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lunedì 5 dicembre 2022

ELEPHANT (1989) DI ALAN CLARKE - Violenza metropolitana

 

Elephant mette in scena il puro atto di uccidere.

Attraverso l’omicidio tipicamente cinematografico, narrato in generi come il western o il gangster movie, Alan Clarke non ci racconta le storie dei personaggi o il contesto storico/sociale (in seguito verrà ipotizzato che si riferisse al conflitto nord irlandese) ma concentra il tutto sul nudo atto e non sulla volontà in quanto sia il carnefice che la vittima sono accomunati da una totale assenza di descrizione psicologico/sociale. 

 

Gli omicidi sono commessi in quartieri periferici di anonime cittadine, quasi a descrivere la morte nella sua natura anonima e priva di empatia; Alan Clarke mette in scena un totale di diciotto omicidi girati in piani sequenza privi di dialoghi. Ho sempre ritenuto che l’analisi di un film debba necessariamente partire dall’analisi della messa in immagine dell’ispirazione che anima l’opera e che gli altri elementi (come ad esempio la scrittura) siano ad essa funzionali. Elephant, nella sua natura di opera sperimentale sulla linea del New American Cinema, mette al centro la morte attraverso la ripetizione dello stesso modus operandi: l’assassino raggiunge la propria vittima, gli spara e alla fine si allontana indisturbato. Questa micro narrazione, priva di ogni apparente formalismo estetico, produce un intenso disagio nello spettatore ponendolo di fronte all’omicidio nudo e crudo.

 

 

Tuttavia la ripetizione di un qualunque schema narrativo, riconoscibile ed elaborabile, alla lunga risulta poco efficace e soprattutto privo di una forza espressiva sul lungo periodo; pur nel suo intento sperimentale, si apre ad un dialogo con numerose opere contemporanee a seconda del punto di vista critico che si vuole perseguire. Se analizziamo anche solo il titolo del film (che si rifà al famoso detto l’elefante nella stanza) notiamo come la tematica del problema evidente ma ignorato sia ricorrente in alcune delle opere contemporanee più importanti tra cui Il ritorno (Andrejv Zvjagincev, 2003) Jocker (Todd Phillips, 2019) L’odio (Mathieu Kassovitz, 1995) e 21 grammi (Alejandro González Iñárritu, 2003) solo per citarne alcune tra le più famose. 

 

La storia del cinema e della critica ha ormai chiarito in modo decisivo che un’opera vive di vita propria uscendo dalla linea tracciata dal suo autore, quindi anche le pellicole più innovative e minimaliste possono finire in una dinamica di apertura riuscendo ad influenzare alcune delle pellicole contemporanee più importanti. In questa prospettiva il caso più evidente è l’omonimo Elephant (Gus Van Sant, 2003, Palma d’oro a Cannes 2003). Un ulteriore pregio dell’opera di Clarke è che riesce a rendere il disagio della società nord irlandese (volendo percorrere questa interpretazione) senza scendere nel didascalico e nella facile retorica in quanto non esiste né partecipazione emotiva verso le vittime né comprensione razionale e neppure il rifiuto nei confronti dei carnefici in quanto gli attori non sono filmati ma spiati portandoli in una dinamica tipica del New American Cinema (si pensi all’opera News from home - Chantal Akerman, 1977). Anche la città stessa è spersonalizzata inibendo ogni forma di immedesimazione in quanto non esiste nulla attorno ai protagonisti delle sequenze che catturi l’occhio: tutto nasce e muore con lo sparo e la morte degli individui. Ciò che rende Elephant degno di attenzione è da una parte lo sforzo interpretativo a cui costringe lo spettatore e dall’altra la creazione di un senso aperto: proprio come l’elefante della stanza, che più lo ignori più crea danni irreparabili, Elephant costringe lo spettatore in una posizione attiva di interpretazione senza tuttavia arrivare mai ad una chiusura in un tutto certo e definitivo.

