Elenco blog personale

mercoledì 30 novembre 2022

PILLOLE D CINEMA - INTERIORS (1978) DI WOODY ALLEN - Un omaggio a Ingmar Bergman

 
 
Interiors è un omaggio ad uno dei più grandi maestri del cinema e chiarisce, forse in modo definitivo, che non possono nascere grandi opere senza aver fatto proprio l'insegnamento dei grandi maestri. Woody Allen indaga l'animo delle protagoniste in modo talmente efficace da ricordare opere come Il posto delle fragole (1957) Come in uno specchio (1961) e naturalmente Il settimo sigillo (1957) e Persona (1966). Un altra caratteristica che lega Interiors al cinema di Bergman sono i rapporti familiari carichi di tensioni mai elaborate e, di conseguenza, pregni di una forza drammatica che ha fatto scuola per i registi contemporanei.
 
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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 28 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - PERSONAL SHOPPER (2016) DI OLIVIER ASSAYAS; La natura immateriale del cinema

 
 Gli studi psicoanalitici sul cinema creano da sempre analogie tra l'immagine filmica e le più importanti proiezioni figurative come Il sogno, il fantasma e il delirio allucinatorio. Personal Shopper è una riflessione sulla natura stessa del cinema; è un opera che si apre al lavoro elaborativo non solo della protagonista ma anche dello spettatore. Assayas mette in scena la continua ricerca di Maureen non solo del fratello defunto ma anche del senso della sua stessa vita che la vede incatenata ad un lavoro che odia e da cui si vorrebbe distaccare. Elaborare vuol dire tagliare creando del solchi talmente profondi da cambiarci del tutto, Personal Shopper è uno dei migliori film del XXI secolo e merita il premio come miglior regia al fetival di Cannes del 2016.
 
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Claudio Suriani Filmmaker
 

domenica 27 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - UN ORA SOLA TI VORREI (2002) DI ALINA MARAZZI - Memorie famigliari

 
 
Una delle caratteristiche del capolavoro di Alina Marazzi è quella di riuscire a cogliere peculiarità storiche all'interno di immagini prodotte per la memoria privata. Questo elemento ci porta a comprendere quanto le nostre vite siano non solo interconnesse ma anche parte integrante di processi storici rilevanti e solo uno strumento come il cinema, mezzo espressivo tipicamente novecentesco, sia capace di rappresentarle. 
 
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 Claudio Suriani Filmmaker

BEGOTTEN (1991) di E.ELIAS MERHIGE. La nascita del tempo.

Begotten si presenta come opera seminale in quanto mette in scena l’esistenza prima della nascita del tempo e della storia (l’aura sanza tempo dantesca). Il silenzio che pervade l’intero film si pone come sorta di rumore primordiale che anticipa il tempo come creatore di linguaggi.
 
 
Tale aspetto propedeutico sembra collegarsi direttamente all’incipit della Bibbia e del Vangelo secondo Giovanni; nel primo paragrafo della Genesi si narrano i primi sette giorni della creazione in cui Dio creò dapprima il cielo e la terra, e in seguito la luce, il firmamento, il raccoglimento delle acque, germogli, erbe ed alberi da frutto, gli esseri viventi dei mari e della terra, fino ad arrivare al settimo giorno in cui Dio creò l’uomo. Inoltre, se consideriamo l’incipit del V.S. Giovanni (In principio era il Verbo, Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio) possiamo considerare il linguaggio come causa fondante della storiorafia. Il tempo della creazione biblica non può essere analizzato da un punto di vista storico (come tutti i libri delle grandi religioni) ma in chiave simbolica o allegorica ed è da ciò che Begotten muove i suoi passi. Il film inizia con la scritta: Language bearers, photographers. Diary makers. You with your memory are dead frozen. Lostin a present that never spops passing. Here lives incantation of matter. A Language forever (Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra); a questo punto inizia una sequenza che sembra legarsi direttamente ai primi due versi della Genesi: In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque; la massa informe descritta è rappresentata dal gioco di bianco e nero privo sia di sfumature sia di messa a fuoco; come se la creazione incompiuta della luce (elemento fondativo del cinema e della fotografia) sia rappresentata da una grezza impressione su pellicola. Begotten, riprendendo il discorso su Il verbo e ponendosi in una dimensione antecendente la storia, si pone anche al di fuori della conoscenza umana in assonanza con il verso del secondo paragrafo della Genesi: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti"
 
 
 
