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venerdì 22 settembre 2023

OPPENHEIMER (2023) DI CHRISTOPHER NOLAN - MINACCIA NUCLEARE ED INTRATTENIMENTO



Con il mese di settembre inizia una nuova stagione di Cinepeep e data l’incombenza dei maggiori festival del cinema europei (Venezia, Cannes e Berlino) e l’uscita di pellicole divenute veri e propri fenomeni mediatici ci apprestiamo ad indagare la natura delle opere che più stanno facendo discutere in questo periodo.

Il primo film in questione è Oppenheimer (Christopher Nolan, 2023).

Partiamo da considerazioni di ordine generale: in primis Christopher Nolan ad oggi è uno dei brand più influenti del cinema americano contemporaneo, capace di indirizzare lo sguardo dello spettatore cinematografico medio e riportarlo al cinema rafforzando il legame tra l’opera e la sala, luogo naturale per la sua fruizione.

Se consideriamo ciò un elemento di indiscusso valore (in quanto oggi il cinema rischia di subire una trasformazione epocale passando da un’esperienza comunitaria a pura esperienza di solitudine a causa del proliferare delle piattaforme streaming) un film come Oppenheimer si inserisce in un contesto storico in cui non solo la tematica del nucleare è diventata di grande attualità  a livello civile (l’incidente di Fukushima e le relative conseguenze) e militare (la guerra in Ucraina e la relativa minaccia nucleare) e si propone come un’opera carica di ridondante classicismo creando una frattura tra forma e sostanza.




Nel corso del lavoro di Cinepeep abbiamo indagato più volte il legame tra l’opera e il tempo, tra produzione e fruizione:  Oppenheimer appare come una sorta di capitolo finale di un percorso rivolto a scandagliare i misteri della fisica di Interstellar (2014) e Tenet (2020) in relativo racconto bellico di Dunkirk (2017) punto di congiunzione tra due mondi apparentemente distanti ma che, nel corso del XX secolo, hanno trovato una tragica comunione di intenti.

Il cinema di Christopher Nolan è privo di elementi innovativi proprio in virtù del suo essere profondamente hollywoodiano e, di conseguenza, incapace di innovare il linguaggio filmico fornendo a uno spettatore navigato il gusto amaro del già visto.

Data la rilevanza storica del tema trattato è necessario interrogarsi se attraverso le vicende di J. Robert Oppenheimer, Nolan abbia voluto prendere posizione sull’uso dell’energia nucleare e in caso affermativo se ci sia riuscito.

Io penso che il suo intento fosse questo…ma che non ci sia riuscito.

Il cinema ha affrontato il tema delle armi atomiche da diversi punti di vista: dal romanticismo di Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais, 1959) alla forza grottesca de Il dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964) fino a A prova di errore (Sidney Lumet, 1964 considerato a torto uno dei suoi film minori). La classicità dell’opera di Nolan non ha la forza di creare un filo conduttore con le opere citate in quanto l’assenza di una marca autoriale riconoscibile non fa emergere la posizione di Nolan rispetto agli eventi narrati e neppure sui rischi nucleari contemporanei facendo emergere dal film la totale assenza di sottotesti efficaci.

Se il cinema di Christopher Nolan può rientrare a pieno titolo nella categoria dell’intrattenimento (settore in cui ha dimostrato il meglio delle sue capacità registiche) è doveroso interrogarsi sul valore etico dell’opera in questione … specialmente su una tematica così drammaticamente attuale come la minaccia nucleare come arma di offesa.





Inoltre in Oppenheimer si articola una sorta di relativismo culturale attraverso la descrizione del nostro protagonista combattuto tra un acritico senso di responsabilità e la percezione dell’orrore che andava costruendo.

Se Hollywood rappresenta uno dei maggiori imperi economici dell’America, un film come Oppenheimer non ha la forza di opporsi alla sua politica atomica, una delle maggiori forme di potere, e fallisce il tentativo di elaborazione del trauma storico di Hiroshima e Nagasaki.

