Iniziamo
da una considerazione generale: Batman è uno dei personaggi dei
fumetti più sfruttati a livello cinematografico (il primo film è del lontano 1943 di Lambert
Hillyer)
ed è stato rielaborato in numerose chiavi interpretative fino al
punto che Joker
(Todd
Phillips - 2019) è stato definito una riflessione sull’universo di
Batman e non un film a sé privo di legami con l’universo di Gotham
City.
Data l’impossibilità di costruire un opera innovativa da un
personaggio che non ha obiettivamente più nulla da dire è
necessario indagare se il film di Matt
Reevesriesce
a farsi carico di interessanti peculiarità; il primo aspetto è la
costruzione di un universo noir capace di allontanarsi dall’universo
fiabesco del Batman
di Tim Burton o dallo cinema hollywoodiano di Christopher Nolan. Nel
film di Reeves ci sono echi del cinema di John Huston, Billy Wilder e
Orson Welles contestualizzati in una contemporaneità in cui il
rapporto uomo/schermo
diventa
un processo cardine di conoscenza del mondo (si consideri la sequenza
iniziale di Blade
Runner
e il suo universo distopico). La natura noir di The
Batman
crea una Ghotam City profondamente
oscura in puro stile espressionista; Reevees dimostra non solo di
conoscere il cinema del passato ma di saperlo reinterpretare in
chiave contemporanea fuggendo dal rischio di anacronismo spesso
presente nel cinema odierno (si pensi a The
artist
- Michel
Hazanavicius, 2011).
The
Batman è
caratterizzato da un flusso di coscienza capace di rendere l’intera
città di Gotham una proiezione dell’animo di Bruce Wayne e del suo
senso di fallimento nei confronti di una missione degenerata in un
desiderio di vendetta feroce e totalizzante.
Il mondo oscuro di
Gotham è la manifestazione diretta di un Bruce Wayne ormai privo di
speranza ostaggio della sua identità segreta; Batman continua a
lottare contro il crimine avendo compreso che non riuscirà mai a
scalfire l’anima profonda di Gotham; questo elemento ci dà il
segno di come il ruolo stesso della città all’interno del testo
filmico risulti totalizzante nei confronti dei protagonisti (non solo
di Bruce Wayne) dando all’intera opera un sapore politico in senso
etimologico; un film che affronta il tema della polis
e
delle sue dinamiche interne. Non sono i personaggi a muovere gli
eventi ma è la città stessa a vivere di vita propria rendendo gli
stessi protagonisti schiavi di uno spazio cittadino privo di tensione
verso il futuro.
Il
tema della città è stato raccontato dal cinema sotto diverse chiavi
come Manhattan
(1979, di Woody Allen), Shadows
(1959, di John Cassavetes), L.A.
Confidential
(1997,di Curtis Hanson, Los
Angeles Plays Itself (2003, di Thom Andersen) Il
Grande Lebowski,
1998, dei fratelli Coen e The
Infinite Happiness
(2015, diretto da Ila Bêka e Louise Lemoine) – solo per citare i
più significativi. The
Batman assimila
l’immaginario di questi capolavori creando un universo dispotico
profondamente radicato nella contemporaneità.
L’eccessiva durata
dell’opera (176 minuti) la pone in una doppia posizione: se la
prima è l’inevitabile presenza di sequenze dal ritmo irregolare in
cui l’anima del film tende a sparire a favore di esercizi di stile
fini a se stessi (rischio presente in ogni opera eccessivamente
lunga), dall’altra Reevees pare voler realizzare un opera
epica grazie alla quale porre il sigillo
finale
alla vicenda di Bruce Waine; un testamento filmico carico di una
spiritualità sofferta consapevole del fatto che la lotta di Batman è
stata un fallimento è che ha ragion d’essere solo nell’idea
della lotta
perenne.
I
personaggi dei fumetti non cercano la fine della propria storia; come
Dylan Dog vivrà per sempre a Londra con Groucho, Batman è
inscindibile dalla città di Gotham
e dalla sua anima nera.
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Ispirato
al manga Crows
di Hiroshi Takahashi Crows
Zero è uno dei film
più interessanti di Takashi Miike, autore conosciuto per la sua
copiosa filmografia e meno per le sue grandi doti registiche.
Crows Zero narra le
vicende della Suzuran
(un istituto
superiore) e di Genji
Takiya, figlio di un
importante Yakuza di Tokyo, che si iscrive presso l’istituto con lo
scopo di diventare il capo di tutte le bande giovanili della scuola.