 
La mancata conoscenza impedisce all’uomo di far esperienza del mondo e della capacità di diventare ente creativo di storia: questa è la causa degli orrori del mondo non solo in chiave cristiana (la cacciata dal giardino dell’Eden e la successiva nascita di Caino e Abele come genesi dell’odio umano), ma accostabile anche in chiave pagana come il mito greco delle Erinni. Mettendo in relazione questo passaggio biblico con l’inizio di Begotten, se dalla parola di Dio nasce il giardino dell’Eden come principio di tutti gli eventi e della conoscenza, nel film di E. Elias Merhige vediamo un essere umanoide dalle sembianze indeterminate, aprirsi il ventre dalla quale uscirà ciò che in molte analisi è stata definita Madre natura; il giardino dell’Eden in forma antropomorfa. La nascita di Madre natura, intesa come nucleo generante della vita, comporta la nascita dell’uomo; tuttavia la nascita delle creature umanoidi avviene non attraverso un atto di unione carnale ma dalla masturbazione del cadavere di Dio (azione paragonabile all’evirazione di Urano da parte di suo figlio Crono); ciò portò alla nascita non di esseri umani carichi di una propria psicologia interna e creatori di storia.
 
 

Identificando Dio con La vita (come recita il versetto del V.S. Giovanni In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini) possiamo cogliere nel tempo messo in scena da Begotten una struttura circolare dove la morte appare in tutta la sua natura tragica accentuata, dal punto di vista visivo, da un bianco e nero violento del tutto privo di sfumature. Il cinema in Begotten arriva a mettere in scena un immagine mitologica perchè viene privata di legami con ogni passata esperienza figurativa. 
 
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 Claudio Suriani Filmmaker


PILLOLE DI CINEMA: SILS MARIA (2014) DI OLIVIER ASSAYAS - Una fusione tra arte e vita.

 

Sils Maria mette in scena un ventaglio di sentimenti contrapposti e speculari al tempo stesso: il rimpianto per il passato, la paura di sentimenti inconfessabili e l'amore per l'arte teatrale. Un ulteriore elemento di indiscusso valore è il forte omaggio alle caratteristiche peculiari del cinema nordico come l'isolamento delle protagoniste riscontrabile in Persona (Ingmar Bergman 1966) e Antichrist (Lars von Trier, 2009).

Sils Maria inoltre affronta la paura per un futuro ormai privo di prospettive chiedendo allo spettatore di farsi carico di sentimenti come il rimpianto che poco hanno a che fare con la dimensione dell'intrattenimento.

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 Claudio Suriani Filmmaker


venerdì 25 novembre 2022

ELVIS (2022) DI BAZ LUHRMANN - La società dello spettacolo

Per analizzare un personaggio complesso come Elvis Presley attraverso l’occhio di Baz Luhrmann, regista conosciuto per il suo stile barocco al limite del ridondante, ritengo necessario partire da un presupposto di ordine generale: parlare di Elvis Presley vuol dire parlare del XX secolo e di quell’America che ormai aveva lasciato alle proprie spalle il secondo conflitto mondiale ma che si ritrovò a combattere contro il nemico interno della segregazione razziale.

Gli anni 50 furono un periodo storico ricco di contraddizioni ma anche saturo di una forza creativa i cui frutti si sentono ancora oggi in tutto il mondo. Tuttavia l’opera di Luhrmann ci descrive ciò che Guy Debord definì La società dello spettacolo. Ricorro alle linee guida di quest’importantissima opera filosofia in quanto la sua parabola rappresenta in modo determinante quel processo di mercificazione tipico della società contemporanea che ha come unico scopo la propria autolegittimazione. 

 

Elvis è un film in linea con lo stile registico di Luhrmann: fin dall’inizio cogliamo il filo rosso che lo collega a pellicole come Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996), Moulin Rouge! (2001) o Il grande Gatsby (2013) tuttavia, andando oltre l’analisi delle scelte formali di messa in scena, emergono diversi elementi dell’opera di Debord come la separazione delle immagini dalla vita, concetto presente nel capitolo La divisione perfetta. Quando Debord afferma che Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli non solo chiarisce quanto dietro fenomeni della portata di Elvis Presley ci siano strutture economico-produttive capaci di sovrastare la forza creativa dell’artista di Menphis, ma arriva a definire i processi di autolegittimazione del mondo dello spettacolo capaci di influenzare la nostra più stretta vita politica ( e in Italia gli esempi non mancano…).

