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lunedì 27 maggio 2024

LA ZONA D’INTERESSE (2023) DI JONATHAN GLAZER – La normalizzazione degli orrori del mondo




La zona d’interesse (Jonathan Glazer, 2023) necessita di un’introduzione propedeutica.


La Shoah è un evento storico che s’impone da sé in quanto la sua elaborazione e memoria portò alle estreme conseguenze determinati aspetti della contemporaneità oggi ancora vivi che potremmo riassumere nella filosofia a cui Michel Foucault e in Italia Roberto Esposito e Giorgio Agamben diedero il nome di Biopolitica.

Questo allargamento della riflessione ci permette non solo di riattualizzare l’Olocausto (soprattutto a causa dei mutati rapporti di forza nel panorama geopolitico mondiale) ma anche di evitare una facile deriva retorica costantemente presente quando si affrontano queste tematiche. Come mettere in relazione la catastrofe del passato (non così remoto) con quelle di oggi?  Ci rivolgiamo al filosofo sloveno Slavoj Žižek e alla sua analisi. Žižek in una lunga video-intervista rilasciata a Enrico Ghezzi nella serie Parola (su una) data (una videocosa, per riprendere un termine caro al critico italiano) affronta il tema della catastrofe arrivando a distinguere La catastrofe visibile da quella invisibile, ponendo l’accento sulla seconda (citando come esempio Cernobyl) come elemento caratterizzante del mondo a venire in quando inelaborabile in immagine.

 

La zona d’interesse sembra prendere vita proprio da tale concetto e dall’assunto teorico di Claude Lanzmann in Shoah (Tascabili Bompiani, 2000): In un certo senso si può affermare che nessuno sia mai stato ad Auschwitz perché coloro che vi sono stati deportati e che sono morti subito, in realtà … non hanno fatto in tempo a sapere ciò che c’era.

Jonathan Glazer mette in scena la vita quotidiana della famiglia Hoss che vive in una casa a ridosso del campo di sterminio di Auschwitz, attribuendo un ruolo di primissimo piano al sonoro proveniente dal campo e alle immagini che lo stesso suggerisce allo spettatore o che (non) suggerisce agli inquilini di casa Hoss in cui si vive secondo una quotidianità ben strutturata tipica del Terzo Reich. Assistiamo a un processo di privazione deliberata della realtà, un fuori campo che sfocia in un’oppressione anestetizzante che, tuttavia, non arriverà mai alla coscienza degli inquilini di casa Hoss sottoforma di trauma.

E’ come se la Shoah non esistesse in quanto ogni elemento del contesto concentrazionario attua, o subisce, la privazione dello sguardo sulla camera a gas e il crematorio … un destino che accomunerà vittime e carnefici da due prospettive diametralmente diversei primi persero la vita mentre i secondi, la capacità di portare a coscienza l’orrore.

 



Negare lo sguardo significa relegare tali eventi al di fuori della storia rendendo tali traumi fuori da ogni possibilità elaborativa personale e/o storica. La zona di interesse era unarea di quaranta metri quadrati adiacente al perimento dei campi, una sorta di zona cuscinetto che doveva impedire ai cittadini delle zone abitate di entrarvi in contatto, in particolar modo con i prigionieri e in cui i protagonisti del film convergono le proprie attenzioni quotidiane come un orto e un giardino ben curato ...

Casa Hoss viene vissuta dai suoi inquilini come un paradiso come dimostra la sofferenza della Sg.ra Hoss alla notizia del trasferimento del marito. E’ un paradiso che tuttavia si basa sempre sul principio della selezione e che in La zona dinteresse ci appare come l’elemento chiave dell’intera pellicola. E’ come se in ogni inquadratura ci sia una sorta di lavoro interno al visibile capace di svilupparsi a diversi livelli: il primo è strettamente concettuale in quanto il paradiso di casa Hoss ci appare profondamente inquietante, il secondo è capace di lavorare sul sensibile rendendo questo sentimento perturbante, chiave per far travalicare il fuori campo nella dimensione del visibile. Azzarderei che Glazer non riesce ad avere un pieno controllo sugli effetti del fuori campo ma cerca di assecondarlo creando un’opera, nella sua alta drammaticità, satura di una libertà stilistica capace di dare un contributo innovativo alla tradizione cinematografica sulla Shoah.

