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giovedì 18 maggio 2023

LA REGINE DI CASETTA (2018) DI FRANCESCO FEI - "Parto domattina per la Casetta. Là c’è silenzio". Dino Campana

Il documentario nella sua storia ci è sempre stato proposto come un filone audiovisivo separato dal cinema, causa un approccio di tipo manualistico che a oggi ha perso ogni fondamento in quanto non solo il variegato universo sperimentale è andato ben oltre il cinema narrativo ma lo stesso racconto della realtà è diventato un tutt’uno con il cinema meainstrem a partire da opere come F come falso (Orson Welles, 1973) fino alla sua esplosione nel cinema horror.

 

 

 

 

Nonostante negli esempi citati la fusione tra realtà e finzione sia dichiarata è pur vero che ogni volta che nasce una nuova forma espressiva (di tipo narrativo o figurativo) essa diventa istantaneamente prassi, come se nel cinema il concetto di novità non potesse imporsi in modo duraturo. La Regina di Casetta vive di questa tensione interna: narra la vita di Casetta di Tiara, un piccolo borgo dell’alto Mugello destinato a quel fenomeno tipicamente italiano dello spopolamento dei piccoli borghi; Gregoria è l’unica adolescente e anche lei, con la sua famiglia, è destinata a lasciare Casetta per poter frequentare, da settembre, il liceo.

Attraverso un racconto fatto di gesti quotidiani e di una vita capace ancora di ruotare attorno ai cicli naturali della vita (come la raccolta delle castagne, la caccia al cinghiale o la neve d’inverno) un’opera come La Regina di Casetta riesce a rappresentare il cinema nella sua dimensione archeologica con la messa in scena del tempo e il cinema come archivio del mondo. Se in La Regina di Casetta appare fortissima l’influenza del cinema documentario di Werner Herzog, è pur vero che tale approccio è declinato in modo diverso; se l’intera opera dell’autore tedesco sembra percorrere due strade parallele (come fiction e documentario) Francesco Fei, nel desidero di  rendere in modo veritiero la vita della giovane protagonista e della sua piccola comunità, non riesce a cogliere la vita sul fatto (come il cinema russo anni venti ci ha insegnato) arrivando a fondere involontariamente realtà e finzione in quanto non solo tutti fingiamo davanti a un obbiettivo ma ogni decisione formale rappresenta, sempre, una scelta soggettiva dell’autore. Eppure cos’è che rende così affascinate quest’opera? E’ la messa in scena di un tempo ormai rivolto al declino.

 


 

Andrej Tarkovskij nel suo volume Scolpire il tempo (Ubulibri, a cura di Vittorio Nadai, Pag. 54) afferma che … per la prima volta nella storia dell'arte e per la prima volta nella storia della cultura, l'uomo trovò il mezzo per registrare direttamente il tempo. E contemporaneamente, trovò la possibilità di riprodurre a piacimento lo scorrere di questo tempo sullo schermo, di ripeterlo, di ritornare a esso. L'uomo ricevette così nelle proprie mani la matrice del tempo reale. Una volta visto e impresso sulla pellicola, da quel momento poté essere conservato a lungo, registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali e questa è secondo me, l'idea fondamentale del cinema e dell'arte cinematografica. Questa idea mi consente di pensare alla sua ricchezza di possibilità non sfruttate, al suo sconfinato futuro. Ed è par­tendo da essa che costruisco le mie ipotesi di lavoro.  

Attraverso la vicenda di Gregoria Francesco Fei realizza un’opera caratterizzata da temporalità conflittuali: ci narra un tempo presente in cui da una parte sopravvivono ritualità dal sapore pagano ma dall’altro è divenuto incapace di costruire una nuova storia per Gregoria e per la sua piccola comunità. Qui il fuoricampo della grande metropoli entra prepotentemente in gioco come elemento determinante sia per lo sviluppo narrativo che per il senso generale dell’opera.

 



La Regina di Casetta non è un documentario dal sapore antropologico (come erroneamente è stato definito) ma uno sguardo malinconico su una comunità destinata a scomparire portando con sé l’infinito bagaglio di culture e tradizioni centenarie…è come se Francesco Fei volesse rendere omaggio a questo piccolo ma importante borgo per l’opera di scrittori come Dino Campana e Sibilla Alemaro e per esser stato teatro di importanti lotte partigiane (come riportato nel volume Appuntamento a Casetta di Tiara – Serena Cinque, Michele Geroni, Sarnus editore) senza poter sfuggire a un sottile, ma profondo senso di malinconia per un mondo destinato a sparire per sempre.

