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giovedì 8 dicembre 2022

THE BATMAN (2022) DI MATT REEVES - L’anima nera di Gotham City

 

Iniziamo da una considerazione generale: Batman è uno dei personaggi dei fumetti più sfruttati a livello cinematografico (il primo film è del lontano 1943 di Lambert Hillyer) ed è stato rielaborato in numerose chiavi interpretative fino al punto che Joker (Todd Phillips - 2019) è stato definito una riflessione sull’universo di Batman e non un film a sé privo di legami con l’universo di Gotham City. 



Data l’impossibilità di costruire un opera innovativa da un personaggio che non ha obiettivamente più nulla da dire è necessario indagare se il film di Matt Reeves riesce a farsi carico di interessanti peculiarità; il primo aspetto è la costruzione di un universo noir capace di allontanarsi dall’universo fiabesco del Batman di Tim Burton o dallo cinema hollywoodiano di Christopher Nolan. Nel film di Reeves ci sono echi del cinema di John Huston, Billy Wilder e Orson Welles contestualizzati in una contemporaneità in cui il rapporto uomo/schermo diventa un processo cardine di conoscenza del mondo (si consideri la sequenza iniziale di Blade Runner e il suo universo distopico). La natura noir di The Batman crea una Ghotam City profondamente oscura in puro stile espressionista; Reevees dimostra non solo di conoscere il cinema del passato ma di saperlo reinterpretare in chiave contemporanea fuggendo dal rischio di anacronismo spesso presente nel cinema odierno (si pensi a The artist - Michel Hazanavicius, 2011). The Batman è caratterizzato da un flusso di coscienza capace di rendere l’intera città di Gotham una proiezione dell’animo di Bruce Wayne e del suo senso di fallimento nei confronti di una missione degenerata in un desiderio di vendetta feroce e totalizzante. 
 

 
Il mondo oscuro di Gotham è la manifestazione diretta di un Bruce Wayne ormai privo di speranza ostaggio della sua identità segreta; Batman continua a lottare contro il crimine avendo compreso che non riuscirà mai a scalfire l’anima profonda di Gotham; questo elemento ci dà il segno di come il ruolo stesso della città all’interno del testo filmico risulti totalizzante nei confronti dei protagonisti (non solo di Bruce Wayne) dando all’intera opera un sapore politico in senso etimologico; un film che affronta il tema della polis e delle sue dinamiche interne. Non sono i personaggi a muovere gli eventi ma è la città stessa a vivere di vita propria rendendo gli stessi protagonisti schiavi di uno spazio cittadino privo di tensione verso il futuro.

Il tema della città è stato raccontato dal cinema sotto diverse chiavi come Manhattan (1979, di Woody Allen), Shadows (1959, di John Cassavetes), L.A. Confidential (1997,di Curtis Hanson, Los Angeles Plays Itself (2003, di Thom Andersen) Il Grande Lebowski, 1998, dei fratelli Coen e The Infinite Happiness (2015, diretto da Ila Bêka e Louise Lemoine) – solo per citare i più significativi. The Batman assimila l’immaginario di questi capolavori creando un universo dispotico profondamente radicato nella contemporaneità. 

 

L’eccessiva durata dell’opera (176 minuti) la pone in una doppia posizione: se la prima è l’inevitabile presenza di sequenze dal ritmo irregolare in cui l’anima del film tende a sparire a favore di esercizi di stile fini a se stessi (rischio presente in ogni opera eccessivamente lunga), dall’altra Reevees pare voler realizzare un opera epica grazie alla quale porre il sigillo finale alla vicenda di Bruce Waine; un testamento filmico carico di una spiritualità sofferta consapevole del fatto che la lotta di Batman è stata un fallimento è che ha ragion d’essere solo nell’idea della lotta perenne.

I personaggi dei fumetti non cercano la fine della propria storia; come Dylan Dog vivrà per sempre a Londra con Groucho, Batman è inscindibile dalla città di Gotham e dalla sua anima nera.

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Claudio Suriani Filmmaker













mercoledì 7 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - CROWN ZERO (2007) DI TAKASHI MIIKE - Dal manga di Hiroshi Takahashi


Ispirato al manga Crows di Hiroshi Takahashi Crows Zero è uno dei film più interessanti di Takashi Miike, autore conosciuto per la sua copiosa filmografia e meno per le sue grandi doti registiche. Crows Zero narra le vicende della Suzuran (un istituto superiore) e di Genji Takiya, figlio di un importante Yakuza di Tokyo, che si iscrive presso l’istituto con lo scopo di diventare il capo di tutte le bande giovanili della scuola. Nonostante sia un'opera caratterizzata da risse sanguinose e dall’elevazione della violenza come mezzo di affermazione sociale Crows Zero riesce a conservare una certa natura fumettistica che permette al film di non prendersi mai troppo sul serio; questo è un aspetto caratteristico del cinema di genere nipponico capace di portare avanti generi come l’horror estremo o la violenza giovanile attraverso uno stile autoironico riscontrabile nel cinema di Noboru Iguchi, Sion Sono e Yoshihiro Nishimura.