Inoltre, se questa ha tra le sue tematiche la privazione (o selezione) dello sguardo, tale processo da sempre è stato convertito dal cinema in una separazione tra l’opera e la sala: a questo punto si impone una questione puramente cinematografica. Abbiamo visto in altri articoli come l’orrore perda efficacia nel momento del suo manifestarsiconcetto valido sia per il cinema horror sia per l’orrore di carattere storico. Tuttavia se nell’horror cinematografico l’orrore celato ci conduce verso una tensione di tipo hitchcockiana in cui è più corretto parlare di terrore, in La zona dinteresse è la negazione stessa dello sguardo a risultare unazione violenta capace di condurre lo spettatore in quella zona grigia tipica dei burocrati nazisti.

In La zona d’interesse l’orrore della storia si apre in un mondo chiuso in se stesso che, tuttavia, impedisce allo spettatore di cadere in quel meccanismo anestetizzante dell’intrattenimento tipico del cinema di consumo.

 

Non è azzardato affermare che La zona d’interesse non sia un film sulla memoria ma su quei processi culturali e psicologici che portano l’essere umano a normalizzare gli orrori del mondo rendendolo, oggi, non  così diverso dagli inquilini di casa Hoss.


 Claudio Suriani Filmmaker

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 8 dicembre 2023

C’E’ ANCORA DOMANI (2023) DI PAOLA CORTELLESI: SI IMPONE UNA RIFLESSIONE


Partiamo da una considerazione generale: ogni opera che dia adito a una discussione e a un confronto aperto arreca un contributo di valore alla comunità nell’epoca dell’
essere umano digitale, veloce, poco riflessiva (non solo al cinema) che reclama un incremento di crescita personale propria dei vecchi cineforum. Detto questo, corre l’obbligo di precisare che da sempre il lavoro di Cinepeep è orientato a proporre mezzi critici per analizzare un lavoro cinematografico a diversi livelli che possano generare giudizi di merito che, il più delle volte, viene confuso con il giudizio di gusto. Un’attenta analisi dell’opera in sé a stretto contatto con la contemporaneità ci consente di prendere le distanze dalla logica dell’intrattenimento ribadendo che l’esperienza dello spettatore cinematografico (non il cinema in sé) è dettata dal tempo presente … dal qui e ora.




 

Chiariti tali presupposti C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi, dimostra il potenziale (parola densa di significato) registico dell’artista romana. Al termine della visione ciò che appare evidente è non solo il desiderio di portare a compimento la propria idea di cinema (nel grigiume del cinema italiano contemporaneo – quanto meno delle opere di successo – è senz’altro positivo) ma anche omaggiare la grande stagione del cinema neorealista (consapevole?) anche attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio dell’Istituto Luce. Nonostante sia un’opera che dimostri un grande trasporto umano verso la condizione della donna nel nostro paese (mai cambiata in modo sostanziale) la nota di merito essenziale che desidero sottolineare non è tanto questa ma la ricerca personale che allontana l’ombra del marito Riccardo Milani dal ruolo simile a quello che Sergio Leone ebbe col Carlo Verdone degli esordi.




Ma esistono anche elementi di criticità.


Non posso affermare con certezza se sia da imputare alla Cortellesi o a imposizioni produttive tipiche del cinema italiano che ormai da anni, eccetto pochi casi (come la regista Alina Marazzi restando in ambito femminile) lavora contro la libertà stilistica (al contrario, del cinema orientale) quindi li metterò in evidenza sospendendo il giudizio.

