quanto quest’ultimo
è masochista.
A
visione ultimata, un’impressione s’impone immediatamente: la violenza
parossistica di Ichi the Killer
sembra fare, per l’intera durata del film, da bizzarro surrogato del sesso,
tanto più in quanto si presenta accompagnata dalle parafilie più grottesche. In
questo trionfo di ferocia e di torture, la crudeltà – di cui sono le donne a
essere spesso oggetto – si dispiega come una dichiarazione di impotenza. Disorientati
dall’incapacità di stabilire rapporti umani secondo coordinate naturali, i
personaggi di Ichi the Killer tentano
di compensare l’impoverimento, l’inconsistenza biologica da cui sembrano
affetti (somigliano a cartoni animati che hanno assunto una plasticità fragile
e provvisoria) in un crescendo di violenza meccanico e disumanizzato, un climax
di sangue e morte – tra le frattaglie che non cessano di vorticare per l’intera
durata del film – che tenta di mimare pateticamente e miseramente quello
dell’orgasmo.
Ichi the Killer,
nella sua estrema stranezza e nella sua morbosa inventiva, riesce a individuare
– meglio di molti film più “nobili” – la sorgente prima dell’arte. Il rifiuto rabbioso dell’ordine naturale, da cui nel
corso della storia ci si è allontanati casualmente o per esigenza imposta, ha
condotto a configurazioni artificiali – tra cui quelle artistiche, appunto – in
sostituzione delle forme già esistenti, ovvero della vita regolata dagli istinti.
Ogni opera riuscita porta in sé il riflesso di questo primitivo assillo, e testimonia
eloquentemente la parentela fra gli antichi sacrifici e ogni forma d’arte.
Insomma:
tra innesti di falsi ricordi, torture ingegnose, yakuza pervertiti e
macellazioni su vasta scala, Ichi the
killer presenta un campionario umano tanto eterogeneo quanto strambo. Il
film raggiunge la massima potenza espressiva proprio nei passaggi più
grotteschi, grazie alla consumata abilità stilistica e alla sapienza inventiva
di Miike.
Le dinamiche familiari sono state affrontate dal cinema orientale in diverse modalità: dalla perfezione formale di Viaggio a Tokyo (Yasujiro Ozu, 1953) fino alla violenza estetica di Visitor Q (Takashi Miike, 2001, direttamente ispirato al film Teorema - Pier Paolo Pasolini, 1968). Strange Circus (Sion Sono, 2005) rappresenta il perfetto punto d'unione tra queste due anime espressive: siamo di fronte ad un'opera oscura e disturbante caratterizzata non solo dall'immaginario cinematografico J-Horror (che annovera tra le sue fila registi del calibro di Takashi Shimizu, Hideo Nakata, Kiyoshi Kurosawa e Kōji Shiraishi) ma anche da una perfezione stilistica del già citato Yasujiro Ozu o del contemporaneo Hirokazu Kore'da.
Nonostante Strange Circus riesca a rappresentare a pieno queste due anime del cinema giapponese non vuol dire che sia privo di difetti; il più evidente è l'eccessivo indugiare di Siono su determinate dinamiche voyeuristiche riscontrabili in alcune parti dell'opera.
Siono, tuttavia, riesce a portare a casa una delle opere più importanti del cinema giapponese contemporaneo trovando nell'estetica del Grand Guignol uno del suoi aspetti più significativi.
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Quanto
un regista punta sul puro sensazionalismo senza curare la scrittura
e la caratterizzazione psicologica dei personaggi ecco che nascono
opere come I saw the
devil (Kim Jee-woon,
2010). Il film parla delle gesta del serial killer Kyung-chul; un giorno,
uccidendo la compagna dell’agente dei servizi segreti Soo-hyun,
scatenerà in quest'ultimo una vendetta lunga e dolorosa.