 

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 Claudio Suriani Filmmaker

 

 

 

 

giovedì 11 maggio 2023

THE FRENCH DISPATCH OF THE LIBERTY, KANSAS EVENING SUN (2021)DI WES ANDERSON - STORIE DI UN GIORNALISMO ORMAI PERDUTO

The French Dispatch (titolo completo The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun presentato al festival di Cannes 2021 da Wes Anderson rappresenta un atto d’amore verso la Francia e la sua cultura della comunicazione. E’ispirato alla storica rivista New Yorker e alla sua influenza sul regista che oggi riesce a raccontarne i tratti più significativi e a trasporli in immagine. Il film si articola in diversi capitoli che narrano aspetti centrali della cultura francese contemporanea rielaborati in chiave quasi grottesca: dalla cucina vista come strumento di rivolta settantasettina fino alla rivisitazione dei manifesti studenteschi da parte di anziane giornaliste desiderose di tornare ai fasti della propria giovinezza.  

Questa struttura narrativa conserva un dialogo interno tra i capitoli definendone uno dei principali pregi in quanto pone al centro un aspetto considerato secondario: il The French Dispatch è l’inserto culturale del Liberty, Kansas Evening Sun a cui un giornale americano  decise di affidare un paese europeo come la Francia.

Parto da questo elemento apparentemente secondario perché pone al centro della discussione l’assenza di elementi culturali tipicamente statunitensi importati da diverse società europee … quasi  una velata critica all’assenza di una cultura propriamente americana, ipotesi che, se confermata, non solo denoterebbe una scarsa conoscenza di Anderson delle sottoculture tipicamente americane (sia cinematografiche che musicali) ma anche una critica non troppo velata al mito del giornalismo americano (a differenza di opere che invece lo esaltano come The Post - Steven Spielberg, 2017). La cultura francese emerge a livello tematico attraverso la forte influenza del cinema del Jean-Luc Godard sessantottino con opere come La cinese (1967) o Una storia americana (1966) e, in generale, dal lavoro del Gruppo Dziga Vertov.

 


Nonostante le influenze siano di altissimo livello la sensazione che lascia un film come French Dispatch è quella di un film autoreferenziale, come se Anderson abbia voluto raccontare non la storia di un importante giornale ma la sua storia personale attraverso l’influenza di questa rivista.

Se analizziamo il film da un punto di vista formale vediamo un’opera di grande impatto visivo: la costruzione dell’immagine è stratificata sia attraverso numerosi livelli di profondità di campo che di un’estetica vintage capace di richiamare gli anni narrati e le rispettive influenze cinematografiche citate in precedenza. Quindi un’opera visivamente complessa ma, al tempo stesso, accessibile al grande pubblico. Un ulteriore peculiarità di The French Dispatch, come accennato in precedenza, è il registro leggero della narrazione che arriva a sfiorare il grottesco, come se Wes Anderson, nella sua  personale ricerca desiderasse superare non solo la celebrazione del giornalismo americano ma anche il cinema sul giornalismo d’inchiesta (come Il caso Spotlight - Tom McCarthy, 2016 – o Tutti gli uomini del presidente - Alan J. Pakula, 1976) o un facile registro documentaristico.

 


 

Se la ricerca di un registro stilistico personale e una costruzione visiva strutturata su diversi livelli rappresentano punti forti di questo The French Dispatch è pur vero che affrontare il XX secolo attraverso la storia del giornalismo (una delle possibili chiavi di lettura sul mondo) andando incontro al grande pubblico rischia di imbattersi in una sterile operazione di intrattenimento … se pur di livello.

Nel volume Shoah, al di là del visibile (Alessandro Mazzanti, Paolo Simoni, Edizioni MAGMA, 2007) emerge come il racconto storico non si possa affidare a nessuna scelta formale specifica in quanto la stessa rappresenterà sempre il punto di vista soggettivo dell’autore e che solo un percorso visivo che metta in contrapposizione opere di diversa natura e con la storia contemporanea possa aprire una breccia di verità sugli argomenti narrati (visione sulla quale si basa L’Histoire(s) du Cinema - Jean-Luc Godard, 1988 -  e, se pur in modo diverso, l’intera opera di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi). Anche se l’intento di Anderson non era sicuramente realizzare un’opera dal valore veritativo sulla storia del giornalismo e degli anni settanta, è anche vero che viviamo tempi in cui è necessario ribadire con forza tutta la concettualità critica a nostra disposizione per poter interrogare attivamente la memoria storica anche guardando opere di indiscusso valore come The French Dispatch.