Il primo aspetto è la colonna sonora: le musiche di Daniele Marchitelli (in arte Lele) sono in aperto contrasto con l’universo raccontato: un mondo fatto di violenza, di umiliazioni quotidiane ma anche di sofferenza e traumi inelaborati personali e collettivi… ricordiamo che siamo nell’immediato dopo guerra. La storia del cinema è carica di compositori che riuscivano a esprimere a pieno l’immaginario visivo dei registi per cui lavoravano (si pensi a Nino Rota per Federico Fellini o Angelo Badalamenti per David Lynch). Se l’intento di tale scelta era creare una sorta di shock nello spettatore non si è rivelata efficace in quanto nonostante la violenza subita da Delia sia quotidiana (al punto che anche il padre di Ivano sembra ribellarsi) Paola Cortellesi fa una scelta di campo chiara: mostrarla il meno possibile (in molte sequenze infatti è immaginata e non mostrata). Se l’inferno della protagonista emerge da una quotidianità divenuta ormai insopportabile ciò non consente alle musiche spensierate di Lele Marchitelli di creare quello shock estetico che (forse) la Cortellesi cercava (per comprendere meglio il concetto si pensi ad un film come Eraserhead: la mente che cancella – David Lynch, 1977 - e alla sua musica finale).

 

Questo è vale anche per le due sequenze di danza nel pieno della volgare violenza di Ivano.

Se un film come La vita é bella (Roberto Benigni, 1997) fu definito da Liliana Segre non realistico, nei confronti di C’è ancora domani vale lo stesso criterio: queste due sequenze rendono giustizia alle vittime di oggi? Inoltre, nel decidere di affrontare un tema drammaticamente attuale come la violenza sulle donne attraverso l’immaginario del neorealismo (scelta in partenza efficace) perché distaccarsi dai dettami estetici di una vera e propria scuola che così tanto ha dato al cinema italiano (e non solo) rappresentando a pieno la realtà per ciò che era?





Per concludere credo che le strade siano due: se da una parte un film come C’è ancora domani ci comunica che ogni scuola cinematografica è figlia del proprio tempo e cercare di replicarla a distanza di sessant’anni (neanche in modo del tutto fedele) possa risultare  un’operazione di maniera, dall’altra,  e torno al punto di partenza, una simile opera prima trasmette il desiderio (anche questo un termine saturo di significato) da parte di una giovane artista di mostrare al mondo le sue capacità (aspirazione del tutto legittima) cercando anche la propria identità registica … aspetto centrale per imporsi come autrice e non come regista mestierante.


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Claudio Suriani Filmmaker

 


martedì 5 dicembre 2023

KILLER OF THE FLOWER MOON (2023) DI MARTIN SCORSESE - ANCORA NULLA DI NUOVO

I grandi nomi del cinema mondiale sono portatori di grandi aspettative in quanto autori imprescindibili nella riflessione sul cinema. Possiamo fare un esempio paradigmatico. Nel caso di un autore come Martin Scorsese possiamo dar per scontata la sua maestria nella messa in scena e proporre una lettura di ampio respiro: un’opera come Killers of the Flower Moon (Martin Scorsese, 2023) diventa così il fine e non il mezzo di un’ampia riflessione perdendo sicuramente qualcosa di prezioso per la contemporaneità.



Andiamo per gradi: è stato messo in rilievo il legame di Killers of the Flower con le sue due opere precedenti, Silence (2016) e The Irishman (2019) al fine di rappresentare la violenza come una sorta di linguaggio universale facente parte della stessa natura umana assieme alla gestione del tempo e dello spazio attraverso un’ampia coralità di voci.

Nonostante il paragone sia del tutto legittimo, Killers of the Flower Moon con la sua enorme portata storica rischia di diventare autoreferenziale. Assodato che la struttura formale del cinema di Scorsese, a partire dalla scrittura, raramente presenta criticità ritengo che la domanda più interessante da porsi sia: attraverso la storia di Ernest e Lily cosa ci sta raccontando? Qual è il fuori campo? E, ampliando la portata del discorso, il cinema è un’arte narrativa o un’arte visiva? Cosa lo distingue dal racconto letterario?





Possiamo considerare valida l’obiezione per cui il cinema non sempre deve farsi portatore di principi morali o divenire uno strumento di lotta o utile a guidare le masse? Sembrerebbe vero per il cinema di Scorsese che sembra rispondere alla richiesta di intrattenimento se pur di qualità.