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Claudio Suriani Filmmaker

domenica 4 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - LA PIANISTA (2001) di MICHAEL HANEKE - Il lato oscuro dell'arte

 


Uno dei tratti caratteristici del film di M. Haneke è la deflagrazione della retorica sull'arte come mezzo di emancipazione; la grande tradizione classica legata al pianoforte non basta ad Erika a trasformare i propri traumi e le frustrazioni della sua vita in ambito sociale e famigliare. L'uscita dai meccanismi demagogici del lieto fine permette a La pianista di indagare quella parte dell'animo umano inconfessabile e profondamente solitaria. La pianista è, al tempo stesso, un gioco al massacro e un incredibile esercizio di stile: il connubio tra due elementi apparentemente opposti sta in una messa in scena classica e priva di scelte stilistiche forzate. Haneke con La pianista sviluppa ulteriormente un idea già incontrata in Funny Game (1997): tutto ruota intorno all'animo tormentato dei personaggi che sono, al tempo stesso, vittime e carnefici di loro stessi.

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Claudio Suriani Filmmaker

 

PILLOLE DI CINEMA - PALCOSCENICO (1937) di GREGORY LA CAVA - I sogni infranti di Broadway

 

Palcoscenico è uno degli esempi classici di commedia drammatica. Il soggetto è tratto da una pièce teatrale di Edna Ferber e George S. Kaufman sulla quale La Cava intervenne in modo decisivo creando il personaggio di Jean Maitland per affidarlo ad un indimenticabile Ginger Rogers. La Cava lascia ai propri attori libertà di improvvisazione per poterne sfruttarne al massimo le capacità recitative. Katharine Hepburn non è la sola diva presente nel film; tra le ragazze del pensionato pieno di giovani promesse del teatro (e forse del cinema) troviamo anche Lucille Ball (già attiva con registi del calibro di Frank Capra e John Ford)  e Andrea Leeds (già interprete di opere come Ambizione di Howard Hawks e Richard Rosson del 1936 e Nel mondo della luna   di William A. Seiter del 1936).

La Cava sfodera una regia magistrale grazie alla gestione delle scene corali in cui gli attori entrano ed escono dallo schermo con una delicata sincronia creando numerosi sviluppi narrativi all'interno della stessa inquadratura; inoltre i movimenti di macchina non solo erano innovativi per il cinema hollywoodiamo dell'epoca ma ancora oggi risultano efficaci e fanno di La Cava uno dei registi classici più sottovalutati di tutta la storia del cinema. 

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Claudio Suriani Filmmaker

 

24 HOUR PARTY PEOPLE (2002) DI MICHAEL WINTERBOTTON) - La scelta di Tony

Per capire bene la nostra storia partiamo da una data: 4 giugno 1976. In 24 hour party people di Michael Winterbottom se ne parla all'inizio: il protagonista Tony Wilson (Steve Coogan) voce narrante, racconta di quella serata in cui suonarono per la prima volta a Manchester, al Lesser Free Trade Hall, i Sex Pistols facendola coincidere con la data dell'inizio del Manchester sound, anche perché tra i pochi presenti al concerto ci sono alcuni dei protagonisti della scena musicale mancuniana degli anni a venire. 
 





Siamo quasi all'esplosione del punk, la ventata fresca che porta queste nuove band è un toccasana per i giovani inglesi stanchi di suoni triti e ritriti, dei lunghi tecnicismi, dei pantaloni a zampa, di capelloni e barbe lunghe. Arrivano i punks che riportano tutto all'essenziale e al minimo impegno nel saper e nel voler suonare... e tutto cambia. Non voglio fare il radicale come Tim Warren che sostiene che il r'n'r è morto nel '67 ucciso da Sgt.Pepper's, lo so, che il punk c'era già negli Stati Uniti, lo so delle garage band americane, dei Stooges e degli MC5, dei Velvet Underground e dei New York Dolls, dei Ramones e delle altre band newyorkesi del giro CBGB's e Max's Kansas City, ma è in Inghilterra che nascono le prime fanzines, nasce un (non) movimento e persino un modo di ballare.
Nella colonna sonora del film sono presenti appena tre classici del primo punk inglese, ci sono naturalmente i Sex Pistols con Anarchy in the Uk, ci sono i Clash con Janie Jones e i Buzzcocks (prima band punk di Manchester) con Ever fallen in love (with someone you shouldn't've) tutte band che Tony Wilson passa nel suo programma musicale televisivo. 
 