Genji Takiya
è il personaggio chiave attorno cui ruota l’intera narrazione; attraverso le sue gesta scopriamo un ambiente sociale caratterizzato da edifici distrutti e da adulti incapaci di incidere sugli eventi.

Crown Zero mette in scena una rottura generazionale caratterizzata da un codice d’onore tipicamente nipponico; in fondo è la Suzuran ad essere la vera protagonista del film in quanto non esiste uno sviluppo narrativo al di fuori di essa. In Crown Zero è la volontà di emergere di Genji a muovere l’intero corpus degli eventi senza sfociare in una fama di potere fine a se stessa; questo è un aspetto determinante perché l’opera di Miike si distacca da film come Gomorra (a cui è stato erroneamente paragonato) in quanto il film di Matteo Garrone è del tutto privo di ogni declinazione favolistica.

A differenza di opere marcatamente autoriali come Audition (1999) o Over your dead body (2014), Crown Zero resta un opera di intrattenimento senza tuttavia perdere il segno distintivo che da sempre contraddistingue il cinema di Takashi Miike.

 

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Claudio Suriani Filmmaker


PILLOLE DI CINEMA - L'IMMAGINE ALLO SPECCHIO (1976) DI INGMAR BERGMAN - Il mostro che ci divora.

 

 


Nella filmografia di Ingmar Bergman L’immagine allo specchio viene subito dopo Il flauto magico e Scene da un matrimonio; è un'opera che scava negli animi tormentati dei protagonisti preparando lo spettatore (e forse l'intera storia del cinema) a 
Fanny e Alexander (1982, opera che segnerà la fine della sua carriera). Se in L'immagine allo specchio (1961) Bergman lavora sulla forza simbolica dell'immagine speculare nel film in questione sembra concludere tale percorso di ricerca in quanto le vicende della protagonsta (che torna a vivere nella casa dei nonni, l'assenza del marito  e l'immagine di una casa totalmene vuota) diventano un confronto forzato con traumi del passato mai elaborati.
 
Inoltre il tentato stupro e l'incominicabilità con la figlia alimentano ulteriormente il senso di angoscia di Jenny (interpretata da un'immensa Liv Ullmann, attrice feticcio di Bergman); se da bambina la natura rassicurante dei legami famigliari le permise di tenere lontani da sè quei piccoli (o grandi) rancori presenti in ogni famiglia, in età adulta il suo inconscio riemerge in tutta la sua forza gettandola in uno stato di sofferenza da cui si emanciperà con grande fatica.
 
Jenny troverà la forza di guarire grazie un semplice gesto carico di significato: vide la nonna accarezzare il nonno, ormai morente: il quel momento comprese che la forza dell'amore è superiore alla stessa morte.

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Claudio Suriani Filmmaker
 
 
 


martedì 6 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - KUSO (2017) DI FLYING LOTUS - Esperimenti di cinema dadaista




 
 
Kuso è un interessante esperimento di cinema dadaista in cui si avvertono influenze che vanno dalle animazioni di Terry Gilliam fino ai Monty Python passando per un'ossessione compulsiva per la pop art. La visione di Kuso è  quanto di più lontano dalla logica borghese dell'intrattenimento ed è necessario per cogliere le innovazioni dell'industria cinematografica underground. La storia del cinema è piena di opere capaci di superare la logica della narrazione classica (la prima è sicuramente il Kinoglaz di Dziga Vertov); Kuso si impone come la versione disgustosamente grottesca di questa scuola cinematografica.
Kuso è influenzato dal cinema di David Lynch, David Cronemberg, Shin'ya Tsukamoto e il body horror grottesco di Society (Brian Yuzna, 1989) tutto passato all'interno di quel tritatutto che si chiama rete digitale. In conclusione, Flying Lotus è il Marcel Duchamp del cinema contemporaneo e Kuso è il suo urinatoio.

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Claudio Suriani Filmmaker

PILLOLE DI CINEMA - ACCATTONE (1961) DI PIER PAOLO PASOLINI - La fame dello Zanni

 
 
L'opera prima di Pier Paolo Pasolini mette in scena le storie mai raccontate del boom economico italiano: le periferie romane e la loro natura fortemente classista  sono lo scenario  per un sottoproletariato estromesso da ogni visione positiva per il futuro e per la stessa democrazia italiana che, con fatica, cercava di affrancarsi dalle dinamiche del ventennio fascista.
 