Il film sembra essere consapevole di tutto ciò in quanto cerca di andare oltre il seminato della narrazione classica; tuttavia dal punto di vista formale la tendenza ad aggiungere anziché ridurre fa correre al regista rischi di ordine strutturale e il più evidente è il ricalcare eccessivamente eventi trascurabili. Nella sequenza della prima esibizione di Elvis il pubblico femminile ha una reazione di eccitazione al limite dell’isterismo (in rete si trova la registrazione originale del concerto) che non può che strappare una risata allo spettatore. Nel momento in cui Debord afferma che lo spettacolo è una visione del mondo che si è oggettivata, sia la musica che il cinema smettono di parlarci del mondo e di farci aprire ad esso, per costruire un meccanismo autoreferenziale in cui emergono in modo decisivo i dettami del sistema economico capitalista. Questo aspetto coglie in pieno la parabola di Elvis Presley che da autentico animale da palcoscenico diventò prima un mediocre attore hollywoodiamo per finire nella lunghissima serie di esibizioni all’l' International Hotel di Las Vegas. Lo spettacolo diventa, al tempo stesso, il mezzo e il fine di se stesso. Una prima obiezione che si potrebbe portare è che il film di Luhrmann ci mostra non solo la forza creativa di Elvis ma anche il suo declino come artista e come uomo. Anche in questo caso ci viene incontro Debord ponendo al centro il concetto di feticismo della merce: in ogni forma espressiva il messaggio portante cambia attraverso il sistema economico sul quale è basata l’intera società che lo produce arrivando, nel capitalismo ad un feticcio.


Questo fenomeno ha creato una profonda contraddizione nella società contemporanea arrivando a celebrare il capitalismo anche in assenza di sovrabbondanza di beni la quale, in ogni caso, non ha liberato l’uomo dalla necessità sia del consumo che del lavoro divenuto anch’esso una merce. La parabola di Elvis Presley è un esempio di come uno dei fenomeni più importanti del XX secolo sia divenuto un fenomeno di mercificazione talmente radicale da influenzare l’intera industria dello spettacolo e il film di Luhrmann, nonostante riesca a raccontare in modo dettagliato gli eventi, non riesce tuttavia a cogliere tali contraddizioni di ordine concettuale. Il limite interno al film di Luhrmann è che si limita ad una narrazione di tipo lineare non riuscendo a cogliere i percorsi teorici delineati: Elvis da personaggio vedette concentrò su di se gli sguardi del mondo intero dimenticando di non essere altro che il portavoce di interessi opposti al proletariato … e non a caso era chiamato il re. Elvis di Baz Luhrmann è un ottimo film di intrattenimento (in fondo per molti il cinema non è altro che questo) e lo si guarda con interesse e senza annoiarsi; tuttavia se cerchiamo uno sguardo più profondo che sia capace di parlarci della contemporaneità attraverso scelte formali coerenti, la mia opinione è che in questo film, non lo troveremo.

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 Claudio Suriani Filmmaker








PILLOLE DI CINEMA - EUROPA 51(1952) DI ROBERTO ROSSELLINI - Una ricerca dolorosa

 
 
Roberto Rossellini attraverso Germania anno 0 e Europa 51 realizza due opere dall'alto valore etico in cui, attraverso le vicende dei protagonisti, si interroga sul suo lavoro in epoca fascista e sul suo prendere coscienza dell'esser stato un regista di regime. La ricerca etica è sempre difficile e dolorosa e il tormento interiore dei protagonisti delle opere citate supera di gran lunga la trilogia della guerra antifascista in importanza storica e in valore etico e morale. Se Roma città aperta si è imposto a livello storico come manifesto del cinema antifascista, Europa 51 pone al centro il dover fare i conti con il proprio passato attraverso una ricerca difficile e dolorosa. Un cinema privo di ogni retorica capace di scavare nell'animo dei protagonisti sia dal punto di vista narrativo sia dal punto formale.
 
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 Claudio Suriani Filmmaker

CENSOR (2021) DI PRANO BAILEY-BOND - Censura come fuga dal dolore

Uno degli aspetti determinanti della cultura occidentale è il meccanismo di rimozione in senso freudiano che si manifesta attraverso logiche politiche ed un sapere di tipo dualistico che divide nettamente il bene dal male. La cultura underground lavora da sempre sulla necessità di superare tale dualismo e sul bisogno di elaborare le proprie pulsioni fondamentali come il sesso o la paura; in questo scenario la censura si qualifica come azione inibitoria dei propri istinti primordiali.  