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 Claudio Suriani Filmmaker



giovedì 4 maggio 2023

SKINAMARINK (2022) DI KYLE EDWARD BALL - AI CONFINI DEL CINEMA

 

Nella storia del cinema un sentimento arcaico come la paura nasce dalla perdita di un orizzonte visivo riconoscibile ed elaborabile e sono pochi gli autori che nell’arco degli anni hanno saputo intraprendere un vero percorso di ricerca rivolto al terrore nella sua forma più pura.

Il cinema americano nasce da un profondo dualismo strutturale: una forte componente industriale (tipica del mondo hollywoodiano) che nel corso della sua storia ha influito fortemente sulle opere  dal punto di vista formale e narrativo (con importanti eccezioni) e un universo autoriale al di fuori degli onori hollywoodiani capace di portare avanti nuove forme espressive e, nel caso del cinema horror, di tornare a una componente arcaica del terrore rifiutando il facile orrore che ad oggi non ha più nulla da dire.

Skinamarink (2022) del regista canadese Kyle Edward Ball (ad esordio su lungometraggio) si è imposto come un’opera seminale per quella folta schiera di cineasti che, nell’epoca delle piattaforme streaming, cercano nel puro atto di filmare un’importante chiave espressiva.

 

 

Il film narra le vicende dei piccoli Kevin e Kaylee: una notte si svegliano e si accorgono che i genitori e le finestre di casa sono scomparsi … a dominare sono l’oscurità, schermi televisivi privi di segnale e un perenne stato di attesa. La nostra casa, luogo familiare per antonomasia, diventa il simbolo di un universo perturbante in cui la paura arcaica del buio è il fulcro narrativo intorno al quale ruota l’intera opera.

Secondo Schelling E’ detto unheimlich tutto ciò che potrebbe restare […] segreto, nascosto, e che è invece affiorato (Schelling, Filosofia della mitologia) e per Freud Il perturbante è quella sorta di spavento che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare (Sigmund Freud, Il perturbante, 1919). Seguendo questa linea interpretativa osserviamo in Skinamarink un doppio processo perturbante: alla perdita di familiarità della casa si unisce un’estetica che nulla ha a che fare con il cinema horror mainstream. Se consideriamo film come La casa (Sam Raimi, 1981) o Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974) opere cardine in cui è lo spazio abitativo a essere il fulcro narrativo notiamo un orrore manifesto e non un terrore atavico indotto da un perenne stato di attesa .. è come se Kyle Edward Ball avesse voluto realizzare la versione cinematografica di Aspettando Godot (Samuel Beckett, 1948-1849) caricandola di un’oscurità talmente pervasiva da ricordare la casa di Diane in Mulholland Drive (David Lynch, 2001) e… ancora lo spazio abitativo ritorna. 

 


 

Skinamarink è un’opera che affonda le proprie radici nel cinema underground di Cassandra Stark, nella forza sperimentale di Andy Wharol fino ai primi passi dell’horror found footage (come The Blair Witch Project di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez- del 1999 - opera seminale che diede vita alla saga di Paranormal Activity). E’ una premessa determinante per leggere i meccanismi interni di un’opera tanto affascinante quanto complessa: l’orrore, nel momento stesso in cui si manifesta, perde la sua forza creativa mentre il terrore nasce da istanti, brevi battute o semplici inquadrature capaci di far emergere l’idea che anima l’opera in questione ( come lo sguardo in macchina di Lars Thorwald in Real windows (La finestra sul cortile - Alfred Hitchcock, 1954). Allora l’idea che anima Skinamarink è la fusione tra uomo e fantasma. Il fantasma nelle arti visive è il simulacro, un prodotto che vive attraverso la sua assenza … quale arte se non il cinema lo può quindi rappresentare al meglio?


 

 Skinamarink è priva di primi (o primissimi) piani dei giovani protagonisti in quanto il primo piano definisce sia la psicologia che la fisicità dei personaggi ... determinano il loro essere qui e ora. Poi  c’è un secondo aspetto che amplifica la portata del fuori campo: lo schermo televisivo privo di segnale e/o non a fuoco in quanto l’assenza di un soggetto catalizzatore delle vicende priva i dispositivi del loro valore comunicativo.

Per concludere ritengo sia importante sottolineare quanto un’opera come Skinamarink rappresenti  la volontà di un giovane autore di sperimentare nuove strade espressive … un atto di rivincita contro l’omologazione delle piattaforme streaming e la perdita della memoria di cos’è il cinema e delle sue radici tecnico-espressive.

 

 

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 Claudio Suriani Filmmaker


Claudio Suriani Filmmaker

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