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giovedì 21 novembre 2024

ENYS MEN ( Mark Jenkin 2022 ) - Fantasmi dalla Cornovaglia




#EnysMen #Horror #FolkHorror

Enys Men ( Mark Jenkin, 2022) fu proiettato in anteprima nella sezione Quinzaine des Realisateurs del festival di Cannes del 2022 e si impose da subito nella sua essenza satura di simbolismo che affonda le proprie radici nella cultura pagana e animistica in cui la natura assume un valore religioso. E' un opera che si discosta dal canonico Folk- Horror soprattutto per influenze che vanno dal documentario al mystery movie.

Enys Men narra le vicende di Mary Woodvine, una botanica che studia l'evoluzione di un fiore raro in un'isola della Cornovaglia caratterizzata dall'assenza quasi totale di vegetazione e capace di trasmettere un forte senso di solitudine.
Abbiamo visto in numerosi casi come la solitudine nel cinema (e non solo) rappresenti la genesi di uno sguardo perturbante: non solo l'unico legame della protagonista con il mondo è legato a un fragile contatto radio ma la natura ostile del paesaggio la priva di ogni possibilità di fuga materiale e spirituale dalla sua condizione.

Se lo spettatore si approccia ad Enys Men per vivere un'esperienza stile The Wicker Man ( Robin Hardy, 1973) rimarrà deluso in quanto è un'opera dal forte valore sperimentale che fonde il cinema documentaristico di Herzog con alcune delle opere più significative del mistery cinema come Picnic ad Hanging Rock (Peter Weir, 1975) e The Lighthouse (Rober Heggers, 2019) arrivando a rappresentare un universo in cui le coordinate spazio-temporali si sottraggono per dar spazio a figure dal forte valore fantasmatico in un dialogo aperto con le opere citate.

Enys Men inoltre è caratterizzato da una fotografia stile pellicola anni settanta portandolo verso il found footage che, forse per la prima volta, si apre a numerose influenze ( sia narrative che visive ) dando nuova linfa vitale a uno stile che fino a oggi non aveva più nulla da dire.

Enys Men è sicuramente una delle opere più interessanti uscite negli ultimi anni capace di cercare nuove forme espressive senza il facile apprezzamento di un pubblico ormai assuefatto alla banalità corrosiva. 


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 Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 27 maggio 2024

LA ZONA D’INTERESSE (2023) DI JONATHAN GLAZER – La normalizzazione degli orrori del mondo




La zona d’interesse (Jonathan Glazer, 2023) necessita di un’introduzione propedeutica.


La Shoah è un evento storico che s’impone da sé in quanto la sua elaborazione e memoria portò alle estreme conseguenze determinati aspetti della contemporaneità oggi ancora vivi che potremmo riassumere nella filosofia a cui Michel Foucault e in Italia Roberto Esposito e Giorgio Agamben diedero il nome di Biopolitica.

Questo allargamento della riflessione ci permette non solo di riattualizzare l’Olocausto (soprattutto a causa dei mutati rapporti di forza nel panorama geopolitico mondiale) ma anche di evitare una facile deriva retorica costantemente presente quando si affrontano queste tematiche. Come mettere in relazione la catastrofe del passato (non così remoto) con quelle di oggi?  Ci rivolgiamo al filosofo sloveno Slavoj Žižek e alla sua analisi. Žižek in una lunga video-intervista rilasciata a Enrico Ghezzi nella serie Parola (su una) data (una videocosa, per riprendere un termine caro al critico italiano) affronta il tema della catastrofe arrivando a distinguere La catastrofe visibile da quella invisibile, ponendo l’accento sulla seconda (citando come esempio Cernobyl) come elemento caratterizzante del mondo a venire in quando inelaborabile in immagine.

 

La zona d’interesse sembra prendere vita proprio da tale concetto e dall’assunto teorico di Claude Lanzmann in Shoah (Tascabili Bompiani, 2000): In un certo senso si può affermare che nessuno sia mai stato ad Auschwitz perché coloro che vi sono stati deportati e che sono morti subito, in realtà … non hanno fatto in tempo a sapere ciò che c’era.