Censor, storia di Enid, impiegata presso l’ufficio statale per la censura cinematografica, è un film che affronta tale tematica attraverso diversi livelli interpretativi. Il primo indaga gli effetti dell’azione censoria sulle dinamiche psichiche dell’individuo mentre il secondo riguarda la storia del cinema e la sua tendenza alla rimozione dalla propria storia  numerose categorie filmiche, dalle opere grindhouse agli archivi famigliari fino alla pornografia (genere cinematografico presente già nell’epoca del muto) considerate opere prive di interesse sia culturale che economico/produttivo. In questo percorso il personaggio di Enid è esemplare: ha una vita tormentata dal dolore della scomparsa della sorella e da genitori che la dichiarano ufficialmente morta creando una frattura insanabile con i fantasmi del suo passato.


I traumi della sua vita si ripercuotono nel suo lavoro; ogni sequenza a cui applica il final cut non la abbandona mai del tutto diventando terreno fertile per il riapparire degli spettri del passato rendendola una figura femminile sgradevole in cui è difficile immedesimarsi. La natura altamente drammatica del suo personaggio è alimentata dalla grande prova attoriale di Niamh Algar che lavora su un perfetto confine tra il controllo delle sue nevrosi e l’immagine sobria e rassicurante della burocrate (che incarna la rilevanza storica che questa figura ha assunto dalla fine della seconda guerra mondiale). Enid non riuscendo a trovare conforto nei valori morali del suo lavoro cerca in quelle sequenze rimosse la chiave per elaborare i suoi demoni interiori. Censor è ambientato nell’Inghilterra degli anni 70, un periodo storico caratterizzato da dure lotte sociopolitiche e dalla guerra civile nell’Irlanda del nord; allo scenario appena descritto si aggiunge la memoria del sangue di una guerra civile spesso dimenticata che culminò nel Bloddy Sunday (30 gennaio 1972).


 
Nonostante Censor sia un opera che parla di cinema, la sala è la grande assente poichè l’universo home video riguarda la dimensione privata dello spettatore; se la sala è un luogo comunitario, la nostra dimensione privata esprime in modo diretto il nostro essere più profondo. Censor inoltre porta con sé un profondo amore per l’immagine analogica; sotto questo aspetto non solo è figlio dell’epoca che narra ma pone al centro della sua riflessione il bisogno di una raffigurazione coerente con le tematiche trattate dando alle sue immagini un gusto retrò carico di fascino. I tragici sviluppi delle vicende narrate ci mostrano in modo decisivo quanto lo spettatore necessiti di un’educazione alla visione e di come la censura abbia fallito i propri scopi specialmente nell’epoca delle tecnologie digitali.

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 Claudio Suriani Filmmaker

 


PILLOLE DI CINEMA - PICNIC A HANGING ROCK (1975) DI PETER WEIR. La montagna del Purgatorio

 

 

L'immaginario dantesco è uno dei principi fondanti dell'intera narrativa cinematografica; in Picnic ad Hanging Rock notiamo come la scomparsa delle giovani ragazze si apra ad una dimensione simbolica che affonda le radici proprio nella Comedia dantesca. Picnic ad Hanging Rock ci pone tale interrogativo: in che modo possiamo comprendere la realtà se la stessa è zeppa di eventi inspiegabili? E' una domanda che ci riporta alla citazione Shakesperiana: C’è più mistero in terra che nella tua scienza.  Storie come Picnic ad Hanging Rock pongono l'uomo all'interno di un universo capace di divorarlo e, nonostante la sua fotografia lucente e priva di ombre, rende l'intera opera cupa e perturbante chiarendo che la natura del cinema non è nell' immagine ma nell' idea che la anima.

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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 24 novembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - YASUJIRO OZU; BREVE RICORDO DI UN GRANDE MAESTRO



Il cinema di Yasujirō Ozu è un grande atto d'amore per il Giappone e la sua cultura millenaria; attraverso la rappresentazione delle dinamiche famigliari Ozu esprime una cura profonda per la vita (nella sua più ampia concezione) individuando il suo potenziale nelle dinamiche quotidiane nonostante agli occhi di un occidentale possano sembrare elementi privi di importanza. Attraverso la rappresentazione degli spazi interni Ozu mette in scena la storia intesa sia come vissuto individuale sia come appartenenza ad una comunità in cui un evento come il matrimonio non è (solo) una questione privata ma rappresenta il passaggio ad una dimensione pubblica in una società in cui risuonano ancora gli echi della guerra. Il cinema in Ozu non ha bisogno di movimenti di macchina spettacolari o di eccetrici virtuosismi; nella composizione dell'immagine e nel suo pieno controllo vivono storie immortali.
 
