Elenco blog personale

mercoledì 23 novembre 2022

AKIRA (1988) DI KATSUHIRO HOTOMO - La forza rivoluzionaria del cinema di animazione


  

Akira si è imposto nella storia del cinema d’animazione come un’opera iconica non solo per le tematiche legate alla modernità ma soprattutto per essere una pellicola carica di una forza rivoluzionaria capace di far deflagrare il canone ingombrante dell’animazione disneyana. Come ogni opera al limite dell’eversivo non riuscì ad imporsi nel panorama cinematografico italiano diventando un cult grazie all’home video e ai passaggi televisivi (celeberrima l’andata in onda in una puntata di Fuori Orario a cavallo tra il 1995 e il 1996 in occasione dei cento anni dalla nascita del cinema). Perché Akira conserva ancora oggi tratti profondamente innovativi e d’avanguardia? Il primo elemento da considerare è la tematica della disgregazione dello spazio urbano. La trama è la seguente: nel 1982 Tokyo viene distrutta da un’esplosione nucleare che dà vita alla Terza guerra mondiale.  

 

Con un salto temporale di 37 anni conosciamo i nostri protagonisti, una banda di motociclisti che si diverte a scorrazzare per le vie di Neo-Tokyo scontrandosi con bande rivali. Le vicende prenderanno una piega drammatica quando il governo preleverà Tetzuo (non un nome a caso) allo scopo di sottoporlo a terribili esperimenti. Da questa breve introduzione possiamo cogliere il legame con cult del cinema americano: 1997, Fuga da New York (John Carpenter, 1981), I guerrieri della notte (Walter Hill, 1979) e naturalmente il giapponese Tetzuo ( Shin’ya Tzukamoto, 1989). I primi due film mettono in scena uno spazio urbano in cui al concetto di polis si sostituisce uno spazio oppressivo, incapace di creare legami tra le persone che lo abitano (al punto che nel film di Carpenter la città di New York è divenuta un carcere a cielo aperto) mentre nel film di Tzukamoto lo spazio urbano perde il proprio valore guida a favore di una realtà cyberpunk alienante di natura kafkiana. Tra lo spazio urbano e la popolazione viene a crearsi una rottura insanabile che determina la nascita di una dimensione politica in cui la vita individuale e comunitaria nasce da un atto mortifero che dà vita non solo a Neo-Tokyo, spettro della vecchia città, ma soprattutto alla Terza guerra mondiale … la più grande paura del genere umano dal 1945 ad oggi. Secondo Enrico Ghezzi Akira è un’opera che riesce ad andare oltre l’animazione per poi tornare sui propri passi in modo del tutto peculiare; se ciò fosse vero, quale sarebbe allora l’elemento che caratterizza la pellicola di Otomo? Akira è un’opera sulla mutazione del concetto di storia e di “corpo umano” soggetto negli anni a pratiche politiche di diversa natura (dagli esperimenti di Josef Mengele fino a legislazioni che vanno dalla gestione dei flussi migratori, salute, psichiatria fino ad arrivare alla sessuologia – in questo caso è emblematico l’esempio di Diana J. Torres con le sue pratiche di porno-terrorismo come lotta alla gestione politica della sfera sessuale delle popolazioni).

Tornando ad Akira abbiamo introdotto il concetto di canone disneyano che si basa sul potere economico della casa di produzione americana capace di diventare l’asse attorno al quale ruota tutta l’animazione di successo. Negli ultimi quindici anni tuttavia la cultura cyberpunk si è imposta nella narrativa cinematografica in quanto portavoce di tematiche legate alla violenta crescita tecnologica e demografica in cui l’essere umano perde la propria capacità di autodeterminazione (ricordiamo tra i più importanti Ghost in the Shell (Kôkaku Kidôtai, 1995), Uomini e lupi (Hiroyuki Okiura , 1999) Memories (Koji Morimoto, 1995). Quando parliamo di crescita tecnologica, nel caso del Giappone, intendiamo soprattutto la bomba atomica. 

 

Gran parte del cinema popolare, ma anche dei fumetti e dei media di intrattenimento, non ha mai dimenticato gli ordigni di Hiroshima e Nagasaki al punto da saperli elaborare in forme espressive non solo di alto valore autoriale come Children of Hiroshima (1952) di Kaneto Shindo, Hiroshima (1953) di Hideo Sekigawa, Le campagne di Nagasaki (1949) di Takashi Nagai e Non dimentico la canzone di Nagasaki (Tomotaka Tasaka, 1952)fino ad opere di intrattenimento ma che hanno avuto la forza di imporsi nell’immaginario collettivo come la serie cinematografica su Godzilla (il primo film è del 1954 di Ishiro Honda). La mutazione dei corpi è una tematica storicamente legata alla sfera del nucleare ed è centrale anche in Akira; i protagonisti delle vicende, Tetzuo e Kaneda, rappresentano rispettivamente la mutazione e la sua negazione. Se il corpo di Tetzuo arriverà a rappresentare il fulcro della mutazione, Kaneda incarna la lotta per la conservazione del tratto antropomorfo, una sorta di rivolta al controllo della nuda carne da parte del potere precostituito incarnato dal personaggio del colonnello. Akira, come opera generatrice della trilogia di Tetzuo, porta avanti il concetto di post-umanesimo in cui appare evidente che il concetto di “potere sovrannaturale” esce dall’orbita della fantascienza popolare di stampo marveliano per esprimere elementi e pratiche di controllo della sfera biologica umana. 

In questa chiave, seguendo la linea di Enrico Ghezzi, vediamo come Akira si sottragga all’animazione in quanto la linea di demarcazione che divide la fantascienza dall’indagine sulla contemporaneità tende ad assottigliarsi in modo decisivo.