Il
revenge-movie è un sotto-genere cinematografico che annovera tra le
sue fila opere di stampo underground (come Thriller:
A Cruel Picture di
Bo Anre Vibenius - 1974), opere mainstream dalla natura
controversa (come Irreversible
di Gaspar Noè –
2002) e nomi illustri della storia del cinema (come Ingmar
Bergman con il suo La
fontana della vergine
– 1960). I saw the devil presenta diversi aspetti che lo allontanano dalle opere citate: il
primo è il suo essere estremamente prolisso. Due ore e ventiquattro
minuti per una storia di vendetta sono oggettivamente
troppe soprattutto se il fulcro del film risulta privo di sottotesti meritevoli di essere approfonditi.
Il
secondo aspetto è che i personaggi principali attorno ai quali
ruota l’intera vicenda hanno una caratterizzazione psicologica troppo debole
da poter sostenere una vicenda così complessa e dolorosa.
L’intero film ruota intorno alla cruda violenza di
entrambi i personaggi messa i scena con un ottimo montaggio e un
ritmo accattivante ma che ad un occhio esperto e navigato
non può bastare.
Sono assenti domande del tipo: Soo-hyun saprà
elaborare il lutto della compagna? E se non ci riuscirà che deriva
prenderà la sua vita? Mentre per quanto riguarda Kyung-chul cosa lo
ha trasformato in un così atroce assassino? (in Il
silenzio degli innocenti le turbe psichiche a sfondo sessuale dell’assassino
sono delineate in maniera del tutto convincente).
I
saw the devil fallisce
in quello che poteva essere il suo punto di forza: la
rappresentazione del trauma inelaborato che conduce due persone così
lontane tra loro verso orizzonti comuni; inoltre la scrittura di un film si basa non sull'idea di partenza ma sul suo sviluppo in particolar modo per un sottogenere cinematografico sviluppato negli anni attraverso numerose chiavi interpretative. Se in
questa fase non si scava nella natura profonda dei personaggi e in
una reale evoluzione delle vicende una messa in scena accattivante
risulta come pura forma priva di sostanza.
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Ispirato
al manga Crows
di Hiroshi Takahashi Crows
Zero è uno dei film
più interessanti di Takashi Miike, autore conosciuto per la sua
copiosa filmografia e meno per le sue grandi doti registiche.
Crows Zero narra le
vicende della Suzuran
(un istituto
superiore) e di Genji
Takiya, figlio di un
importante Yakuza di Tokyo, che si iscrive presso l’istituto con lo
scopo di diventare il capo di tutte le bande giovanili della scuola.
Nonostante sia un'opera caratterizzata da risse sanguinose e
dall’elevazione della violenza come mezzo di affermazione sociale
Crows Zero riesce
a conservare una certa natura fumettistica che permette al film di
non prendersi mai troppo sul serio; questo è un aspetto
caratteristico del cinema di genere nipponico capace di portare
avanti generi come l’horror estremo o la
violenza giovanile attraverso uno stile autoironico riscontrabile nel
cinema di Noboru Iguchi, Sion Sono e Yoshihiro Nishimura.
Genji
Takiya è il
personaggio chiave attorno cui ruota l’intera narrazione;
attraverso le sue gesta scopriamo un ambiente sociale caratterizzato
da edifici distrutti e da adulti incapaci di incidere sugli eventi.
Crown Zero
mette in scena una rottura generazionale caratterizzata da un codice
d’onore tipicamente nipponico; in fondo è la Suzuran ad essere la vera protagonista del film in quanto non esiste uno sviluppo
narrativo al di fuori di essa. In
Crown Zero
è la volontà di emergere di Genji a muovere
l’intero corpus degli eventi senza sfociare in una fama di potere
fine a se stessa; questo è un aspetto determinante perché l’opera
di Miike si distacca da film come Gomorra
(a cui è stato erroneamente paragonato) in quanto il film di Matteo
Garrone è del tutto privo di ogni declinazione favolistica.