 
 
Poi decide che la sponsorizzazione televisiva non basta e si dà anche alla produzione e distribuzione delle nuove band di Manchester facendo nascere, insieme ad Alan Erasmus, la Factory Records (un omaggio a Warhol?) l'etichetta che cambierà...o devierà la storia della musica pop. Entrerà nel gioco come produttore anche Martin Hannett (nella sua lapide giganteggia la frase “produttore e creatore del Manchester sound”, per far capire che personaggio abbiamo di fronte) che il suo metodo di lavoro poco convenzionale di sperimentatore incallito e il suo amore per l'eroina ne fanno un tipo non proprio facile da gestire. La sua genialità e il suo atteggiamento da padre padrone dentro lo studio di registrazione lo porteranno ad essere odiato da alcuni musicisti, in alcuni casi pretenderà persino di essere accreditato come scrittore e compositore dei brani (e meno male che Wilson non ingaggiò...o non ci riusci'...gli Smiths ed i Fall, ve lo immaginate che casino sarebbe successo tra Hannett, Morrissey e Mark E. Smith?).
Qui lo possiamo sentire nel lavoro fatto con i Joy Division...e con Transmission e la sua famosa linea di basso martellante e ripetitiva, la batteria secca e veloce (la firma di Hannett) uno dei capisaldi di tutto il post punk, poi She's lost control sempre con il basso che guida tutto, le batterie con ritmi meccanici sovrapposte, la bellissima Atmosphere con quel ritmo tribale e i sintetizzatori con sonorità scure per poi aprirsi a suoni celestiali mentre la voce profonda di Ian Curtis canta non andartene in silenzio, non andartene ... quello che avrei voluto dirgli il 18 maggio del 1980 prima che decidesse di lasciare questa disgraziata terra...e infine Love will tear us apart con la struttura da normale (perfect) rock song dove il giro oramai inconfondibile di tastiera la fa da padrone. L'altra band del primo giro Factory presente nella colonna sonora sono i Durutti Column, qui con Otis, brano guidato dall'arpeggio di chitarra di Vini Reilly che insieme agli inserti di voce quasi in lontananza rendono l'atmosfera del brano rilassata e ultraterrena ... molto bella.
 

 
 

Poi tutto cambia. Ian Curtis muore ed i Joy Division diventeranno i New Order, faranno ballare tutto il mondo, venderanno milioni di dischi e apriranno la strada a una nuova scena (Manchester) di band come gli Happy Mondays di quei flashati dei fratelli Shaun e Paul Ryder. Nella pellicola si dà ampio spazio alle musiche e alle scorribande grottesche e divertenti dei fratelli Ryder, la loro musica è un cocktail di dance e funky bianco tutto shackerato con il post punk e servito ad una festa sballatissima. La festa sarebbe potuta esserci all'Hacendia (Fac 51) anche se li' è in tutti gli altri club aperti in quel periodo i giovani preferivano l'ecstasy all'alcool. La cultura del club, con l'esplosione dell'house e dell'acid house e il ruolo principale del dj sarà la nuova moda nei locali di Manchester, prima, e di tutto il mondo, poi.  Bella la scena finale dell'ultima serata dell'Hacendia, mentre il dj suona Hallelujah degli Happy Mondays in versione club mix (la dance anni '90 come sarebbe dovuta essere) Tony Wilson incita i giovani a saccheggiare tutta la strumentazione prima di lasciare il locale e non può non venire in mente il blackout di New York tra il 13 ed il 14 luglio del 1977, quando centinaia di ragazzi assaltarono i negozi di elettronica e rubarono mixer e giradischi che non avrebbero mai potuto permettersi. Si dice che la futura scena hip hop newyorkese nacque quella notte.

Martin Hannett morirà di infarto a soli 42 anni il 18 aprile del 1991 e la Factory chiuderà per fallimento nel 1992. E proprio in quegli anni inizierà in Inghilterra quel mega imbroglio del Britpop.

Ma si può dire che la popular music alla fine è sempre stata tutta una grande truffa e i Sex Pistols lo avevano capito bene.