Questo è un concetto che spesso ritorna nel lavoro di Cinepeep: l’intrattenimento è figlio della società capitalistica, manca di quelle scelte formali capaci di suscitare una riflessione profonda … nel nostro caso la nascita degli Stati Uniti e la storia dei nativi americani. Inoltre uno dei mezzi più sottili, ma allo stesso tempo più efficaci per l’affermazione del potere storico e/o economico è proprio la capacità di “autocontestarsi” all’interno dei propri confini sia estetici che produttivi.

 

La critica a un sistema politico mossa da personaggi interni allo stesso diventa la forma più efficace della sua affermazione.

 

Killers of the Flower Moon è un esempio perfetto di come anche un intrattenimento di altissima qualità miri a nascondere le problematicità di un sistema che a causa dello sviluppo delle tecnologie informatiche sta radicalmente cambiando dall’interno (si pensi allo sciopero degli scrittori contro la scelta di affidarsi all’intelligenza artificiale o il proliferare di piattaforme digitali facendo perdere la centralità alla sala). Nonostante possa sembrare un aspetto del tutto secondario credo che sia di assoluta attualità in quanto ci mostra come il cinema storico, in un momento di grande rivoluzione estetico/tecnologia, non possa esimersi dall’inglobare nella sua proposta il fulcro centrale della nostra più stretta contemporaneità: la fusione tra eventi storici e un mezzo di comunicazione ormai cambiato dalle fondamenta al punto da essere considerato da alcuni obsoleto!!

Killers of the Flower Moon è uno splendido racconto su una fase decisiva della storia degli Stati Uniti carica della sapienza tecnica di un maestro come Martin Scorsese. Dal punto di vista di Cinepeep ciò che cerchiamo nel cinema e nell’audiovisivo in generale, è superare la logica anestetizzante dell’intrattenimento (se pur di qualità) per una riflessione sul ruolo delle immagini divenute ormai un’esperienza quotidiana molto diversa dall’epoca pre-rete.

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Claudio Suriani Filmmaker


sabato 25 novembre 2023

X-FILES: TELEVISIONE E BIOPOTERE




C’è ancora qualcosa da dire su una serie come X-Files, un’esperienza seriale a cui si sono ispirate tutte le indagini sulle angosce della contemporaneità? In questo articolo perlustreremo una delle tematiche più importanti dell’opera di Chris Carter: il legame tra la sfera biologica e il potere.

Se la struttura di X-Files risente di un evidente debito nei confronti di Twin Peaks (specialmente nelle prime due stagioni oltre che per la caratterizzazione del personaggio di Mulder del tutto simile a quella di Dale Cooper) per stessa ammissione di Carter dobbiamo dire che anche opere seriali come Kolchak: The Night Stalker (Universal Television 1974 – 1975) e soprattutto Ai confini della realtà (Rod Serling , 1959 – 1964) ebbero una forte influenza sul suo immaginario, riuscendo anche a evitare l’effetto nostalgia per una fantascienza ormai datata esaminando le paure legate ai meccanismi oscuri della politica (gli Stati Uniti nei primi anni novanta erano ancora alle prese con le conseguenze dello scandalo Watergate e della guerra in Vietnam) e a quel fenomeno che chiameremo ibridazione bio-tecnologica.


BIOPOTERE E IBRIDAZIONE BIOTECNOLOGICA


Computer, telefoni, televisori ma soprattutto manipolazione biologica: X-Files portò al grande pubblico il bios come strumento del potere rendendolo lo scopo primario delle dinamiche politiche attraverso fiale di DNA conservato in archivi federali o malattie indotte come il cancro di Scully e la diffusione del vaiolo, due esempi dell’incrocio tra bios e potere. 





