Per analizzare un personaggio complesso come Elvis Presley attraverso l’occhio di Baz Luhrmann, regista conosciuto per il suo stile barocco al limite del ridondante, ritengo necessario partire da un presupposto di ordine generale: parlare di Elvis Presley vuol dire parlare del XX secolo e di quell’America che ormai aveva lasciato alle proprie spalle il secondo conflitto mondiale ma che si ritrovò a combattere contro il nemico interno della segregazione razziale.
Gli anni 50 furono un periodo storico ricco di contraddizioni ma anche saturo di una forza creativa i cui frutti si sentono ancora oggi in tutto il mondo. Tuttavia l’opera di Luhrmann ci descrive ciò che Guy Debord definì La società dello spettacolo. Ricorro alle linee guida di quest’importantissima opera filosofia in quanto la sua parabola rappresenta in modo determinante quel processo di mercificazione tipico della società contemporanea che ha come unico scopo la propria autolegittimazione.
Elvis è un film in linea con lo stile registico di Luhrmann: fin dall’inizio cogliamo il filo rosso che lo collega a pellicole come Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996), Moulin Rouge! (2001) o Il grande Gatsby (2013) tuttavia, andando oltre l’analisi delle scelte formali di messa in scena, emergono diversi elementi dell’opera di Debord come la separazione delle immagini dalla vita, concetto presente nel capitolo La divisione perfetta. Quando Debord afferma che Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli non solo chiarisce quanto dietro fenomeni della portata di Elvis Presley ci siano strutture economico-produttive capaci di sovrastare la forza creativa dell’artista di Menphis, ma arriva a definire i processi di autolegittimazione del mondo dello spettacolo capaci di influenzare la nostra più stretta vita politica ( e in Italia gli esempi non mancano…).
Il film sembra essere consapevole di tutto ciò in quanto cerca di andare oltre il seminato della narrazione classica; tuttavia dal punto di vista formale la tendenza ad aggiungere anziché ridurre fa correre al regista rischi di ordine strutturale e il più evidente è il ricalcare eccessivamente eventi trascurabili. Nella sequenza della prima esibizione di Elvis il pubblico femminile ha una reazione di eccitazione al limite dell’isterismo (in rete si trova la registrazione originale del concerto) che non può che strappare una risata allo spettatore. Nel momento in cui Debord afferma che lo spettacolo è una visione del mondo che si è oggettivata, sia la musica che il cinema smettono di parlarci del mondo e di farci aprire ad esso, per costruire un meccanismo autoreferenziale in cui emergono in modo decisivo i dettami del sistema economico capitalista. Questo aspetto coglie in pieno la parabola di Elvis Presley che da autentico animale da palcoscenico diventò prima un mediocre attore hollywoodiamo per finire nella lunghissima serie di esibizioni all’l' International Hotel di Las Vegas. Lo spettacolo diventa, al tempo stesso, il mezzo e il fine di se stesso. Una prima obiezione che si potrebbe portare è che il film di Luhrmann ci mostra non solo la forza creativa di Elvis ma anche il suo declino come artista e come uomo. Anche in questo caso ci viene incontro Debord ponendo al centro il concetto di feticismo della merce: in ogni forma espressiva il messaggio portante cambia attraverso il sistema economico sul quale è basata l’intera società che lo produce arrivando, nel capitalismo ad un feticcio.
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Claudio Suriani Filmmaker
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