 
 
 
 
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Claudio Suriani Filmmaker

ANATOMIA DEL FUTURO; Uno sguardo critico a Crimes of the future di David Cronenberg, 2022

 Mireille Suzanne Francette Porte, in arte Orlan, dal 1986 al 1993 si sottopose ad una serie di operazioni chirurgiche documentate e presentandole come performance artistiche. E' solo uno dei tanti esempi di quel filone dell'arte concettuale conosciuto come body art, che comprende anche il tatuaggio e il body piercing ampiamente e trasversalmente diffusi. Cronenberg ne trae spunto e lo inserisce all'interno del suo percorso tematico…ed è una deflagrazione del pensiero. In fondo le domande si ripetono uguali a se stesse nel suo cinema, ma declinate ogni volta in modo tale da perlustrarne segmenti inediti, facendo emergere in primissimo piano un aspetto, la possibilità magari di rimodulare la domanda.

Non amo parlare di generi e non non lo farò neppure questa volta.

 

Cosa ossessiona Cronenberg? Il corpo, certo...ma il corpo commisto a tecnica, scienza e politica, con continui riferimenti anche all'arte. Dobbiamo a Michel Foucault aver portato avanti studi importanti sulla Biopolitica, cioè semplicemente la politica contemporanea, in cui ciò che è in discussione e ben dissimulato, è il vivere, il lasciar morire, dare la morte, in altre parole, il controllo dei corpi. Come ci mostrò magistralmente Kubrick, l'ominazione inizia quando l'antropoide comprende che con quel femore con cui sta giocherellando può accrescere la potenza del suo braccio e impadronirsi della pozza d'acqua. Tecnogenesi ed antropogenesi coincidono. Quel femore viene lanciato in aria, gira, gira, ed è già un'astronave( 2001; odissea nello spazio, 1968), ma anche la bomba (Il dott. Stranamore, 1964). 

 

Quando parliamo di arte (e Cronemberg ne parla anche a proposito del cinema...uno scivolone che gli perdoniamo volentieri) dobbiamo ricordarci che è un concetto moderno, nato nel rinascimento e che con tutta probabilità, con buona pace del mondo dell'arte ha esaurito il suo ruolo storico. Noi parliamo di arte, di tecnica, ma i greci avevano una sola parola per dire entrambe: thècne, ma ne avevano invece almeno due per dire la vita, Bìos, vita qualificata, intimamente politica, e Zoé, nuda vita, carne mortale, vendibile e sacrificabile. Ora...cos'é umano? Questa è la domanda del secondo Crimes of the future, quello del 2022. Come non pensare a due film straordinari, quelli che ci cambiano la vita. Usciti dalla sala, dopo aver visto Blade Runner (Ridley Scott, 1982) come si può essere ancora le stesse persone? Il famoso replicante di E' tempo di morire.., una volta catturato dall'agente che deve eliminarli tutti, un blade runner, appunto, a cui ha opposto forza e intelligenza, sceglie di morire. E' già un uomo. L'altro film è Non lasciarmi (Mark Romanek, 2010). Ragazzi (cloni..) cresciuti ed istruiti solo per poter espiantare loro gli organi una volta adulti. Al terzo espianto si muore...si è completato il ciclo.

Molte malattie scompaiono in virtù di tali pratiche...vogliamo chiamarlo progresso?

Ora, a Cronenberg interessa tutto questo. Come cambiano la qualità e le prestazioni della nostra sensibilità al progredire della tecnologia con la quale da sempre abbiamo a che fare e che negli ultimi anni ha innestato marce inedite imprimendo un' accellerazione dei suoi processi e delle sue commistioni che non si era mai vista prima? E la scienza? Dove può fermarsi? Su quale soglia? Abbiamo detto che Crimes of the future del 2022 è il secondo, perché il primo, esattamente con lo stesso titolo, è del 1970, sempre di Cronenberg. Fin'ora ci si è limitati a dire che non è un remake. Lo liquidiamo così? No, vediamo un po' se ci ha voluto dire qualcosa. Il Crimes of the future del '70 finisce con il primo piano di una bambina (impossibile non pensare a Mondrian nell'allestimento scenografico del film) illesa dopo aver portato alla bocca una misteriosa e densa schiuma bianca, che è risultata tossica per tutti gli altri, nella clinica House of Skin del dott.Tripod, nella quale si combatte per tentare, tra auto-asportazioni di organi e tessuti, cavie umane, aberranti pratiche sessuali, di arrestare un virus letale originato dallo smodato uso di cosmetici.