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Massimo Fiore

 

IL FILM RITIRATO ... Frágil al Torino Film Festival e il caso Pedro Henrique....

 

Ritirato all'ultimo Torino Film Festival dallo stesso regista, Frágil è un film che cerca di rappresentare la libertà individuale attraverso uno stile di vita trasgressivo... L'inerzia del regista applicata durante il Torino Film Festival, dimostra tutta l'ingiustificata esaltazione di un personaggio totalmente convinto di avere un innato talento. Stringendo, Frágil è un prodotto underground che non aggiunge nulla né fa scalpore. Una regia eterogenea fine a sé stessa, che indispone quanto la futile protesta perpetrata dallo stesso Pedro Henrique. 

 


La protesta è il sale della democrazia. Pedro Henrique è tutto, fuorché l'ultimo baluardo di un progressismo che oramai non esiste più. La protesta contro la norma anti-rave attuata dal governo Meloni risulta vana, futile, svilendo completamente l'efficacia.

Più che una dimostranza, una pessima esibizione ed una totale mancanza di rispetto, verso una manifestazione composta da gente che lavora quasi ininterrottamente. Il caso Pedro Henrique.. ca va sans dire .....

Detto ciò, sotto il film ritirato dal TFF. ( Cliccare su "Guarda su Youtube")

 

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Alessio Giuffrida


sabato 3 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - HEIMA; SIGUR ROS - Dalla meravigliosa terra d'Islanda

 
 
La turnè del 2006 dei Sigur Rós fu seguita dal regista canadese Dean DeBlois (conosciuto soprattutto per il suo cinema di animazione) e da tale collaborazione nacque Heima, uno dei documentari musicali più interessanti degli ultimi anni.
  
In questa serie di concerti in madre patria Dean DeBlois riesce a fondere a pieno il sound della band con la natura islandese caratterizzata da un gioco di luci talmente espressivo capace di dare all'opera un valore fortemente cinematografico. La natura psichedelicha del sound  dei Sigur Rós si sposa a pieno con lo spazio naturale nordico in cui i lunghi periodi di luce (e di buio) creano un atmosfera fuori dal tempo ed è per questo che la scuola cinematografica scandinava è, storicamente, una delle più importanti. 
 
Heima un opera dal valore contemplativo; è un percorso audiovisivo in cui il post/rock dei Sigur Rós arriva ad esprimere una laica spiritualità.

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Claudio Suriani Filmmaker
 
 

venerdì 2 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - TETSUO II; BODY HAMMER - Gregor Samsa in chiave cyberpunk

 
 
 
Il secondo capitolo della saga di Tetsuo apporta cambiamenti decisivi all'interno del tessuto narrativo: Tsukamoto approfondisce la natura action dell'opera pur restando all'interno di un immaginario post-industriale caratteristico del Giappone del XX secolo. Questa trasformazione appare uniforme se consideriamo la saga  un'opera unica e non tre film a sé stanti; questa uniformità possiamo riscontrarla anche attraverso un montaggio frenetico che ben rappresenta non solo la società post-industriale ma, in generale, il ritmo interno delle metropoli.
Tetsuo II; Body Hammer è uno di quei film che se non lo si considera all'interno dell'estetica del suo autore, caratterizzata da un body horror di stampo cyberpunk, si rischia di non comprenderne a pieno il suo indiscusso valore in quanto il rapporto uomo-macchina si apre ad un desiderio di umanizzazione che non troverà speranza; è il perfetto punto di congiunzione tra una società post-industriale disumanizzante  e il desiderio umano di trovare, all'interno della stessa, una nuova condizione umana.

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Claudio Suriani Filmmaker

OCCHIALI NERI (2022) DI DARIO ARGENTO - Il declino di un grande maestro.

Un autore cinematografico si differenzia dalla figura del regista mestierante grazie alla presenza di un estetica riconoscibile capace di influenzare in modo decisivo la storia del cinema e l’immaginario visivo; tuttavia, quando ci si affida a clishè di genere stereotipati con l’intento di realizzare il film che tutti si aspettano ecco che nasce opere come Occhiali neri.
 

