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domenica 2 aprile 2023

EO (2022) DI JERZY SKOLIMOWSKI – IL MANIFESTO DEL MONDO ANIMALE

 

Troverete l'articolo anche al seguente link: https://www.cinepeep.net/cinema-nordico/eo-2022-di-jerzy-skolimoski

Jerzy Skolimowski è uno degli autori più sottovalutati dell’intero cinema polacco…e forse europeo. Nonostante figure autorevoli come Andrej Waida, Roman Polanky e Krzysztof Kieślowski siano gli autori più conosciuti a livello internazionale (con pieno merito) in Polonia esiste una tradizione registica di assoluto valore (che affonda le proprie radici non solo nel cinema ma anche nel teatro con l’opera di  Jerzy Grotowski) e il regista di Eo ne è forse il rappresentante più significativo.

 

 

 

Eo narra le vicende di un asinello e del suo peregrinare in cerca (forse) della sua ex padrona.

 

Coinvolgente,  affascinante,  denso di interrogativi. Primo tra tutti: perché proprio un asino? E inoltre, qual’è la storia narrata attraverso le vicende di Eo? La figura dell’asino è divenuta nell’immaginario collettivo esempio di stupidità e scarsa intelligenza…un processo linguistico (e di conseguenza psichico) a cui non prestiamo quasi più attenzione. La prima considerazione è quindi di carattere generale…poi emergono chiavi di lettura di ordine formale: la prima è la dimensione del viaggio. 

 

 



Il road movie è un topos narrativo centrale nel cinema americano non solo capace di fornire numerose pellicole di assoluto valore molto diverse tra loro (tra le più importanti ricordiamo Easy Rider - Dennis Hopper, 1969,  Cuore selvaggio – David Lynch, 1990, Nomadland – Chloe Zhao, 2020 solo per citare i più famosi)  capace di rappresentare, insieme al western, i grandi spazi della natura americana (per un approfondimento rimando al capitolo  La Monument Valley e l’immagine mediatica de Lo specchio e il simulacro di Paolo Bertetto – Studi Bompiani, 2007).

Skolimowski sembra rifarsi a questa importante tradizione: il viaggio di Eo è caratterizzato da un dialogo tra primi (e primissimi) piani e campi lunghi, parabola che rappresenta la trasformazione ma questo non si applica al nostro protagonista:  Eo è solo e la ricerca della sua padrona non lo condurrà ad alcuna emancipazione.

Il suo peregrinare nella Polonia rurale si carica di una latente tragicità fino a esplodere nell’epilogo…

 




Interiorità e solitudine … il destino degli emarginati.

 

Aver definito le caratteristiche generali dell’opera ci (ri)conduce alla domanda iniziale: perché proprio l’asino? Fin dai tempi di Au Hasard Balthazar di Robert Bresson (1966) questa figura si carica di una malinconia senza tempo e Skolimowski ci apre una dimensione in cui percepiamo ogni suo pensiero e ogni suo sentimento.

E’innegabile che Eo abbia uno sguardo sul mondo profondamente inquieto ma tale inquietudine nasce dalla riflessione sul significato stesso del termine umanità, non razza ma condizione vitale e questa è una riflessione che, gioco forza, non può essere gratuita e finisce con l’imbattersi in un nichilismo di fondo che oltrepassa il facile animalismo: nessuna emancipazione.

Eo è un’opera poetica come non se ne vedevano da anni, atto di resistenza non solo nei confronti di un mondo Cinico e spietato, ostile, dove l’innocenza può passare per ingenuità o come segno di debolezza, ma anche nei confronti delle piattaforme streaming e al loro universo audiovisivo standardizzato


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 Claudio Suriani Filmmaker

martedì 14 febbraio 2023

THE NORTHMAN (2022) DI ROBERT EGGERS - LE ORIGINI DEL REVENGE-MOVIE

 La storia della letteratura ci ha consegnato le vicende di Amleto come un’opera originale, quindi ben pochi sanno che il drammaturgo inglese scrisse la sua opera più famosa ispirandosi direttamente allo scrittore danese Saxo Grammaticus e alla sua antologica Gesta Danorum, opera fondamentale della letteratura nordica e di notevole  ispirazione per la drammaturgia che ne seguì.