Nonostante il film sia affiancato al neorealismo se ne discosta sotto molti aspetti: il primo, di ordine cronoligico, è che Accattone e successivo al 1955 (anno in cui si ritiene che il neorealismo abbia terminato la sua spinta creativa) ma la più importante è l'influenza dell'arte figurativa messa  in scena attraverso tecniche registiche del cinema muto.

 Pasolini lavora sulla composizione dell'inquadratura considerata indissolubile dalle arti  del passato  in cui risuonano gli echi della pittura tre/quattrocentesca toscana che svilupperà ulteriormente in opere successive come Mamma Roma (1962), La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).

Inoltre a differenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) in cui le figure di Aldo Fabrizi  e di Anna Magnani catalizzarono l'immaginario dello spettatore (secondo la logica dello Star System hollywoodiano), in Accattone non esistono attori professionisti:  Franco Citti sarà per sempre Accattone in quanto non c'è separazione, di ordine professionale, tra lui e il personaggio.

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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 5 dicembre 2022

ELEPHANT (1989) DI ALAN CLARKE - Violenza metropolitana

 

Elephant mette in scena il puro atto di uccidere.

Attraverso l’omicidio tipicamente cinematografico, narrato in generi come il western o il gangster movie, Alan Clarke non ci racconta le storie dei personaggi o il contesto storico/sociale (in seguito verrà ipotizzato che si riferisse al conflitto nord irlandese) ma concentra il tutto sul nudo atto e non sulla volontà in quanto sia il carnefice che la vittima sono accomunati da una totale assenza di descrizione psicologico/sociale. 

 

Gli omicidi sono commessi in quartieri periferici di anonime cittadine, quasi a descrivere la morte nella sua natura anonima e priva di empatia; Alan Clarke mette in scena un totale di diciotto omicidi girati in piani sequenza privi di dialoghi. Ho sempre ritenuto che l’analisi di un film debba necessariamente partire dall’analisi della messa in immagine dell’ispirazione che anima l’opera e che gli altri elementi (come ad esempio la scrittura) siano ad essa funzionali. Elephant, nella sua natura di opera sperimentale sulla linea del New American Cinema, mette al centro la morte attraverso la ripetizione dello stesso modus operandi: l’assassino raggiunge la propria vittima, gli spara e alla fine si allontana indisturbato. Questa micro narrazione, priva di ogni apparente formalismo estetico, produce un intenso disagio nello spettatore ponendolo di fronte all’omicidio nudo e crudo.

 

 

Tuttavia la ripetizione di un qualunque schema narrativo, riconoscibile ed elaborabile, alla lunga risulta poco efficace e soprattutto privo di una forza espressiva sul lungo periodo; pur nel suo intento sperimentale, si apre ad un dialogo con numerose opere contemporanee a seconda del punto di vista critico che si vuole perseguire. Se analizziamo anche solo il titolo del film (che si rifà al famoso detto l’elefante nella stanza) notiamo come la tematica del problema evidente ma ignorato sia ricorrente in alcune delle opere contemporanee più importanti tra cui Il ritorno (Andrejv Zvjagincev, 2003) Jocker (Todd Phillips, 2019) L’odio (Mathieu Kassovitz, 1995) e 21 grammi (Alejandro González Iñárritu, 2003) solo per citarne alcune tra le più famose. 

 

La storia del cinema e della critica ha ormai chiarito in modo decisivo che un’opera vive di vita propria uscendo dalla linea tracciata dal suo autore, quindi anche le pellicole più innovative e minimaliste possono finire in una dinamica di apertura riuscendo ad influenzare alcune delle pellicole contemporanee più importanti. In questa prospettiva il caso più evidente è l’omonimo Elephant (Gus Van Sant, 2003, Palma d’oro a Cannes 2003). Un ulteriore pregio dell’opera di Clarke è che riesce a rendere il disagio della società nord irlandese (volendo percorrere questa interpretazione) senza scendere nel didascalico e nella facile retorica in quanto non esiste né partecipazione emotiva verso le vittime né comprensione razionale e neppure il rifiuto nei confronti dei carnefici in quanto gli attori non sono filmati ma spiati portandoli in una dinamica tipica del New American Cinema (si pensi all’opera News from home - Chantal Akerman, 1977). Anche la città stessa è spersonalizzata inibendo ogni forma di immedesimazione in quanto non esiste nulla attorno ai protagonisti delle sequenze che catturi l’occhio: tutto nasce e muore con lo sparo e la morte degli individui. Ciò che rende Elephant degno di attenzione è da una parte lo sforzo interpretativo a cui costringe lo spettatore e dall’altra la creazione di un senso aperto: proprio come l’elefante della stanza, che più lo ignori più crea danni irreparabili, Elephant costringe lo spettatore in una posizione attiva di interpretazione senza tuttavia arrivare mai ad una chiusura in un tutto certo e definitivo.

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Claudio Suriani Filmmaker

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