Nonostante sia un'opera caratterizzata da risse sanguinose e
dall’elevazione della violenza come mezzo di affermazione sociale
Crows Zero riesce
a conservare una certa natura fumettistica che permette al film di
non prendersi mai troppo sul serio; questo è un aspetto
caratteristico del cinema di genere nipponico capace di portare
avanti generi come l’horror estremo o la
violenza giovanile attraverso uno stile autoironico riscontrabile nel
cinema di Noboru Iguchi, Sion Sono e Yoshihiro Nishimura.
Genji
Takiya è il
personaggio chiave attorno cui ruota l’intera narrazione;
attraverso le sue gesta scopriamo un ambiente sociale caratterizzato
da edifici distrutti e da adulti incapaci di incidere sugli eventi.
Crown Zero
mette in scena una rottura generazionale caratterizzata da un codice
d’onore tipicamente nipponico; in fondo è la Suzuran ad essere la vera protagonista del film in quanto non esiste uno sviluppo
narrativo al di fuori di essa. In
Crown Zero
è la volontà di emergere di Genji a muovere
l’intero corpus degli eventi senza sfociare in una fama di potere
fine a se stessa; questo è un aspetto determinante perché l’opera
di Miike si distacca da film come Gomorra
(a cui è stato erroneamente paragonato) in quanto il film di Matteo
Garrone è del tutto privo di ogni declinazione favolistica.
A differenza di opere marcatamente autoriali come Audition (1999)
o Over your dead body (2014),
Crown Zero
resta un opera di intrattenimento senza tuttavia perdere il segno
distintivo che da sempre contraddistingue il cinema di Takashi Miike.
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Nella filmografia di Ingmar Bergman L’immagine allo specchio viene subito dopo Il flauto magico e Scene da un matrimonio; è un'opera che scava negli animi tormentati dei protagonisti preparando lo spettatore (e forse l'intera storia del cinema) a Fanny e Alexander (1982, opera che segnerà la fine della sua carriera).Se in L'immagine allo specchio (1961) Bergman lavora sulla forza simbolica dell'immagine speculare nel film in questione sembra concludere tale percorso di ricerca in quanto le vicende della protagonsta (che torna a vivere nella casa dei nonni, l'assenza del marito e l'immagine di una casa totalmene vuota) diventano un confronto forzato con traumi del passato mai elaborati.
Inoltre il tentato stupro e l'incominicabilità con la figlia alimentano ulteriormente il senso di
angoscia di Jenny (interpretata da un'immensa Liv Ullmann, attrice feticcio di Bergman); se da bambina la natura rassicurante dei legami famigliari le permise di tenere lontani da sè quei piccoli (o grandi) rancori presenti in ogni famiglia, in età adulta il suo inconscio riemerge in tutta la sua forza gettandola in uno stato di sofferenza da cui si emanciperà con grande fatica.
Jenny troverà la forza di guarire grazie un semplice gesto carico di significato: vide la nonna accarezzare il nonno, ormai morente: il quel momento comprese che la forza dell'amore è superiore alla stessa morte.
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Kuso è un interessante esperimento di cinema dadaista in cui si avvertono influenze che vanno dalle animazioni di Terry Gilliam fino ai Monty Python passando per un'ossessione compulsiva per la pop art. La visione di Kuso è quanto di più lontano dalla logica borghese dell'intrattenimento ed è necessario per cogliere le innovazioni dell'industria cinematografica underground. La storia del cinema è piena di opere capaci di superare la logica della narrazione classica (la prima è sicuramente il Kinoglaz di Dziga Vertov); Kuso si impone come la versione disgustosamente grottesca di questa scuola cinematografica.
Kuso è influenzato dal cinema di David Lynch, David Cronemberg, Shin'ya Tsukamoto e il body horror grottesco di Society (Brian Yuzna, 1989) tutto passato all'interno di quel tritatutto che si chiama rete digitale. In conclusione, Flying Lotus è il Marcel Duchamp del cinema contemporaneo e Kuso è il suo urinatoio.
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L'opera prima di Pier Paolo Pasolini mette in scena le storie mai raccontate del boom economico italiano: le periferie romane e la loro natura fortemente classista sono lo scenario per un sottoproletariato estromesso da ogni visione positiva per il futuro e per la stessa democrazia italiana che, con fatica, cercava di affrancarsi dalle dinamiche del ventennio fascista.
Nonostante il film sia affiancato al neorealismo se ne discosta sotto molti aspetti: il primo, di ordine cronoligico, è che Accattone e successivo al 1955 (anno in cui si ritiene che il neorealismo abbia terminato la sua spinta creativa) ma la più importante è l'influenza dell'arte figurativa messa in scena attraverso tecniche registiche del cinema muto.