Il secondo Crimes si apre invece con un bambino, un bel bambino con le guance paffute che gioca nell'acqua vicino ad un un grande relitto. Sarà soffocato nel sonno dalla propria madre la sera stessa, colpevole di essersi mangiato un secchio per i rifiuti...si, proprio il secchio di plastica, e averlo digerito tranquillamente. I colori brillanti di Crash (1996), di Cosmopolis, (2012) tornano ad essere cupi...gotici. Lo spazio là fuori non è più quello della città generica, uguale in ogni continente, sembrano rovine generiche piuttosto, ma non sappiamo perché.

Questa la storia: due artisti, meglio performers, Viggo Mortensen (Saul Tenser) e Léa Seydoux (Caprice, ricordiamo la sua splendida interpretazione di Emma ne La vita di Adele, Abdellatif Kechiche, 2013) si esibiscono in coppia. Il primo produce nuovi organi (tumori?) che vengono tatuati nel suo corpo per poi essere espiantati nelle loro esibizioni dalla partner, chirurga performer, grazie a una macchina che serviva un tempo per fare le autopsie.

Se la nuova clandestinità consiste nel creare un registro nazionale degli organi (perché c'è una mutazione in corso di cui non si parla ufficialmente) il poliziotto di turno, Kristen Stewart (Timling) indaga su bande di ricercatori che lavorano affinché le prossime generazioni siano in grado di far fronte alla carenza di cibo e possano alimentarsi di ciò che abbonda anziché di ciò che scarseggia, guardate un po': la plastica! Il bambino che abbiamo incontrato in apertura del film si chiama Breken...rotto. Cos'ha di rotto? La biologia. La madre l'ha concepito e portato in grembo con questa mutazione trasmessa ai suoi geni dal padre che lavora da tempo alla produzione di cibo sintetico. La madre lo uccide perché per lei è una cosa...una cosa.

Ed ecco la domanda: che cos'é umano?

  

Il finale é strepitoso, di quelli che ci piacciono. L'infiltrato Saul si convince ad ingerire una tavoletta di cibo sintetico, tossico per i più, e non capiamo se si é convertito alla causa della banda o lo fa per portare avanti la produzione di tumori. Questi personaggi sono circondati da macchine senza le quali non sarebbe possibile esibirsi, dormire, mangiare. La macchina non è fuori, é il corpo stesso di Saul. Il dolore é bandito, é una civiltà anestetizzata, ma si può inseguire con le macchine: é il nuovo sesso. Quando Saul addenta, mastica, ingerisce una barretta sintetica é avvolto in una di queste che respira ad ogni suo respiro.

C'é a questo punto un avanzamento della macchina da presa, un primissimo piano, il colore defluisce dallo schermo. La macchina respirante si ferma, Saul sorride, una lacrima solca le sue guance. Nel Crimes del 1970 la bambina é illesa, ma dagli occhi del dottor. Tripod di fronte a lei, dopo aver ingerito la medesima sostanza, scendono lacrime viola. L'antropogenesi procede per salti. Uno l'abbiamo sotto i nostri occhi: sono i nativi digitali. Qual'é la sorte di Saul? Perché la macchina si é fermata? Sta morendo? Si é compiuta una mutazione del suo DNA? La ricchezza di senso nei conti che non si chiudono é la cifra di un film riuscito. Ad noi tutt* le risposte e la formulazione di nuove domande.

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Giusy Catapiani

nata a Viareggio il 19-03-1960

Filosofa, allieva di Pietro Montani 

Regista

Collabora con Cinepeep come redattrice e corretrice di bozze


LES REVENANTS (2012 - 2015) di Fabrice Gobert. Il legame tra il tempo e il corpo.


  La serie televisiva Les Revenants di Fabrice Gobert è andata in onda per la prima volta in Francia nel 2004 sull’emittente privata Canal+; è una serie tv che si distacca in molti punti dall’immaginario zombie (come ad esempio da The Walking Dead) in quanto pone al centro la morte non come termine della vita (portando come conseguenza il disfacimento del corpo) ma come intervallo tra due esistenze. 