 

La struttura filosofica del film fin qui descritta si incastra alla perfezione con la riconoscibilità dei nostri protagonisti e delle loro vicende: le corse in moto ed in generale ciò che fanno è concreto non solo da un punto di vista narrativo ma anche come rilettura, in chiave cyberpunk, di un canone del cinema mondiale come il road movie (il pensiero corre direttamente a Easy Rider - Dennis Hopper, 1969). Akira diventa il punto di non ritorno dell’intera cinematografia d’animazione in quanto decostruisce in modo efficace la nostra capacità di immaginare il futuro attraverso immagini di stampo postmoderno.

  Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Intagram

Claudio Suriani Filmmaker 






























martedì 22 novembre 2022

GINGER E ROSA (2012) DI SALLY POTTER - La fuga dalla prigione terrestre


Il 4 ottobre del 1957 l’Unione Sovietica lanciò in orbita il satellite Sputnik (in italiano compagnuccio di strada); fu un evento decisivo per la contemporaneità per due motivi principali: il primo, di natura politica, è che diede vita alla corsa allo spazio (elemento determinante per l’inasprimento della guerra fredda) mentre il secondo, di ordine estetico, portò l’immaginario collettivo verso il superamento della prigione terrestre dando vita all’idea del mondo divenuto immagine

Analizzando questi due aspetti propedeutici al nostro percorso, notiamo come siano conseguenziali in quanto il conflitto tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti si combattè anche sul fronte della corsa agli armamenti nucleari e che la prospettiva di un’imminente catastrofe fece considerare l’abbandono del nostro pianeta come una via del tutto percorribile per la salvaguardia della specie. Per la prima volta l’essere umano viene privato del mondo generando un shock di ordine concettuale. Ginger e Rosa (Sally Potter, 2012) vive di queste dinamiche interne; sono amiche fin dall’infanzia e, passando attraverso diverse avventure tipiche degli anni dell’adolescenza, approdano all’attivismo politico rivolto al bando degli armamenti nucleari. Tuttavia il loro impegno le farà approdare verso orizzonti profondamente diversi: Rosa (Alice Englert) arriverà ad avere una relazione con il padre di Ginger che ne sarà traumatizzata (soprattutto quando la madre a tal riguardo tenterà il suicidio).

Il legame fra trauma storico e trauma individuale è tipico del cinema di genere del secondo dopoguerra; se nel giapponese Godzilla (Ishiro Honda, 1954) affrontava il trauma collettivo del bombardamento nucleare in chiave fantasy e se gli Stati Uniti affrontarono la lotta al nemico comunista attraverso l’applicazione di stringenti codici regolamentari, era chiaro in entrambi i casi che questi eventi si sarebbero imposte come cesure storiche irreversibili. Se il cinema americano cercò di elaborare questo doppio risvolto del trauma attraverso pellicole come Shutter Island (M. Scorsese, 2010) o Redacted (B. DePalma, 2007), Ginger e Rosa aggiunge elementi tipicamente britannici a questa riflessione. 

 Il primo riguarda le dinamiche familiari.

Ginger e Rosa sembra rifarsi a A Family Life (Ken Loach, 1971) in cui tali dinamiche sono inserite in un clima sociopolitico fortemente oscurantista ed oppressivo. La sola idea che la terra potesse realmente essere distrutta influenza in modo decisivo le vicende dell’opera; Ginger nel venire a conoscenza della relazione tra Rosa e il padre si rifugia in un attivismo acritico ormai incapace di scindere i piani del proprio dolore con conseguenze dirette sul linguaggio e sulla sua capacità riflessiva (come nella sequenza in cui Ginger, piangendo, perde la capacità di distinguere tra la propria lotta politica e la propria sofferenza).

 

Proprio come nei film di De Palma e Scorsese, l’elaborazione degli eventi storici è affidata al lavoro del singolo; proprio come molti sopravvissuti ad Auschwitz Ginger perde la capacità di raccontare poichè il linguaggio è una diretta conseguenza dell’elaborazione psichica del proprio vissuto e nel venir meno del padre e della sua amica d’infanzia (il proprio orizzonte di riferimento) viene meno il suo essere nel mondo. Tuttavia le tematiche di Ginger e Rosa non sono sostenute da una messa in scena ad esse coerente, essendo di stampo classico hollywoodiano, in cui il montaggio è celato. Il valore politico dell’immagine nasce nel cinema sovietico degli anni venti attraverso l’opera di autori/teorici come Sergej Ėjzenštejn e Dziga Vertov che lavorando rispettivamente sul montaggio e sullo sdoppiamento del punto di ripresa gettarono le basi per ciò che W. Benjamin definì la politicizzazione dell’arte. Ginger e Rosa trova nell’indagine psicologica della giovane protagonista e sul cinema come lotta politica un punto di indiscusso valore (sostenuta da una grandissima Elle Fanning); tuttavia Sally Potter non riesce a cogliere i tratti caratteristici della nostra più stretta contemporaneità in cui il cinema sta subendo un profondo cambiamento di ordine sia formale che concettuale proprio per la sua scelta incongruente. Nonostante ciò il film risulta meritevole di una visione e di una profonda riflessione.

Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Intagram

Claudio Suriani Filmmaker 

 

ISCRIVITI AL NOSTRO BLOG (CLICCA SU SEGUI) - Resterete aggiornati sulle prossime pubblicazioni.

I NOSTRI ARTICOLI

THE SUBSTANCE (2024) DI CORALIE FARGEAT. Un Freaks Show non convincente

       Continua l’indagine sulla mutazione dei corpi. Da Crimes of the Future (David Cronenberg, 2022) e il precedente Titane (Julia Duc...