Il cinema di Christopher Nolan rappresenta il filo conduttore che lega potere economico e industria dell’intrattenimento e nel momento in cui si affrontano tematiche con forti implicazioni storico/filosofiche ed etiche si esce inevitabilmente da quell’ambito di cui è resta esemplare la trilogia su Batman (Batman Begins del 2005, Il cavaliere oscuro del 2012 e Il cavaliere oscuro; Il ritorno del 2012) che, decisamente, ci sembra più nelle sue corde.


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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 27 luglio 2023

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO - In che direzione sta andando il cinema hollywoodiano?

L’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones ci pone di fronte diversi interrogativi. In primo luogo perché si continui a portare avanti le vicende di un personaggio che ha caratterizzato il cinema d’intrattenimento degli anni ottanta ma che oggi risulta estraneo alle dinamiche del cinema contemporaneo. Da sempre le opere seriali (cinematografiche e televisive) soffrono l’eccessivo protrarsi di saghe nel momento in cui superano una canonica trilogia, nel caso del cinema, o un determinato numero di episodi nel caso della televisione; nel cinema hollywoodiano (di cui Steven Spielberg è il massimo rappresentante contemporaneo) appare evidente che l’obiettivo di investire su un brand di sicuro richiamo tenda a mettere in subordine il tema cardine del nostro discorso: un personaggio come Indiana Jones, oggi, ha ancora la forza di creare nuovi mondi




Se uno dei pregi della trilogia originaria si trova nella scrittura e conferisce ai film la forza narrativa delle grandi opere d’avventura (come Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain o l’intera bibliografia di Jules Verne) qui James Mangold si affida a una regia che mette in scena sequenze d’azione con inseguimenti in puro stile Fast & Furious e che nei momenti cruciali rischia di cadere in scelte formali sensazionalistiche facendo perdere di forza alla sua struttura narrativa, il découpage classico cede il posto a un montaggio frenetico tradendo la stessa idea di cinema dell’autore della saga. E’ difficile credere che Steven Spielberg si sia lasciato sfuggire il controllo su uno dei suoi personaggi più rappresentativi…E’ evidente che questa perdita di cura nella scrittura danneggi allo stesso tempo il potere visionario del cinema nonché il personaggio di Indiana Jones. Il cinema crea immagini-simbolo: se l’Indiana Jones anni ottanta era l’emblema di un cinema d’intrattenimento capace di creare mondi attraverso uno stile di messa in scena narrativo tipicamente hollywoodiano, Indiana Jones e il quadrante del destino soffre di una mancanza di chiarezza di intenti. 




Se nell’incipit de Il trionfo della volontà (Leni Riefenstahl, 1935) Leni Riefenstahl non narra il viaggio in aereo di Hitler ma la superiorità del Führer sul proprio popolo, i primi tre capitoli della saga ci riportano al cinema di Frank Capra per la vittoria del modello culturale americano, al grande Western di John Ford per la rappresentazione del Gran Canyon e della Monument Valley (in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)). Indiana Jones e il quadrante del destino è privo di sottotesti credibili in quanto la lotta ai nazisti non solo ha il sapore amaro del già visto ma appare come una scelta scontata verso la quale gli spettatori possono facilmente immedesimarsi. Inoltre il nazismo in quest’ultimo capitolo è rappresentato attraverso un falso storico che necessita di essere chiarito: il personaggio di Jürgen Voller, che desidera tornare indietro nel tempo per uccidere Hitler e invertire il corso della seconda guerra mondiale, si pone contro uno dei fondamenti su cui si basava l’intero nazionalsocialismo. Il Führer incarnava la prassi politica del Terzo Reich: ciò significava non solo che la parola di Hitler diventava direttamente legge dello stato ma l’intera struttura di potere (legislativo e militare) erano incarnate nella persona di Hitler e ogni nazista era pienamente cosciente di ciò. Quindi arriviamo alla domanda iniziale: in che modo il cinema può tornare a creare nuovi mondi? In che modo lo spettatore può rivivere il dolce smarrimento del cinema delle origini? La forza identitaria del western di John Ford o il terrore viscerale delle origini dell’horror? Nonostante sia un tema complesso che merita una riflessione apposita è necessario partire dall’augurio che in ogni caso possa tornare a investire sulla creazione di nuove storie ridando anche centralità alla sala come esperienza cinematografica nella sua interezza 