 

 

The northman nasce da questo oblio storico. Nel nuovo film di Robert Eggers la cultura nordica si impone in maniera decisiva come a voler riaffermare la vera natura delle vicende di Amleto inteso come topos narrativo e, in seguito, del genere revenge movie. Robert Eggers, dopo un esordio più che convincente come The witch e il capolavoro espressionista The Lighthouse, approda al cinema epico in cui lo schema della vendetta si fonde attraverso la mitologia vichinga. La trama è la seguente: D.C. E Hrafnset, figlio del re Aurvandil, assiste all’omicidio del padre da parte di suo fratello Fjölnir; l’intero film è basato sul desiderio di Hrafnset di vendicare la morte del padre e salvare la madre dalla violenza dello zio. La struttura narrativa è basata sul culto di Odino (come il rituale dei cani che vogliono diventare uomini) e dal culto della fisicità vichinga in cui la brutalità delle sequenze di lotta e il rapporto tra riti di ascensa all’età adulta del protagonista creano un racconto filmico affascinante e carico di pathos.  

 


The northman abbandona l’approccio espressionista di The Lighthouse a favore di un cinema narrativo sulla falsa riga di The Witch, ma sembra calcare la mano su un senso di virilità vichinga che, alla lunga, risulta essere ridondante e strizzare l’occhio agli amanti del cinema epico blockbuster come Il signore degli anelli (Peter Jackson, 2001), La bussola d’oro (Chris Weitz , 2007) o Le Crociate (Ridley Scott, 2005)  perdendo la natura autoriale ben delineata nelle sue prime due opere. Questa caratteristica può non essere considerata un difetto strutturale ma di certo risulta essere un profondo cambio di prospettiva. Eggers per la prima volta guarda al grande pubblico costruendo un’opera lineare priva di sottotesti e l’aver avuto a disposizione un budget incredibilmente più alto rispetto al passato (che oscillava tra i 75 e i 90 milioni di dollari) gli ha permesso di costruire un impianto visivo efficace ma non caratterizzante.

 


La struttura narrativa del film è lineare e riconoscibile, può sembrare un passo indietro nel lavoro di un autore che si stava imponendo nel panorama del cinema mondiale come un punto di incontro tra W. Herzog, Lars Von Trier e l’intero universo del folk horror.  The northman Eggers  invece a mio avviso si apre in modo magistrale a un sottogenere come il revenge-movie che ha dato vita a capolavori del cinema d’autore e del cinema d’exploitation e come La fontana della vergine ( Ingmar Bergman, 1960), Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971), Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave) (1978) di Meir Zarchi, L'angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), Mr. Vendetta (Park Chan-Wook, 2002). Il mio consiglio è di vedere l’intera filmografia dell’autore americano per poterne apprezzare la duttilità e la capacità di aprirsi a diverse tipologie narrative sempre con ottimi risultati. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 9 febbraio 2023

YOU ARE NOT MY MOTHER (2021) DI KATE DOLAN - RACCONTI DI DONNE SULLA SOGLIA

Negli ultimi anni la casa di produzione Irish Film Board sta portando avanti una scena di registi  capaci di raccontare retroscena della cultura irlandese attraverso linguaggi diversi: pellicole che vanno dall’animazione de La canzone del mare (Tomm Moore, 2014), film  a carattere storico come Bloddy Sunday (Paul Greengrass, 2002) e tanti film dell’orrore tra cui questo  You Are not my mother che vede l’esordio alla regia di Kate Dolan.

 

 

You Are not my mother è il primo lungometraggio della regista irlandese e narra la storia di Char e della sua famiglia focalizzandosi sulla figura della madre e sul suo passaggio dalla depressione alla manifestazione di una natura demoniaca risalente alla tradizione culturale irlandese.