A differenza di opere marcatamente autoriali come Audition (1999)
o Over your dead body (2014),
Crown Zero
resta un opera di intrattenimento senza tuttavia perdere il segno
distintivo che da sempre contraddistingue il cinema di Takashi Miike.
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Il secondo capitolo della saga di Tetsuo apporta cambiamenti decisivi all'interno del tessuto narrativo: Tsukamoto approfondisce la natura action dell'opera pur restando all'interno di un immaginario post-industriale caratteristico del Giappone del XX secolo. Questa trasformazione appare uniforme se consideriamo la saga un'opera unica e non tre film a sé stanti; questa uniformità possiamo riscontrarla anche attraverso un montaggio frenetico che ben rappresenta non solo la società post-industriale ma, in generale, il ritmo interno delle metropoli.
Tetsuo II; Body Hammer è uno di quei film che se non lo si considera all'interno dell'estetica del suo autore, caratterizzata da un body horror di stampo cyberpunk, si rischia di non comprenderne a pieno il suo indiscusso valore in quanto il rapporto uomo-macchina si apre ad un desiderio di umanizzazione che non troverà speranza; è il perfetto punto di congiunzione tra una società post-industriale disumanizzante e il desiderio umano di trovare, all'interno della stessa, una nuova condizione umana.
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Akira
si è imposto nella storia del cinema d’animazione come un’opera
iconica non solo per le tematiche legate alla modernità ma
soprattutto per essere una pellicola carica di una forza
rivoluzionaria capace di far deflagrare il canone ingombrante
dell’animazione disneyana. Come ogni opera al limite dell’eversivo
non riuscì ad imporsi nel panorama cinematografico italiano
diventando un cult grazie all’home video e ai passaggi televisivi
(celeberrima l’andata in onda in una puntata di Fuori Orario a
cavallo tra il 1995 e il 1996 in occasione dei cento anni dalla
nascita del cinema). Perché Akira conserva ancora oggi tratti
profondamente innovativi e d’avanguardia? Il primo elemento da
considerare è la tematica della disgregazione dello spazio urbano.
La trama è la seguente: nel 1982 Tokyo viene distrutta da
un’esplosione nucleare che dà vita alla Terza guerra mondiale.
Con
un salto temporale di 37 anni conosciamo i nostri protagonisti, una
banda di motociclisti che si diverte a scorrazzare per le vie di
Neo-Tokyo scontrandosi con bande rivali. Le vicende prenderanno una
piega drammatica quando il governo preleverà Tetzuo (non un nome a
caso) allo scopo di sottoporlo a terribili esperimenti. Da questa
breve introduzione possiamo cogliere il legame con cult del cinema
americano: 1997, Fuga
da New York (John
Carpenter, 1981), I
guerrieri della notte (Walter
Hill, 1979) e naturalmente il giapponese Tetzuo
( Shin’ya Tzukamoto, 1989). I primi due film mettono in scena uno
spazio urbano in cui al concetto di polis
si sostituisce uno spazio oppressivo, incapace di creare legami tra
le persone che lo abitano (al punto che nel film di Carpenter la
città di New York è divenuta un carcere a cielo aperto) mentre nel
film di Tzukamoto lo spazio urbano perde il proprio valore guida a
favore di una realtà cyberpunk alienante di natura kafkiana. Tra lo
spazio urbano e la popolazione viene a crearsi una rottura insanabile
che determina la nascita di una dimensione politica in cui la vita
individuale e comunitaria nasce da un atto mortifero
che dà vita non solo a Neo-Tokyo,
spettro della vecchia città, ma soprattutto alla Terza guerra
mondiale … la più grande paura del genere umano dal 1945 ad oggi.
