Elephant mette in scena il puro atto di uccidere.
Attraverso l’omicidio tipicamente cinematografico, narrato in generi come il western o il gangster movie, Alan Clarke non ci racconta le storie dei personaggi o il contesto storico/sociale (in seguito verrà ipotizzato che si riferisse al conflitto nord irlandese) ma concentra il tutto sul nudo atto e non sulla volontà in quanto sia il carnefice che la vittima sono accomunati da una totale assenza di descrizione psicologico/sociale.
Gli omicidi sono commessi in quartieri periferici di anonime cittadine, quasi a descrivere la morte nella sua natura anonima e priva di empatia; Alan Clarke mette in scena un totale di diciotto omicidi girati in piani sequenza privi di dialoghi. Ho sempre ritenuto che l’analisi di un film debba necessariamente partire dall’analisi della messa in immagine dell’ispirazione che anima l’opera e che gli altri elementi (come ad esempio la scrittura) siano ad essa funzionali. Elephant, nella sua natura di opera sperimentale sulla linea del New American Cinema, mette al centro la morte attraverso la ripetizione dello stesso modus operandi: l’assassino raggiunge la propria vittima, gli spara e alla fine si allontana indisturbato. Questa micro narrazione, priva di ogni apparente formalismo estetico, produce un intenso disagio nello spettatore ponendolo di fronte all’omicidio nudo e crudo.
Tuttavia la ripetizione di un qualunque schema narrativo, riconoscibile ed elaborabile, alla lunga risulta poco efficace e soprattutto privo di una forza espressiva sul lungo periodo; pur nel suo intento sperimentale, si apre ad un dialogo con numerose opere contemporanee a seconda del punto di vista critico che si vuole perseguire. Se analizziamo anche solo il titolo del film (che si rifà al famoso detto l’elefante nella stanza) notiamo come la tematica del problema evidente ma ignorato sia ricorrente in alcune delle opere contemporanee più importanti tra cui Il ritorno (Andrejv Zvjagincev, 2003) Jocker (Todd Phillips, 2019) L’odio (Mathieu Kassovitz, 1995) e 21 grammi (Alejandro González Iñárritu, 2003) solo per citarne alcune tra le più famose.
La storia del cinema e della critica ha ormai chiarito in modo decisivo che un’opera vive di vita propria uscendo dalla linea tracciata dal suo autore, quindi anche le pellicole più innovative e minimaliste possono finire in una dinamica di apertura riuscendo ad influenzare alcune delle pellicole contemporanee più importanti. In questa prospettiva il caso più evidente è l’omonimo Elephant (Gus Van Sant, 2003, Palma d’oro a Cannes 2003). Un ulteriore pregio dell’opera di Clarke è che riesce a rendere il disagio della società nord irlandese (volendo percorrere questa interpretazione) senza scendere nel didascalico e nella facile retorica in quanto non esiste né partecipazione emotiva verso le vittime né comprensione razionale e neppure il rifiuto nei confronti dei carnefici in quanto gli attori non sono filmati ma spiati portandoli in una dinamica tipica del New American Cinema (si pensi all’opera News from home - Chantal Akerman, 1977). Anche la città stessa è spersonalizzata inibendo ogni forma di immedesimazione in quanto non esiste nulla attorno ai protagonisti delle sequenze che catturi l’occhio: tutto nasce e muore con lo sparo e la morte degli individui. Ciò che rende Elephant degno di attenzione è da una parte lo sforzo interpretativo a cui costringe lo spettatore e dall’altra la creazione di un senso aperto: proprio come l’elefante della stanza, che più lo ignori più crea danni irreparabili, Elephant costringe lo spettatore in una posizione attiva di interpretazione senza tuttavia arrivare mai ad una chiusura in un tutto certo e definitivo.
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