Pasolini lavora sulla composizione dell'inquadratura considerata indissolubile dalle arti del passato in cui risuonano gli echi della pittura tre/quattrocentesca toscana che svilupperà ulteriormente in opere successive come Mamma Roma (1962), La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).
Inoltre a differenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) in cui le figure di Aldo Fabrizi e di Anna Magnani catalizzarono l'immaginario dello spettatore (secondo la logica dello Star System hollywoodiano), in Accattone non esistono attori professionisti: Franco Citti sarà per sempre Accattone in quanto non c'è separazione, di ordine professionale, tra lui e il personaggio.
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Attraverso
l’omicidio tipicamente cinematografico, narrato in generi come il
western o il gangster movie, Alan Clarke non ci racconta le storie
dei personaggi o il contesto storico/sociale (in seguito verrà
ipotizzato che si riferisse al conflitto nord irlandese) ma concentra
il tutto sul nudo atto
e non sulla volontà
in quanto sia il carnefice che la vittima sono accomunati da una
totale assenza di descrizione psicologico/sociale.
Gli
omicidi sono commessi in quartieri periferici di anonime cittadine,
quasi a descrivere la morte nella sua natura anonima e priva di
empatia; Alan Clarke mette in scena un totale di diciotto omicidi
girati in piani sequenza privi di dialoghi. Ho sempre ritenuto che
l’analisi di un film debba necessariamente partire dall’analisi
della messa in immagine
dell’ispirazione che anima l’opera e che gli altri elementi (come
ad esempio la scrittura) siano ad essa funzionali. Elephant,
nella sua natura di opera sperimentale sulla linea del New
American Cinema, mette
al centro la morte attraverso la ripetizione dello stesso modus
operandi: l’assassino raggiunge la propria vittima, gli spara e
alla fine si allontana indisturbato. Questa micro narrazione, priva
di ogni apparente
formalismo estetico, produce un intenso disagio nello spettatore
ponendolo di fronte all’omicidio nudo
e crudo.
Tuttavia la
ripetizione di un qualunque schema narrativo, riconoscibile ed
elaborabile, alla lunga risulta poco efficace e soprattutto privo di
una forza espressiva sul lungo periodo; purnel suo intento
sperimentale, si apre ad un dialogo con numerose opere contemporanee
a seconda del punto di vista critico che si vuole perseguire. Se
analizziamo anche solo il titolo del film (che si rifà al famoso
detto l’elefante
nella stanza) notiamo
come la tematica del problema evidente ma ignorato sia ricorrente in
alcune delle opere contemporanee più importanti tra cui Il
ritorno (Andrejv
Zvjagincev, 2003) Jocker
(Todd
Phillips, 2019) L’odio
(Mathieu Kassovitz, 1995) e 21
grammi (Alejandro
González Iñárritu, 2003) solo per citarne alcune tra le più
famose.
La
storia del cinema e della critica ha ormai chiarito in modo decisivo che un’opera vive di vita propria uscendo dalla
linea tracciata dal suo autore, quindi anche le pellicole più
innovative e minimaliste possono finire in una
dinamica di apertura riuscendo
ad influenzare alcune delle pellicole contemporanee più importanti.
In questa prospettiva il caso più evidente è l’omonimo Elephant
(Gus Van Sant, 2003,
Palma d’oro a Cannes 2003). Un ulteriore pregio dell’opera di
Clarke è che riesce a rendere il disagio della società nord
irlandese (volendo percorrere questa interpretazione) senza scendere
nel didascalico e nella facile retorica in quanto non esiste né
partecipazione emotiva verso le vittime né comprensione razionale e
neppure il rifiuto nei confronti dei carnefici in quanto gli attori non
sono filmati ma spiati portandoli in una dinamica tipica del New
American Cinema (si
pensi all’opera News
from home - Chantal
Akerman, 1977). Anche la
città stessa è spersonalizzata inibendo ogni forma di
immedesimazione in quanto non esiste nulla attorno ai protagonisti
delle sequenze che catturi l’occhio: tutto nasce e muore con lo
sparo e la morte degli individui.Ciò che rende Elephant
degno di attenzione è
da una parte lo sforzo interpretativo a cui costringe lo spettatore e
dall’altra la creazione di un senso aperto:
proprio come
l’elefante della stanza, che più lo ignori più crea danni
irreparabili, Elephant
costringe lo spettatore in una posizione attiva di interpretazione
senza tuttavia arrivare mai ad una chiusura in un tutto
certo e definitivo.
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