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Claudio Suriani Filmmaker



giovedì 18 maggio 2023

LA REGINE DI CASETTA (2018) DI FRANCESCO FEI - "Parto domattina per la Casetta. Là c’è silenzio". Dino Campana

Il documentario nella sua storia ci è sempre stato proposto come un filone audiovisivo separato dal cinema, causa un approccio di tipo manualistico che a oggi ha perso ogni fondamento in quanto non solo il variegato universo sperimentale è andato ben oltre il cinema narrativo ma lo stesso racconto della realtà è diventato un tutt’uno con il cinema meainstrem a partire da opere come F come falso (Orson Welles, 1973) fino alla sua esplosione nel cinema horror. Nonostante negli esempi citati la fusione tra realtà e finzione sia dichiarata è pur vero che ogni volta che nasce una nuova forma espressiva (di tipo narrativo o figurativo) essa diventa istantaneamente prassi, come se nel cinema il concetto di novità non potesse imporsi in modo duraturo. La Regina di Casetta vive di questa tensione interna: narra la vita di Casetta di Tiara, un piccolo borgo dell’alto Mugello destinato a quel fenomeno tipicamente italiano dello spopolamento dei piccoli borghi; Gregoria è l’unica adolescente e anche lei, con la sua famiglia, è destinata a lasciare Casetta per poter frequentare, da settembre, il liceo.

Attraverso un racconto fatto di gesti quotidiani e di una vita capace ancora di ruotare attorno ai cicli naturali della vita (come la raccolta delle castagne, la caccia al cinghiale o la neve d’inverno) un’opera come La Regina di Casetta riesce a rappresentare il cinema nella sua dimensione archeologica con la messa in scena del tempo e il cinema come archivio del mondo. Se in La Regina di Casetta appare fortissima l’influenza del cinema documentario di Werner Herzog, è pur vero che tale approccio è declinato in modo diverso; se l’intera opera dell’autore tedesco sembra percorrere due strade parallele (come fiction e documentario) Francesco Fei, nel desidero di  rendere in modo veritiero la vita della giovane protagonista e della sua piccola comunità, non riesce a cogliere la vita sul fatto (come il cinema russo anni venti ci ha insegnato) arrivando a fondere involontariamente realtà e finzione in quanto non solo tutti fingiamo davanti a un obbiettivo ma ogni decisione formale rappresenta, sempre, una scelta soggettiva dell’autore. Eppure cos’è che rende così affascinate quest’opera? E’ la messa in scena di un tempo ormai rivolto al declino. Andrej Tarkovskij nel suo volume Scolpire il tempo (Ubulibri, a cura di Vittorio Nadai, Pag. 54) afferma che … per la prima volta nella storia dell'arte e per la prima volta nella storia della cultura, l'uomo trovò il mezzo per registrare direttamente il tempo. E contemporaneamente, trovò la possibilità di riprodurre a piacimento lo scorrere di questo tempo sullo schermo, di ripeterlo, di ritornare a esso. L'uomo ricevette così nelle proprie mani la matrice del tempo reale. Una volta visto e impresso sulla pellicola, da quel momento poté essere conservato a lungo, registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali e questa è secondo me, l'idea fondamentale del cinema e dell'arte cinematografica. Questa idea mi consente di pensare alla sua ricchezza di possibilità non sfruttate, al suo sconfinato futuro. Ed è par­tendo da essa che costruisco le mie ipotesi di lavoro.  