La storia è la seguente: dopo anni da un incidente stradale in cui morì un intera scolaresca (evento traumatico non solo per i singoli personaggi ma per un intera comunità) i defunti iniziano a tornare in modalità e tempi diversi con l’intenzione di riprendere le loro vite e i loro affetti più cari.  Il primo aspetto che appare decisivo nel suo discostarsi dall’immaginario zombie è dato dal corpo; i ritornati non sono caratterizzati dalla decomposizione in quanto mantengono intatte le proprie sembianze. Non importa quanto tempo sia passato; il trascorrere del tempo non intacca la loro carne in quanto sono al di fuori della concezione cronologica del tempo. Il secondo trauma che segnò la comunità è dato dalla rottura dell’enorme diga avvenuta trent’anni fa che, una volta ricostruita, segnerà la vita degli abitanti non solo attraverso la continua minaccia di una nuova catastrofe ma anche attraverso continui black out elettrici. I capolavori del cinema zombie hanno sempre portato avanti forti tematiche di denuncia sociale; se in La notte dei morti viventi (George Romero, 1968) emergono diverse tematiche ed interpretazioni tutte riconducibili alla politica razziale americana, in Les Revenants la presenza minacciosa della diga è un monito ad avere giustizia per le quattrocentoventuno vittime del disastro francese del 1959 (in Italia ricordiamo il disastro del Vajont del 1963). Appare chiaro come l’aspetto centrale della serie sia la morte nella sua declinazione temporale; se nella cultura occidentale la morte rappresenta il punto finale dell’esistenza, il ritorno da essa diviene il rovesciamento della forza accusatoria della storia nei confronti dei vivi. La morte non è più un evento del singolo ma diventa il ritratto di un epoca caratterizzata da grandi disastri mai elaborati. Fin dal film di George Romero la rappresentazione del non morto supera una scontata estetica horror per affrontare tematiche caratterizzanti della contemporaneità come l’entrata della tecnica nella vita biologica; percorsi biotecnologici che portano a pensare all’immortalità come qualcosa di non più così lontano da noi acquisendo risvolti profondamente perturbanti.

 

I revenant, hanno una duplice caratterizzazione: il soddisfacimento di alcuni bisogni primari (come cibo e rapporti sessuali) e una forte spinta etica: portare a compimento ciò che lasciarono incompiuto in vita a differenza dei vivi che non riescono a staccarsi da sentimenti dolorosi come il senso di colpa e la rassegnazione per non poter più cambiare le proprie vite. La tematica del tempo si imbatte in una sovversione della naturale capacità degli esseri umani di incidere nel mondo; secondo Carlo Rovelli Non c’è passato, non c’è presente, non c’è futuro. Il tempo è solo un modo per misurare il cambiamento. Una delle sovversioni naturali attorno alla quale ruota Les Revenants è l’incapacità dei vivi di incidere sugli eventi per creare cambiamenti di rotta decisivi alla narrazione (es: Thomas attraverso il suo lavoro di gendarme prova invano a difendere la frontiera dell’ordine naturale delle cose mentre Pierre non riesce ad imporre la sua delirante visione religiosa degli accadimenti se non attraverso un apocalittica convivenza tra vivi e morti) ma anche sulla natura ambigua di alcuni di loro (Serge divora le sue vittime incarnando una delle caratteristiche classiche dello zombie mentre Lena e Julie avendo avuto gravissimi incidenti in passato – Julie aggredita da Serge e Lena cadde dalle scale per mano del padre – vivono per l’intera serie nell’ambiguità sull’essere vive o morte). Il tempo nella narrazione di Les revenants non arriva mai a chiarire il suo effetto sugli eventi narrati e sui protagonisti mettendo in luce che i meccanismi che lo animano sono di carattere riflessivo: una sorta di trattato sulla perdita. Il mancato chiarimento dei meccanismi del tempo è animato anche dalla scelta di un piccolo centro montano in quanto l’immagine della città è da sempre caratterizzata da un forte movimento interno anche fin i più semplici come l’apertura e la chiusura dei negozi; il movimento interno della città è riconducibile a cambiamenti epocali poiché è proprio attraverso i dettagli che possiamo scoprire la caratteristiche di un processo di transizione. Il piccolo centro di montagna sembra invece andare in direzione contraria grazie a diversi fattori: il primo è il suo essere circondato non solo da grandi montagne ma anche da un manufatto dell’uomo (come una diga) in un’unione tra tecnica e ambiente che porta alla caratterizzazione sia del tempo della rappresentazione sia alla presenza di alcuni locali stereotipati come Lake Pub e American Diner aumentano la sensazione di un ambiente chiuso in se stesso in quanto o estranei al tema narrativo centrale (American Diner) o luoghi in cui gli eventi dei protagonisti non arrivano mai a una radicale inversione di rotta (Lake Pub). Il punto focale dell’intera struttura narrativa è il superamento di tematiche paranormali di ordine generico per essere ricondotta a tematiche nell’ambito del possibile come il dramma familiare (e comunitario) e l’elaborazione del lutto. Una delle peculiarità della serie di Fabrice Gobert è la capacità di superare l’antinomia sia del codice della realtà sia del codice dell’incongruo creando una struttura narrativa strettamente personale staccandosi anche da I segreti di Twin Peaks a cui spesso è stata accostata. 