Jonathan Glazer mette in scena la vita quotidiana della famiglia Hoss che vive in una casa a ridosso del campo di sterminio di Auschwitz, attribuendo un ruolo di primissimo piano al sonoro proveniente dal campo e alle immagini che lo stesso suggerisce allo spettatore o che (non) suggerisce agli inquilini di casa Hoss in cui si vive secondo una quotidianità ben strutturata tipica del Terzo Reich. Assistiamo a un processo di privazione deliberata della realtà, un fuori campo che sfocia in un’oppressione anestetizzante che, tuttavia, non arriverà mai alla coscienza degli inquilini di casa Hoss sottoforma di trauma.

E’ come se la Shoah non esistesse in quanto ogni elemento del contesto concentrazionario attua, o subisce, la privazione dello sguardo sulla camera a gas e il crematorio … un destino che accomunerà vittime e carnefici da due prospettive diametralmente diversei primi persero la vita mentre i secondi, la capacità di portare a coscienza l’orrore.

 



Negare lo sguardo significa relegare tali eventi al di fuori della storia rendendo tali traumi fuori da ogni possibilità elaborativa personale e/o storica. La zona di interesse era unarea di quaranta metri quadrati adiacente al perimento dei campi, una sorta di zona cuscinetto che doveva impedire ai cittadini delle zone abitate di entrarvi in contatto, in particolar modo con i prigionieri e in cui i protagonisti del film convergono le proprie attenzioni quotidiane come un orto e un giardino ben curato ...

Casa Hoss viene vissuta dai suoi inquilini come un paradiso come dimostra la sofferenza della Sg.ra Hoss alla notizia del trasferimento del marito. E’ un paradiso che tuttavia si basa sempre sul principio della selezione e che in La zona dinteresse ci appare come l’elemento chiave dell’intera pellicola. E’ come se in ogni inquadratura ci sia una sorta di lavoro interno al visibile capace di svilupparsi a diversi livelli: il primo è strettamente concettuale in quanto il paradiso di casa Hoss ci appare profondamente inquietante, il secondo è capace di lavorare sul sensibile rendendo questo sentimento perturbante, chiave per far travalicare il fuori campo nella dimensione del visibile. Azzarderei che Glazer non riesce ad avere un pieno controllo sugli effetti del fuori campo ma cerca di assecondarlo creando un’opera, nella sua alta drammaticità, satura di una libertà stilistica capace di dare un contributo innovativo alla tradizione cinematografica sulla Shoah.

Inoltre, se questa ha tra le sue tematiche la privazione (o selezione) dello sguardo, tale processo da sempre è stato convertito dal cinema in una separazione tra l’opera e la sala: a questo punto si impone una questione puramente cinematografica. Abbiamo visto in altri articoli come l’orrore perda efficacia nel momento del suo manifestarsiconcetto valido sia per il cinema horror sia per l’orrore di carattere storico. Tuttavia se nell’horror cinematografico l’orrore celato ci conduce verso una tensione di tipo hitchcockiana in cui è più corretto parlare di terrore, in La zona dinteresse è la negazione stessa dello sguardo a risultare unazione violenta capace di condurre lo spettatore in quella zona grigia tipica dei burocrati nazisti.

In La zona d’interesse l’orrore della storia si apre in un mondo chiuso in se stesso che, tuttavia, impedisce allo spettatore di cadere in quel meccanismo anestetizzante dell’intrattenimento tipico del cinema di consumo.

 

Non è azzardato affermare che La zona d’interesse non sia un film sulla memoria ma su quei processi culturali e psicologici che portano l’essere umano a normalizzare gli orrori del mondo rendendolo, oggi, non  così diverso dagli inquilini di casa Hoss.