Fin dagli esordi con Cinepeep ho rivolto la mia attenzione al cinema inedito in Italia non solo per una mera azione divulgativa ma anche per affermare ciò che, nel tempo, è diventato un manifesto e una dichiarazione d’intenti:  l’istituzione cinematografica (intesa come sistema economico produttivo) ha un effetto rilevante sull’immaginario dello spettatore in quanto ogni elemento messo in scena è in rapporto diretto sia con la sfera emotiva che con la sua capacità riflessiva… il vero luogo in cui il film lavora. La nascita di movimenti cinematografici sostenuti da produzioni economicamente non rilevanti (non esiste solo Hollywood o Netflix) è sempre stata una delle vie maestre per narrare la vita nei piccoli centri urbani, come  l’esempio italiano del documentario La regina di Casetta (Francesco Fei, 2018 che affronteremo prossimanente su Cinepeep). Torniamo a You Are not my mother: un giorno la madre di Char, vittima di una grave forma depressiva, sparisce per tornare la sera dopo come se nulla fosse successo.

L’elemento da cui partire è la rappresentazione della periferia.

 



 

Abbiamo già incontrato diverse opere in cui la lontananza dai grandi centri urbani influisce sulla scrittura e sul ritmo della messa in scena come Antlers, Spirito insaziabile (Scott Cooper, 2021),  Gummo (Harmony Korine , 1997) e Lamb (Valdimar Jóhannsson, 2021).

La periferia di Dublino è rappresentata da una fotografia dai colori cupi sulla quale influisce in modo decisivo la luce che, per il cinema nordico, rappresenta da sempre un ibrido tra cinema e vita. L’alternanza radicale tra luce e buio cela una  totale assenza di comunità  e di emancipazione, profilando una dimensione privata delle protagoniste  in cui l’oscurità regna sovrana e detta le regole estetiche delle vicende che andranno delineandosi. Non mi spingerò oltre per ovvi motivi con la sinossi. Nonostante le tematiche non  siano certo innovative, Kate Dolan riesce a costruire una tensione crescente in cui la sfera privata delle protagoniste si carica di una forza espressiva talmente forte che non possiamo fare a meno di notare l’influenza di importanti scuole: La casa e Non aprite quella porta – Sam Raimi e Tobe Hooper); il cinema orientale contemporaneo come Ju-on: Rancore (Takashi Shimizu, 2002) Visitor Q (Takashi Miike, 2001) mentre per il cinema europeo  tale tematica è stata sviluppata prevalentemente  in chiave sociopolitica come Family Life (Ken Loach, 1971) I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965) e il più recente Lazzaro felice (Alice Rohrwacher, 2018). 

 



Un ulteriore elemento di interesse è dato dal fatto che nelle opere contemporanee dalla forte natura perturbante è ricorrente il tema della solitudine: la natura perturbante di You Are Not My Mother nasce dalla tensione nata dalla repressione dei racconti mitologici irlandesi sotto il peso di un cemento anonimo e alienante. You Are Not My Mother vive di una contradizione interna di ordine narrativo che, invece di rendere la pellicola carente, ne accresce la forza espressiva superando il concetto stesso di cinema di genere. Nonostante fin dalla locandina l’opera ci venga presentata come un film horror (quasi a fidelizzare il pubblico di riferimento) i meccanismi interni che la animano non sfociano mai nel puro orrore (come nel cinema di Wes Craven o del nostro Lucio Fulci): il restare sulla soglia tra terrore e orrore permette allo spettatore di vivere una tensione ancora più forte in quanto l’orrore cinematografico è un’immagine storicizzata e del tutto elaborata. You Are Not My Mother lascia ben sperare che Kate Dolan potrà offrirci successive opere di valore.

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Claudio Suriani Filmmaker

     

venerdì 20 gennaio 2023

LAMB (2021) DI VALDIMAR JOHANNSON (2021) - La solitudine genera mostri

 

Lamb, film del regista islandese Valdimar Jóhannsson (prodotto da Bela Tarr) narra la storia di María e Ingvar e del loro allevamento di pecore dal quale nascerà Ada, una creatura umanoide con la testa di agnello cresciuta dai due protagonisti come una figlia. 
 