 
 
Per chi ama il cinema e cerca di approfondirlo con un occhio critico capace di oltrepassare il mero giudizio di gusto Occhiali neri non può che rappresentare un profondo dolore; dolore nel vedere un regista dell’importanza di Dario Argento ormai stanco, privo di ogni desiderio creativo e capace di affidarsi a sentieri già percorsi allo scopo di portare a casa il risultato. Occhiali neri è del tutto privo di una struttura narrativa credibile e ci presenta personaggi sprovvisti della più minima caratterizzazione psicologica; se consideriamo il personaggio del serial killer (elemento cardine in ogni thriller che si rispetti) Dario Argento non ci fornisce alcun elemento né di carattere psicologico né di carattere storico/sociale (a differenza di opere cult come Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti, Psycho e Halloween o opere contemporanee come La casa di Jack, The gangster, the cop, the devil, Lady vendetta, Seven o Saw; l’enigmista). 
 
 
 
Il cinema horror senza una sceneggiatura accurata rivolta ad un indagine dell’animo dei protagonisti non solo risulta stucchevole ma rischia persino di cadere nel ridicolo; quando emerge il movente da parte dell’assassino non solo non ho potuto fare a meno di ridere ma mi sono interrogato sul perché proseguire nella visione. Tuttavia l’approssimazione non riguarda solo la scrittura: il film è caratterizzato da una messa in scena del tutto insignificante, sequenze di dubbio gusto con dialoghi approssimativi con, per di più, grossolani errori di regia (come lo scavalcamento di campo nella sequenza della morte della poliziotta). Se è vero che ogni opera una volta conclusa vive di vita propria è anche vero che, proprio per tale peculiarità, non solo dialoga apertamente con i capolavori del genere che porta avanti ma si inserisce nel contesto storico/sociale in cui viene prodotta; se film come Non aprite quella porta o Psycho rappresentano appieno la morte del sogno americano data dallo scandalo Watergate e la nascita dell’orrore viscerale a causa della scoperta del caso di Ed Gein, un film come Occhiali neri si inserisce in un contesto come quello italiano del tutto privo di eventi di rottura di tale portata ed è anche per questo che presto cadrà nel dimenticatoio insieme a quasi la totalità delle produzioni RAI CINEMA.
 
 
Un ulteriore elemento che caratterizza il film è un citazionismo del tutto puerile che va da L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962) a Il gatto a nove code dello stesso Dario Argento (1971); se nel capolavoro di Antonioni l’eclisse si manifestava come l’eclisse dei sentimenti e di una disumanizzazione dei rapporti umani in una società che si avviava verso il boom economico, la sequenza iniziale di Occhiali neri, in cui c’è una vera eclissi, non solo appare scollegata con il resto delle vicende narrate ma riesce a dare all’intera opera un profondo senso di pretenziosità in quanto questa chiave interpretativa non viene minimamente approfondita. Occhiali neri è un film del tutto evitabile perché getta fango sulla carriera di un autore importante del nostro cinema e impedisce al cinema indipendente di imporsi come alternativa al cinema meainstream. 
 
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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 1 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - TWIN PEAKS: FUOCO CAMMINA CON ME (1992) DI DAVID LYNCH - L'inconscio della provincia americana

 

Fuoco cammina con me rappresenta un atto di rivolta contro i meccanismi produttivi della televisione americana nonchè una vetta altissima di cinema sperimentale, un’indagine sull'inconscio umano e sul ruolo della nostra parte demoniaca nelle dinamiche quotidiane. Quali sono i meccanismi della nostra psiche? Lynch ci propone la sua lucida analisi  nella quale la parte ironica che animava la serie non trova più spazio a favore di un rapporto dialogico tra morte e bellezza, oscurità e luce, nani e giganti, amore e violenza.

Fuoco Cammina Con Me rifiuta la luce sia a livello visivo sia a livello concettuale;  Lynch sfrutta al massimo la forza dell'immagine filmica attraverso un accurata composizione dell'inquadratura satura di una teatralità fortemente espressiva (elemento ricorrente della sua filmografia) ed una colonna sonora in cui il perturbante arriva a travalicare l'immagine stessa.

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Claudio Suriani Filmmaker

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