 Claudio Suriani Filmmaker

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 13 febbraio 2023

ULTIMA NOTTE A SOHO (2021) DI EDGAR WRIGHT - LEGAME TRA SOGNO E REALTA'


In Ultima notte a Soho
(2021) Edgar Wright lavora sull’universo sixties mirando  a far riemergere l’anima di un decennio che tanto ha dato alla cultura giovanile attraverso scelte di messa in scena e tematiche tipiche del cinema classico americano.   
Ultima notte a Soho è un’opera costruita sul rapporto tra sogno e realtà, caratteristica non solo dell’immagine filmica in sé ma anche di molte pellicole classiche e contemporanee, L’arte del sogno (Michel Gondry, 2016), Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999), Inception (Christofer Nolan, 2010), Io ti Salverò (Alfred Hitchcock, 1945) Sogni (Akira Kurosawa, 1990) e molte altre. Nonostante la dimensione onirica faccia parte dell’intima natura del cinema, Edgar Wright la inserisce in un contesto più ampio arrivando a toccare il cinema di Bob Fosse e il suo amore per il musical. L’Inghilterra degli anni 60 era un paese in cui la tradizione musicale  e i  movimenti giovanili erano tali da influenzare ancora oggi la cultura pop contemporanea - dalla beat generation, il movimento mod, i Teddy Boys fino al british-rock, con un impatto su ogni forma di comunicazione come l’editoria e la moda intese come mezzo espressivo e di appartenenza. In Ultima notte a Soho il concetto di moda è inserito in una rappresentazione del sogno efficace ma  non innovativa; possiamo cogliere il gusto per l’estetica retrò non solo a livello tematico ma anche nelle scelte formali: la fotografia gioca sullo scontro tra una realtà cupa e opprimente (dai colori scuri e decadenti) a una dimensione onirica caratterizzata dai colori vivi e spettacolari che tendono  a sparire quando il sogno si trasforma in incubo. 

 

Le inquadrature e i movimenti di macchina rimandano a un immaginario horror-thriller di stampo classico influenzato da opere come La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945), Vertigine (Otto Preminger, 1944) o Repulsione (Roman Polanski, 1965). Questo eccesso nostalgico mette in secondo piano una delle tematiche che potevano essere sviluppate in modo personale: la rappresentazione del quartiere di Soho e della sua storia. Ultima notte a Soho è un’opera che cerca di nascondere attraverso una messa in scena spettacolare non solo una proposta tematica ormai datata che ha rappresentato le basi per gran parte del cinema americano (autoriale e di genere) del secondo dopo guerra, ma pone allo spettatore un contrasto evidente tra forma e sostanza, contrasto che tende a ripresentarsi spesso negli ultimi anni specialmente nel cinema mainstream.

 

La mia conclusione è che se lo spettatore si rapporta a questo film come opera di puro intrattenimento riesce ad esserne coinvolto, ma se Wright mira a un posto di rilevo nel panorama cinematografico contemporaneo fallisce nel suo scopo: l’eccessiva nostalgia per la cultura sixties rende il film incapace di aprire nuove strade espressive oltre a manifestare limiti evidenti nella delineazione dei personaggi e nel distacco da un universo cinematografico ormai del tutto storicizzato.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

martedì 20 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - NANNY LA GOVERNANTE (1965) DI SETH HOLT - I capolavori della follia

 



Uno degli aspetti più interessanti di Nanny la governante ( Seth Holt, 1965) è la costruzione magistrale della tensione hitchcockiana: lo spettatore viene introdotto, attraverso una scrittura tipica del thriller anni '60, in un vortice di follia con un'accurata caratterizzazione dei personaggi e del contesto sociale di riferimento.
L'anima oscura di Bette Davis, già incontrata nel capolavoro di Robert Aldrich Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) emerge ancora una volta presentandoci un personaggio caratterizzato da una lucida follia e fortemente ispirato alla caratterizzazione del Norman Bates di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960).
L'indagine nei meandri di una psiche alienata porta con sé un ritmo narrativo capace di scoprire in ogni passaggio la natura profondamente perturbante di un'attrice diventata simbolo di un'America lontana dal sogno hollywoodiano. Uscito nel 1965, insieme a Repulsione (Roman Polanski, 1965) il film di Seth Holt si inserisce nello stesso filone ricalcandone le atmosfere.
 