 

Lamb è un’opera carica di numerose chiavi interpretative, la prima è uno sguardo antropologico sulla terra d’Islanda e le sue zone rurali caratterizzate da vita agricola e da un profondo senso di isolamento. Nonostante sia una considerazione di ordine generale possiamo cogliere fin da subito l'influenza di Bela Tarr (specialmente di opere come Satantango del 1994 e Il cavallo di Torino del 2011) e la sequenza d'apertura non solo è un chiaro rimando al suo ultimo film ma ne arricchisce la natura antropologica. Lamb è del tutto privo di movimento interno e il focus si concentra sulla vita contadina e sull'insieme di tradizioni in cui anche i gesti più semplici si caricano di una ritualità quasi sacrale.


La storia del cinema ha spesso mostrato come l'isolamento sia spesso causa di follia (si pensi ad opere come L'ora del lupo di Ingmar Bergman (1968), Antichrist di Lars VonTrier (2009), Hagazussa; la strega di Lukas Felgeifed, (2017) e La pianista e Funny Game (Michael Haneke, 2001 e 1997) solo per citarne alcuni, topos narrativo che porta i protagonisti a incancrenire le proprie tendenze depressive in dinamiche patologiche spesso violente.

Queste dinamiche in Lamb si accompagnano al profondo senso di solitudine di un paese di appena 366.000 abitanti la cui metà vive nella sola Reykjavík e il rapporto con la luce è capace di influenzare profondamente i propri cineasti: il cinema scandinavo è spesso caratterizzato dal buio o dalla luce perenne e dalla relativa mancanza di un'elaborazione del tempo.

Tuttavia l’entrata in scena di Ada diventa un punto di rottura nel percorso teorico fin qui descritto; attraverso il suo personaggio Lamb si carica da un lato di una forte natura mitologica che rimanda al mito del Minotauro mentre dall’altro chiama in causa l’elaborazione del lutto dei protagonisti, lutto che tuttavia non ci è dato conoscere ma che trova nel rapporto con il mondo animale la propria coazione a ripetere (rivolgendoci al cinema indipendente possiamo trovare le tematiche descritte nel film Vase de Noces – Thierry Zeno, 1974). Nonostante Jóhannsson rielabora la dimensione del mito in modo personale Lamb conserva il classico inganno a un Dio vendicativo.


María e Ingvar non riescono a vedere in Ada ciò che è in realtà: il simbolo di una vita segnata da traumi irrisolti capaci di confinarli in una terra priva di mondo in cui tutto inizia e finisce nella loro fattoria. Lamb inoltre rientra a pieno titolo nel sottogenere cinematografico definito folk-horror trovando in opere come The Wicker Man (Robin Hardy, 1973) e nel recente Midsommar (Ari Aster, 2019) alcune delle opere più significative; sono film accomunati dalla rappresentazione di culture primordiali che, nonostante il diffondersi del cristianesimo da una parte e dello sviluppo economico/capitalistico dall’altro, riescono a sopravvivere nelle tradizioni popolari delle culture rurali. Lamb trova nel rapporto con le antiche credenze popolari alimentate da contrapposizioni come antico/moderno e laico/religioso una forza narrativa capace di richiamare i più antichi miti che hanno caratterizzato il nostro immaginario fino ad oggi riuscendo anche da un punto di vista visivo a valorizzare il senso di infinito che l'Islanda porta con sé.

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Claudio Suriani Filmmaker

martedì 10 gennaio 2023

PERSONA (1966) DI INGMAR BERGMAN - Il racconto dell'orgia

Da sempre cariche di desiderio, le immagini cinematografiche hanno il potere di stimolare le pulsioni più inaccessibili generando tra gli altri, due effetti ancora oggi determinanti. Nei primi anni del novecento il cinema fu definito un’arte pornografica per via dello sguardo dello spettatore ritenuto non contemplativo (tipico delle arti classiche) ma feticistico, mentre altrove stava acquisendo un profondo valore politico grazie al lavoro di registi/teorici come Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn. Emerge in ogni caso la capacità di parlare sia al singolo che alle masse alimentando la dimensione del desiderio (di natura erotica, sociopolitica o altro). Persona (Ingmar Bergman, 1966) narra la vicenda dell’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ulmann) e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson): la prima è colta da una profonda crisi che la trascinerà in uno stato di mutismo mentre la seconda la assisterà prima in clinica, poi in una casa al mare dove le due donne si recheranno per far ritrovare alla Vogler la serenità perduta. Tra loro nasce subito una forte intesa che culminerà la sera del primo giorno in cui Alma, in un inarrestabile flusso di coscienza, le racconta l’esperienza di un'orgia sulla spiaggia con persone a lei sconosciute. 