Les Revenants nasce dal tema centrale di La Metamorfosi di Franz Kafka: nonostante siamo sicuri dell’avvenuta trasformazione di Gregor, ciò che ci cattura non è l’orrore della visione ma i drammi familiari dei protagonisti; drammi caratterizzati dal riemergere di un lutto mai del tutto elaborato. La caratteristica del tempo individuata in precedenza (il tempo legato da una natura strettamente biologica) si arricchisce di una nuova sfumatura; gli eventi sono mossi dalla ricerca di un peculiare percorso narrativo; se inoltre consideriamo l’idea di Slavoj Zizek del non-morto come fantasia fondamentale della cultura di massa contemporanea il tempo si arricchisce di un ulteriore peculiarità: la creazione dell’avatar come creatura simbolo della contemporaneità digitale. Quest’ultimo elemento, nonostante tenda a distaccarsi dalla tipologia classica delle creature di confine (vampiri, zombie, fantasmi) possiede, tuttavia, alcuni elementi della sua narrazione profondamente classica; l’elemento che analizzeremo è il ritorno alla propria terra. Un ulteriore elemento di analisi in Les Revenants è la casa: strumento di protezione nei confronti in primo luogo della Gendarmeria e in seguito dai revenant stessi. Entrambe le stagioni sono animate da una forza che tende a dividere le due comunità creando una tensione basata sulla resistenza al cambiamento strutturale del canone del genere zombie ed in seguito la stessa struttura temporale del testo. Nella seconda serie la struttura narrativa di Les Revenants acquista ulteriori elementi proprio legati al significato della casa: attraverso il personaggio di Serge indagheremo una tematica che ci aiuterà a chiudere il cerchio della nostra riflessione: il legame tra vittima e carnefice. Abbiamo visto come tra i protagonisti ce ne siano alcuni dalla natura non definita (Lena, Joulie e Adele); a loro si aggiunge il personaggio di Serge che fin dall’episodio pilota acquista caratteristiche classiche del non/morto

 

Nell’episodio Mme Costa accade un evento che segna un profondo cambio di rotta nella figura stessa del revenant e del loro ritorno nell’universo dei vivi: in casa di Serge e Toni arrivano le vittime di Serge e resteranno come una presenza silenziosa ma profondamente inquietante. Avendo appurato come il revenant torna nel mondo dei vivi per concludere il proprio scopo della vita terrena e di come la natura stessa del personaggio influenza gli eventi del proprio luogo di riferimento, la casa di Tony e Serge assume una natura perturbante in quanto luogo di confine tra due mondi rappresentati arrivando a sovrapporsi; il loro silenzio determina non solo che i morti sono ormai tra i vivi e non se ne andranno per mano loro ma soprattutto la venuta meno del linguaggio come creatore di spazi e di storie. Nel momento in cui la casa diviene uno spazio abitato esclusivamente dai revenant il tempo prevarica la struttura narrativa creando un corto circuito ormai irreversibile; queste donne sembrano non avere altro scopo che spingere Serge ad una elaborazione delle proprie azioni in vita; elaborazione che tuttavia non arriverà mai ad una svolta decisiva creando una dimensione temporale tipica degli spazi di confine in cui non esiste più ne un passato da elaborare (queste donne non rivendicano nulla) ne un futuro nella sua natura di autodeterminazione (queste donne a differenza degli altri revenant non solo non parlano ma non hanno nessuno scopo apparente) vivendo in un continuo istante presente e riaffermando il limbo dantesco come topos narrativo degli spazi di confine.

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Claudio Suriani Filmmaker 







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