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 Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 5 dicembre 2022

ELEPHANT (1989) DI ALAN CLARKE - Violenza metropolitana

 

Elephant mette in scena il puro atto di uccidere.

Attraverso l’omicidio tipicamente cinematografico, narrato in generi come il western o il gangster movie, Alan Clarke non ci racconta le storie dei personaggi o il contesto storico/sociale (in seguito verrà ipotizzato che si riferisse al conflitto nord irlandese) ma concentra il tutto sul nudo atto e non sulla volontà in quanto sia il carnefice che la vittima sono accomunati da una totale assenza di descrizione psicologico/sociale. 

 

Gli omicidi sono commessi in quartieri periferici di anonime cittadine, quasi a descrivere la morte nella sua natura anonima e priva di empatia; Alan Clarke mette in scena un totale di diciotto omicidi girati in piani sequenza privi di dialoghi. Ho sempre ritenuto che l’analisi di un film debba necessariamente partire dall’analisi della messa in immagine dell’ispirazione che anima l’opera e che gli altri elementi (come ad esempio la scrittura) siano ad essa funzionali. Elephant, nella sua natura di opera sperimentale sulla linea del New American Cinema, mette al centro la morte attraverso la ripetizione dello stesso modus operandi: l’assassino raggiunge la propria vittima, gli spara e alla fine si allontana indisturbato. Questa micro narrazione, priva di ogni apparente formalismo estetico, produce un intenso disagio nello spettatore ponendolo di fronte all’omicidio nudo e crudo.

 

 

Tuttavia la ripetizione di un qualunque schema narrativo, riconoscibile ed elaborabile, alla lunga risulta poco efficace e soprattutto privo di una forza espressiva sul lungo periodo; pur nel suo intento sperimentale, si apre ad un dialogo con numerose opere contemporanee a seconda del punto di vista critico che si vuole perseguire. Se analizziamo anche solo il titolo del film (che si rifà al famoso detto l’elefante nella stanza) notiamo come la tematica del problema evidente ma ignorato sia ricorrente in alcune delle opere contemporanee più importanti tra cui Il ritorno (Andrejv Zvjagincev, 2003) Jocker (Todd Phillips, 2019) L’odio (Mathieu Kassovitz, 1995) e 21 grammi (Alejandro González Iñárritu, 2003) solo per citarne alcune tra le più famose. 

 

La storia del cinema e della critica ha ormai chiarito in modo decisivo che un’opera vive di vita propria uscendo dalla linea tracciata dal suo autore, quindi anche le pellicole più innovative e minimaliste possono finire in una dinamica di apertura riuscendo ad influenzare alcune delle pellicole contemporanee più importanti. In questa prospettiva il caso più evidente è l’omonimo Elephant (Gus Van Sant, 2003, Palma d’oro a Cannes 2003). Un ulteriore pregio dell’opera di Clarke è che riesce a rendere il disagio della società nord irlandese (volendo percorrere questa interpretazione) senza scendere nel didascalico e nella facile retorica in quanto non esiste né partecipazione emotiva verso le vittime né comprensione razionale e neppure il rifiuto nei confronti dei carnefici in quanto gli attori non sono filmati ma spiati portandoli in una dinamica tipica del New American Cinema (si pensi all’opera News from home - Chantal Akerman, 1977). Anche la città stessa è spersonalizzata inibendo ogni forma di immedesimazione in quanto non esiste nulla attorno ai protagonisti delle sequenze che catturi l’occhio: tutto nasce e muore con lo sparo e la morte degli individui. Ciò che rende Elephant degno di attenzione è da una parte lo sforzo interpretativo a cui costringe lo spettatore e dall’altra la creazione di un senso aperto: proprio come l’elefante della stanza, che più lo ignori più crea danni irreparabili, Elephant costringe lo spettatore in una posizione attiva di interpretazione senza tuttavia arrivare mai ad una chiusura in un tutto certo e definitivo.

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Claudio Suriani Filmmaker

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