Secondo Enrico Ghezzi Akira
è un’opera che riesce ad andare oltre l’animazione per poi
tornare sui propri passi in modo del tutto peculiare; se ciò fosse
vero, quale sarebbe allora l’elemento che caratterizza la
pellicola di Otomo? Akira
è un’opera sulla
mutazione del concetto di storia e di “corpo umano” soggetto
negli anni a pratiche politiche di diversa natura (dagli esperimenti
di Josef Mengele fino a legislazioni che vanno dalla gestione dei
flussi migratori, salute, psichiatria fino ad arrivare alla
sessuologia – in questo caso è emblematico l’esempio di Diana
J. Torres con le sue pratiche di porno-terrorismo come lotta alla
gestione politica della sfera sessuale delle popolazioni).
Tornando
ad Akira abbiamo
introdotto il concetto di canone disneyano che si basa sul potere
economico della casa di produzione americana capace di diventare
l’asse attorno al quale ruota tutta l’animazione di successo.
Negli ultimi quindici anni tuttavia la cultura cyberpunk si è
imposta nella narrativa cinematografica in quanto portavoce di
tematiche legate alla violenta crescita tecnologica e demografica in
cui l’essere umano perde la propria capacità di autodeterminazione
(ricordiamo tra i più importanti Ghost
in the Shell
(Kôkaku Kidôtai, 1995),Uomini
e lupi
(Hiroyuki Okiura , 1999) Memories
(Koji Morimoto, 1995). Quando parliamo di crescita tecnologica, nel
caso del Giappone, intendiamo soprattutto la
bomba atomica.
Gran parte del cinema popolare,
ma anche dei fumetti e dei media di intrattenimento, non ha mai
dimenticato gli ordigni di Hiroshima e Nagasaki al punto da saperli
elaborare in forme espressive non solo di alto valore autoriale come
Children
of Hiroshima
(1952) di Kaneto Shindo,
Hiroshima
(1953) di Hideo Sekigawa, Le campagne di Nagasaki (1949)
di
Takashi Nagai e Non
dimentico la canzone di Nagasaki
(Tomotaka Tasaka, 1952)fino
ad opere di intrattenimento ma che hanno avuto la forza di imporsi
nell’immaginario collettivo come la serie cinematografica su
Godzilla
(il primo film è del 1954 di Ishiro Honda). La mutazione dei corpi
è una tematica storicamente legata alla sfera del nucleare ed è
centrale anche in Akira;
i protagonisti delle vicende, Tetzuo e Kaneda, rappresentano
rispettivamente la
mutazione e la sua
negazione. Se il corpo di Tetzuo arriverà a rappresentare il fulcro
della mutazione, Kaneda incarna la lotta per la conservazione del
tratto antropomorfo, una sorta di rivolta al controllo della nuda
carne da parte del potere precostituito incarnato dal personaggio del
colonnello. Akira,
come opera generatrice della trilogia di Tetzuo,
porta avanti il concetto di post-umanesimo
in cui appare evidente che il concetto di “potere sovrannaturale”
esce dall’orbita della fantascienza popolare di stampo marveliano
per esprimere elementi e pratiche di controllo della sfera biologica
umana.
In
questa chiave, seguendo la linea di Enrico Ghezzi, vediamo come Akira
si sottragga all’animazione in quanto la linea di demarcazione che
divide la fantascienza dall’indagine sulla contemporaneità tende
ad assottigliarsi in modo decisivo.
La struttura filosofica del film
fin qui descritta si incastra alla perfezione con la riconoscibilità
dei nostri protagonisti e delle loro vicende: le corse in moto ed in
generale ciò che fanno è concreto non solo da un punto di vista
narrativo ma anche come rilettura, in chiave cyberpunk, di un canone
del cinema mondiale come il road movie (il pensiero corre
direttamente a Easy Rider - Dennis
Hopper, 1969). Akira
diventa il punto di
non ritorno dell’intera cinematografia d’animazione in quantodecostruisce in modo
efficace la nostra capacità di immaginare il futuro attraverso
immagini di stampo postmoderno.
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