 

Se consideriamo questa sequenza come uno dei cardini dell’intera pellicola vediamo come Bergman non cada nel facile meccanismo del flashback affidando alla parola il valore erotico degli eventi narrati. Il desiderio di raccontare di Alma tuttavia contrasta con il silenzio di Elisabeth creando una tensione carica di un erotismo non appagato in quanto Elisabeth non offre alcuna reazione ai suoi racconti. E’ una sequenza in cui emergono le dinamiche del mito (si pensi alle Erinni o a Edipo) e dell’opera shakespeariana in cui si evince che non esiste erotismo privo di tragedia. Persona è un’opera non solo sulla tensione erotica tra le protagoniste ma anche sull’incomunicabilità. Considerando l’assunto teorico di Christian Metz secondo cui il cinema è un mezzo di espressione e non di comunicazione, il crescente contrasto che viene a crearsi tra Alma ed Elisabeth arriva a rappresentare il conflitto tra un linguaggio autoreferenziale (Alma) e l’incapacità di saper corrispondere agli eventi del mondo (Elisabeth di fronte all’immagine del monaco in fiamme si smarrisce per sempre). Questo conflitto interno deflagra attraverso un atto traumatico (la sequenza dell’acqua bollente): è un’ azione di rottura attraverso cui vengono meno i processi di identificazione tipici del cinema narrativo portando l’opera verso la tragica seconda parte. Alma spaventa Elisabeth, pur riuscendo a farla parlare e ottiene come risultato l’inibizione della pulsione erotica descritta conducendole verso un finale che le allontanerà del tutto. Tuttavia, nell’istante stesso in cui Elisabeth pronuncia quelle poche parole emerge la forza veritativa dell’immagine cinematografica: un istante, allo stesso tempo folgorante e sfuggente, capace di sottrarsi al ferreo controllo della messa in scena autoriale esattamente come una pellicola che si brucia all’improvviso durante la proiezione. Un ulteriore aspetto determinante è il rapporto simbiotico che si viene a creare tra personaggio e strumento cinematografico. Bergman lavora sulla rimozione dell’idea di spettacolo scarnificando a tal proposito lo stesso dispositivo tecnico: immagine proiettata sottoposta all’impermanenza del mondo. 

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Claudio Suriani Filmmaker

mercoledì 7 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - L'IMMAGINE ALLO SPECCHIO (1976) DI INGMAR BERGMAN - Il mostro che ci divora.

 
 

Nella filmografia di Ingmar Bergman L’immagine allo specchio viene subito dopo Il flauto magico e Scene da un matrimonio; è un'opera che scava negli animi tormentati dei protagonisti preparando lo spettatore (e forse l'intera storia del cinema) a  Fanny e Alexander (1982, opera che segnerà la fine della sua carriera). Se in L'immagine allo specchio (1961) Bergman lavora sulla forza simbolica dell'immagine speculare nel film in questione sembra concludere tale percorso di ricerca in quanto le vicende della protagonsta (che torna a vivere nella casa dei nonni, l'assenza del marito  e l'immagine di una casa totalmene vuota) diventano un confronto forzato con traumi del passato mai elaborati.
 
Inoltre il tentato stupro e l'incominicabilità con la figlia alimentano ulteriormente il senso di angoscia di Jenny (interpretata da un'immensa Liv Ullmann, attrice feticcio di Bergman); se da bambina la natura rassicurante dei legami famigliari le permise di tenere lontani da sè quei piccoli (o grandi) rancori presenti in ogni famiglia, in età adulta il suo inconscio riemerge in tutta la sua forza gettandola in uno stato di sofferenza da cui si emanciperà con grande fatica.
 
Jenny troverà la forza di guarire grazie un semplice gesto carico di significato: vide la nonna accarezzare il nonno, ormai morente: il quel momento comprese che la forza dell'amore è superiore alla stessa morte.

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Claudio Suriani Filmmaker
 
 
 

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