Per Michel Foucault la Biopolitica è l’ambito del biopotere che ha lo scopo di gestire la vita del singolo e di intere popolazioni e in X-Files tale presupposto appare prepotentemente: episodi come Eve (1x11) o Paper Clip (3x02) sono una dichiarazione di intenti: porre al centro della riflessione non solo l’entrata della vita biologica nella tecnica ma anche l’intervento del potere politico (e spesso economico) nelle dinamiche biologiche dell’essere umano. Inoltre nell’episodio Paper Clip le macerie della storia emergono in tutta la loro forza. Paper Clip fu l’operazione con cui gli Stati Uniti d’America salvarono alcuni scienziati nazisti dal processo di Norimberga in cambio delle loro conoscenze scientifiche (uno dei più noti fu Wernher von Braun, il progettista delle bombe V2 che devastarono Londra). La storia ri-emerge creando un presente inafferrabile e definendo la natura stessa della ricerca della verità di Mulder: effimera ma efficace al tempo stesso. Ma se i legami tra X-Files e la riflessione biopolitica appaiono evidenti è centrale indagare il ruolo in questo processo dell’ibridazione bio-tecnologica nell’epoca della rete e i suoi effetti nella messa in scena televisiva.

Da un punto di vista puramente formale X-Files è divisa in due parti: nelle prime quattro stagioni l’immagine ci appare come un 4:3 tipico della televisione a tubo catodico mentre dalle successive stagioni entra in campo il 16:9: televisione e cinema iniziano a dialogare.


IL RUOLO DELLA RETE NEI MECCANISMI BIO-TECNOLIGICI


Un elemento che abbiamo incontrato nei precedenti articoli sulla serialità è il fenomeno denominato Binge Watching: la visione prolungata in numerosi episodi di un’opera seriale. E’ un fenomeno capace di diventare una vera e propria dipendenza arrivando a compromettere la salute psico-fisica nonchè la vita sociale ed economica di una persona. Nonostante sia un fenomeno aggravatosi durante la pandemia da Covid 19 affonda le sue radici nello sviluppo della banda larga e nella possibilità di avere a disposizione l’intero corpus degli episodi perdendo così il valore di evento della messa in onda delle singole puntate. La rete entra nella nostra sfera dell’immaginazione e agisce sulla nostra sfera critica:  nasce l’urgenza di un’analisi accurata del fenomeno.





In X-Files non solo la tecnologia informatica ha un ruolo centrale all’interno del racconto. Se pensiamo ai tre pistoleri solitari, al ruolo della cultura hacker e all’utilizzo della rete all’interno dell’corpus degli episodi come ad esempio Kill Switch (5x11) assistiamo alla descrizione proprio di quel processo di Ibridazione tecnologica e del suo legame con la sfera biologica come il congegno elettronico (un cip da computer) impiantato nelle donne rapite che causerà il cancro di Scully. Questo è un passaggio determinante: se da un punto di vista puramente narrativo la rimozione di tale congegno provoca il cancro allo scopo di preservare i misteri legati alla cospirazione, da un punto di vista più ampio ci mostra come un processo come l’ibridazione bio-tecnologia sia ormai irreversibile: basti pensare a un esperimento come l’interfaccia Brain computer, progetto dell’azienda Neuralink (di proprietà di Elon Musk) presentato in anteprima alla California Academy of Science che consentirebbe l’impianto di dispositivi nel cervello umano allo scopo di creare con strumenti Hi-tech il potenziamento del pensiero umano … risuona persino l’eco del progetto dei Super soldati di cui si parla nelle stagioni otto e nove. Se X-Files, attraverso il linguaggio televisivo, è divenuta una pietra miliare di tutte quelle opere che immaginarono e perlustrarono le ombre del futuro come Bladerunner nel cinema (Ridley Scott, 1982) o 1984 in letteratura (George Orwell, 1949) è altrettanto vero che se il processo di ibridazione bio-tecnologica fin qui descritto è divenuto parte della nostra quotidianità divenendo per questo poco visibile sottraendosi per questo al pensiero critico, opere come queste diventano essenziali per poter continuare a farlo. 


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Claudio Suriani Filmmaker




venerdì 22 settembre 2023

OPPENHEIMER (2023) DI CHRISTOPHER NOLAN - MINACCIA NUCLEARE ED INTRATTENIMENTO



Con il mese di settembre inizia una nuova stagione di Cinepeep e data l’incombenza dei maggiori festival del cinema europei (Venezia, Cannes e Berlino) e l’uscita di pellicole divenute veri e propri fenomeni mediatici ci apprestiamo ad indagare la natura delle opere che più stanno facendo discutere in questo periodo.

