Da sempre cariche di desiderio, le immagini cinematografiche hanno il potere di stimolare le pulsioni più inaccessibili generando tra gli altri, due effetti ancora oggi determinanti. Nei primi anni del novecento il cinema fu definito un’arte pornografica per via dello sguardo dello spettatore ritenuto non contemplativo (tipico delle arti classiche) ma feticistico, mentre altrove stava acquisendo un profondo valore politico grazie al lavoro di registi/teorici come Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn. Emerge in ogni caso la capacità di parlare sia al singolo che alle masse alimentando la dimensione del desiderio (di natura erotica, sociopolitica o altro). Persona (Ingmar Bergman, 1966) narra la vicenda dell’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ulmann) e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson): la prima è colta da una profonda crisi che la trascinerà in uno stato di mutismo mentre la seconda la assisterà prima in clinica, poi in una casa al mare dove le due donne si recheranno per far ritrovare alla Vogler la serenità perduta. Tra loro nasce subito una forte intesa che culminerà la sera del primo giorno in cui Alma, in un inarrestabile flusso di coscienza, le racconta l’esperienza di un'orgia sulla spiaggia con persone a lei sconosciute.
Se consideriamo questa sequenza come uno dei cardini dell’intera pellicola vediamo come Bergman non cada nel facile meccanismo del flashback affidando alla parola il valore erotico degli eventi narrati. Il desiderio di raccontare di Alma tuttavia contrasta con il silenzio di Elisabeth creando una tensione carica di un erotismo non appagato in quanto Elisabeth non offre alcuna reazione ai suoi racconti. E’ una sequenza in cui emergono le dinamiche del mito (si pensi alle Erinni o a Edipo) e dell’opera shakespeariana in cui si evince che non esiste erotismo privo di tragedia. Persona è un’opera non solo sulla tensione erotica tra le protagoniste ma anche sull’incomunicabilità. Considerando l’assunto teorico di Christian Metz secondo cui il cinema è un mezzo di espressione e non di comunicazione, il crescente contrasto che viene a crearsi tra Alma ed Elisabeth arriva a rappresentare il conflitto tra un linguaggio autoreferenziale (Alma) e l’incapacità di saper corrispondere agli eventi del mondo (Elisabeth di fronte all’immagine del monaco in fiamme si smarrisce per sempre). Questo conflitto interno deflagra attraverso un atto traumatico (la sequenza dell’acqua bollente): è un’ azione di rottura attraverso cui vengono meno i processi di identificazione tipici del cinema narrativo portando l’opera verso la tragica seconda parte. Alma spaventa Elisabeth, pur riuscendo a farla parlare e ottiene come risultato l’inibizione della pulsione erotica descritta conducendole verso un finale che le allontanerà del tutto. Tuttavia, nell’istante stesso in cui Elisabeth pronuncia quelle poche parole emerge la forza veritativa dell’immagine cinematografica: un istante, allo stesso tempo folgorante e sfuggente, capace di sottrarsi al ferreo controllo della messa in scena autoriale esattamente come una pellicola che si brucia all’improvviso durante la proiezione. Un ulteriore aspetto determinante è il rapporto simbiotico che si viene a creare tra personaggio e strumento cinematografico. Bergman lavora sulla rimozione dell’idea di spettacolo scarnificando a tal proposito lo stesso dispositivo tecnico: immagine proiettata sottoposta all’impermanenza del mondo.
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