La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) ci trasporta a pieno titolo nel terzo cerchio dell’Inferno (Come nel già incontrato Picnic ad Hanging Rock l’immaginario dantesco riemerge in tutta la sua forza) in cui il cibo, elemento vitale per antonomasia, diventa non solo uno strumento di morte ma, attraverso un’opera divenuta un pilatro del cinema grottesco italiano (e forse mondiale) riesce a imporsi nella storia del cinema nonostante l’ostracismo della giuria del festival di Cannes del 1973 nel quale fu presentato.
In La grande abbuffata tutto si gioca sul corpo e sulla perdita di ogni possibile orizzonte di riferimento (persino quello del piacere) in quanto i protagonisti non arrivano mai a provare alcun tipo di soddisfazione … né sica né morale. Persino la morte viene vissuta con noia e indifferenza, proprio come nell’Inferno dantesco mangiare è una condanna autoinflitta che si racchiude nella frase divenuta celebre … se non mangi tu non puoi morire. Uno dei grandi meriti de La grande abbuffata (e dell’intera filmografia di Marco Ferreri) è quello di aver rivitalizzato una scena cinematografica come quella italiana in cui non solo la censura era ancora molto forte (lo sanno bene Ciprì e Maresco per Totò che visse due volte per aver realizzato il primo film vietato a tutti - film del 1998 - e Pier Paolo Pasolini per Teorema - del 1968 sequestrato direttamente dalla procura di Roma - solo per citare i casi più famosi) e di essersi imposto nella storia del cinema contemporaneo per la sua forza visionaria perché, come scrisse Gilles Jacobs, è un film Cinico, nichilista, disturbante, imprescindibile: un film moderno come il suo autore, osteggiato, censurato e sopravvissuto fino a divenire un classico. Un sorridente studio della fisiologia intestinale, una fiaba visionaria sulla società dei consumi, in tutta la sua oscenità, e sull'eccesso come arte.
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Claudio Suriani Filmmaker
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