Il primo film in questione è Oppenheimer (Christopher Nolan, 2023).

Partiamo da considerazioni di ordine generale: in primis Christopher Nolan ad oggi è uno dei brand più influenti del cinema americano contemporaneo, capace di indirizzare lo sguardo dello spettatore cinematografico medio e riportarlo al cinema rafforzando il legame tra l’opera e la sala, luogo naturale per la sua fruizione.

Se consideriamo ciò un elemento di indiscusso valore (in quanto oggi il cinema rischia di subire una trasformazione epocale passando da un’esperienza comunitaria a pura esperienza di solitudine a causa del proliferare delle piattaforme streaming) un film come Oppenheimer si inserisce in un contesto storico in cui non solo la tematica del nucleare è diventata di grande attualità  a livello civile (l’incidente di Fukushima e le relative conseguenze) e militare (la guerra in Ucraina e la relativa minaccia nucleare) e si propone come un’opera carica di ridondante classicismo creando una frattura tra forma e sostanza.




Nel corso del lavoro di Cinepeep abbiamo indagato più volte il legame tra l’opera e il tempo, tra produzione e fruizione:  Oppenheimer appare come una sorta di capitolo finale di un percorso rivolto a scandagliare i misteri della fisica di Interstellar (2014) e Tenet (2020) in relativo racconto bellico di Dunkirk (2017) punto di congiunzione tra due mondi apparentemente distanti ma che, nel corso del XX secolo, hanno trovato una tragica comunione di intenti.

Il cinema di Christopher Nolan è privo di elementi innovativi proprio in virtù del suo essere profondamente hollywoodiano e, di conseguenza, incapace di innovare il linguaggio filmico fornendo a uno spettatore navigato il gusto amaro del già visto.

Data la rilevanza storica del tema trattato è necessario interrogarsi se attraverso le vicende di J. Robert Oppenheimer, Nolan abbia voluto prendere posizione sull’uso dell’energia nucleare e in caso affermativo se ci sia riuscito.

Io penso che il suo intento fosse questo…ma che non ci sia riuscito.

Il cinema ha affrontato il tema delle armi atomiche da diversi punti di vista: dal romanticismo di Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais, 1959) alla forza grottesca de Il dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964) fino a A prova di errore (Sidney Lumet, 1964 considerato a torto uno dei suoi film minori). La classicità dell’opera di Nolan non ha la forza di creare un filo conduttore con le opere citate in quanto l’assenza di una marca autoriale riconoscibile non fa emergere la posizione di Nolan rispetto agli eventi narrati e neppure sui rischi nucleari contemporanei facendo emergere dal film la totale assenza di sottotesti efficaci.

Se il cinema di Christopher Nolan può rientrare a pieno titolo nella categoria dell’intrattenimento (settore in cui ha dimostrato il meglio delle sue capacità registiche) è doveroso interrogarsi sul valore etico dell’opera in questione … specialmente su una tematica così drammaticamente attuale come la minaccia nucleare come arma di offesa.





Inoltre in Oppenheimer si articola una sorta di relativismo culturale attraverso la descrizione del nostro protagonista combattuto tra un acritico senso di responsabilità e la percezione dell’orrore che andava costruendo.

Se Hollywood rappresenta uno dei maggiori imperi economici dell’America, un film come Oppenheimer non ha la forza di opporsi alla sua politica atomica, una delle maggiori forme di potere, e fallisce il tentativo di elaborazione del trauma storico di Hiroshima e Nagasaki.

Il cinema di Christopher Nolan rappresenta il filo conduttore che lega potere economico e industria dell’intrattenimento e nel momento in cui si affrontano tematiche con forti implicazioni storico/filosofiche ed etiche si esce inevitabilmente da quell’ambito di cui è resta esemplare la trilogia su Batman (Batman Begins del 2005, Il cavaliere oscuro del 2012 e Il cavaliere oscuro; Il ritorno del 2012) che, decisamente, ci sembra più nelle sue corde.


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Claudio Suriani Filmmaker

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