Attraverso la vicenda di Gregoria Francesco Fei realizza un’opera caratterizzata da temporalità conflittuali: ci narra un tempo presente in cui da una parte sopravvivono ritualità dal sapore pagano ma dall’altro è divenuto incapace di costruire una nuova storia per Gregoria e per la sua piccola comunità. Qui il fuoricampo della grande metropoli entra prepotentemente in gioco come elemento determinante sia per lo sviluppo narrativo che per il senso generale dell’opera. La Regina di Casetta non è un documentario dal sapore antropologico (come erroneamente è stato definito) ma uno sguardo malinconico su una comunità destinata a scomparire portando con sé l’infinito bagaglio di culture e tradizioni centenarie…è come se Francesco Fei volesse rendere omaggio a questo piccolo ma importante borgo per l’opera di scrittori come Dino Campana e Sibilla Alemaro e per esser stato teatro di importanti lotte partigiane (come riportato nel volume Appuntamento a Casetta di Tiara – Serena Cinque, Michele Geroni, Sarnus editore) senza poter sfuggire a un sottile, ma profondo senso di malinconia per un mondo destinato a sparire per sempre.

 

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 Claudio Suriani Filmmaker

 

 

 

 

domenica 2 aprile 2023

EO (2022) DI JERZY SKOLIMOWSKI – IL MANIFESTO DEL MONDO ANIMALE

 

Jerzy Skolimowski è uno degli autori più sottovalutati dell’intero cinema polacco…e forse europeo. Nonostante figure autorevoli come Andrej Waida, Roman Polanky e Krzysztof Kieślowski siano gli autori più conosciuti a livello internazionale (con pieno merito) in Polonia esiste una tradizione registica di assoluto valore (che affonda le proprie radici non solo nel cinema ma anche nel teatro con l’opera di  Jerzy Grotowski) e il regista di Eo ne è forse il rappresentante più significativo.

Eo narra le vicende di un asinello e del suo peregrinare in cerca (forse) della sua ex padrona.

Coinvolgente,  affascinante,  denso di interrogativi. Primo tra tutti: perché proprio un asino? E inoltre, qual’è la storia narrata attraverso le vicende di Eo? La figura dell’asino è divenuta nell’immaginario collettivo esempio di stupidità e scarsa intelligenza…un processo linguistico (e di conseguenza psichico) a cui non prestiamo quasi più attenzione. La prima considerazione è quindi di carattere generale…poi emergono chiavi di lettura di ordine formale: la prima è la dimensione del viaggio. 

 

 



Il road movie è un topos narrativo centrale nel cinema americano non solo capace di fornire numerose pellicole di assoluto valore molto diverse tra loro (tra le più importanti ricordiamo Easy Rider - Dennis Hopper, 1969,  Cuore selvaggio – David Lynch, 1990, Nomadland – Chloe Zhao, 2020 solo per citare i più famosi)  capace di rappresentare, insieme al western, i grandi spazi della natura americana (per un approfondimento rimando al capitolo  La Monument Valley e l’immagine mediatica de Lo specchio e il simulacro di Paolo Bertetto – Studi Bompiani, 2007).

Skolimowski sembra rifarsi a questa importante tradizione: il viaggio di Eo è caratterizzato da un dialogo tra primi (e primissimi) piani e campi lunghi, parabola che rappresenta la trasformazione ma questo non si applica al nostro protagonista:  Eo è solo e la ricerca della sua padrona non lo condurrà ad alcuna emancipazione.

Il suo peregrinare nella Polonia rurale si carica di una latente tragicità fino a esplodere nell’epilogo…

 




Interiorità e solitudine … il destino degli emarginati.

Aver definito le caratteristiche generali dell’opera ci (ri)conduce alla domanda iniziale: perché proprio l’asino? Fin dai tempi di Au Hasard Balthazar di Robert Bresson (1966) questa figura si carica di una malinconia senza tempo e Skolimowski ci apre una dimensione in cui percepiamo ogni suo pensiero e ogni suo sentimento.

E’innegabile che Eo abbia uno sguardo sul mondo profondamente inquieto ma tale inquietudine nasce dalla riflessione sul significato stesso del termine umanità, non razza ma condizione vitale e questa è una riflessione che, gioco forza, non può essere gratuita e finisce con l’imbattersi in un nichilismo di fondo che oltrepassa il facile animalismo: nessuna emancipazione.

Eo è un’opera poetica come non se ne vedevano da anni, atto di resistenza non solo nei confronti di un mondo Cinico e spietato, ostile, dove l’innocenza può passare per ingenuità o come segno di debolezza, ma anche nei confronti delle piattaforme streaming e al loro universo audiovisivo standardizzato


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 Claudio Suriani Filmmaker

mercoledì 22 marzo 2023

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE (2022) DANIEL KWAN E DANIEL SCHEINERT - BENVENUTI NEL MULTIVERSO


Il nuovo film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, vincitore di dieci statuette agli Oscar 2023, si sta imponendo come uno dei film più importanti degli ultimi anni non solo per il riscontro della critica ma anche per la sua capacità di rinnovare il linguaggio cinematografico. Dopo la prima visione,  decisamente faticosa, ho intuito che per entrare nei meccanismi dell’opera dovevo rivolgermi a Carlo Rovelli e alla sua opera Sette brevi lezioni di fisica. Nonostante Everything everywhere all at once sia una delle opere più visionarie degli ultimi anni (e forse dell’intera storia del cinema) nel momento in cui siamo chiamati a rendere sistematica questa forza visionaria scopriamo con profondo piacere che la capacità di guardare oltre non è in antitesi con un approccio scientifico. Rovelli: …la scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La forza dell’immaginazione è da sempre ciò che spinge l’essere umano a un impegno sistematico per provare o smentire (in una parola creare) la propria visione del mondo che da sempre accomuna scienza e arte.

In Everything everywhere all at once tutto ruota intorno all’universo e alle leggi che lo animano. Nella terza lezione intitolata L’architettura del cosmo Rovelli afferma che … esistono quindi migliaia di miliardi di miliardi di pianeti come la Terra nell’universo. E in ogni direzione si guardi questo è ciò che appare. Fin dalle  origini il cinema ha seguito  due indirizzi generali: il desiderio di raccontare diversi livelli di realà ( dinamica che possiamo già trovare in George Melies con Il viaggio sulla luna del 1902 per citare il più famoso) e la necessità di filmare il mondo allo scopo di documentarlo con approcci antropologici, come nell’archivio di Alber Kahn.

Nel corso degli anni questo dualismo si è molto assottigliato e ogni autore ha sviluppato  la propria visione di mondo in modo del tutto personale. Oggi il cinema e l’audiovisivo in generale sono  un insieme eterogeneo: la visione immersiva della sala è diversa, se non opposta, a quella delle piattaforme streaming nelle quali lo spettatore entra a piene mani nell’opera stessa stoppando e creando dei montaggi involontari e infiniti collegamenti in quanto la rete non conosce titoli di testa e di coda.

 

Everything everywhere all at once punta a mettere in scena queste galassie interconnese non da regole prestabilite ma dal caso. Nel film la versione alphaverso di Weymond (Ke Huy Quan) spiega a Evelyn (Michelle Yeoh) che solo attraverso azioni casuali prive di senso le permetteranno di accedere ai diversi universi possibili, e Rovelli ci spiega come il caso sia una vera e propria componete della fisica (teorizzata da Ludwig Boltzmann) capace di spiegare perché il calore tende a muoversi verso il freddo (e non viceversa).

Brevemente: il calore nel passaggio dal caldo al freddo non risponde a regole universali fisse ma lavora per grande probabilità influendo direttamente sulle dinamiche del tempo. Rovelli chiarisce che quando non c’è scambio di calore (causato dall’attrito degli atomi) il futuro si comporta esattamente come il passato, ma quando gli atomi si muovono dando vita ad un contrasto capace di generare calore, futuro e passato divergono.

Questo è un passaggio decisivo in Everything everywhere all at once: il primo approdo di Evelyn nel multiverso le fa rivivere la propria vita così come la ricorda anche se il personaggio di Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis) le appare da subito come conflittuale … una conflittualità destinata a crescere in modo esponenziale. In Everything everywhere all at once il conflitto, da un punto di vista narrativo, non è unidirezionale ma si sviluppa dal punto di vista di ogni personaggio: non solo la figlia Joy diventerà la terribile Jobu Tubaki (un agente del chaos) ma ogni singola comparsa diventerà un elemento capace di influenzare l’approdo dei protagonisti nell’infinita galassia del multiverso. La violenza (o attrito per dirla con Rovelli) in Everything everywhere all at once diventa la rappresentazione del movimento atomico nello spazio capace di influenzare le dinamiche del calore ma, soprattutto, del tempo.

 

Questo ci porta direttamente alla legge generale della relatività in quanto lo spazio non è un ambiente neutro ma qualcosa di dinamico e se tale dinamicità è invisibile dal punto di vita fisico in Everything everywhere all at once diviene il punto centrale dell’intera opera riuscendo a mettere in relazione il più piccolo granello di polvere con il macrocosmo in un vortice di interconnessioni talmente veloci da mettere a dura prova lo spettatore…specialmente durante la prima visione. Le interconnessioni di cui stiamo parlando non si riferiscono solo al continuo passaggio nei diversi universi possibili ma anche alla natura stessa dei protagonisti: Evelyn e Joy passano dall’essere persone, disegni elementari di bambini, pignatte appese pronte per essere rotte fino a sassi inanimati in un mondo privo di vita.

Le forme di vita messe in scena da  Kwan e Scheinert  vanno dal grottesco, come avere dei wuster al posto delle dita, al  rammarico, come una carriera di successo nel caso in cui Evelyn e Weymond non si fossero sposati, in una rappresentazione dell’universo(i) che riesce a essere al tempo stesso  complessa e autoironica.

 

Consideriamo Jobu Tupaki e il suo universo racchiuso in un Bagel.

Questo elemento, apparentemente autoironico, non può che rifarsi alla gravità quantistica a loop, teoria della fisica contemporanea capace di unire la relatività generale con la meccanica quantistica, leggi che regolano l’universo apparentemente contrapposte (per un approfondimento rimando alla  quinta delle Sette brevi lezioni di fisica). Il bagel (una ciambella) di Jobu Tupaki è il punto di congiunzione, da li ogni singolo atomo della vita nasce per poi morire divenendo la legge finale di ogni elemento.

Ci sarebbero ancora moltissime cose da dire…ma le regole generali che animano Everything everywhere all at once spero siano delineate. Scienza, arte e una profonda autoironia fusi a livelli altissimi: sono sicuro che si imporrà come uno dei film più importanti degli anni duemila.

Naturalmente questa non è l’unica interpretazione del funzionamento dell’universo…Ma questa è un’altra storia.

 

Troverete l'articolo anche sul nostro sito web al seguente link:  https://www.cinepeep.net/cinema-americano/everything-everywhere-all-at-once-2022-daniel-kwan-e-daniel-scheinert

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 Claudio Suriani Filmmaker

Claudio Suriani Filmmaker

sabato 18 marzo 2023

PILLOLE DI CINEMA - LA GRANDE ABBUFFATA (1973) DI MARCO FERRERI – IL SESTO CANTO DELL’INFERNO






La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) ci trasporta a pieno titolo nel terzo cerchio dell’Inferno (Come nel già incontrato Picnic ad Hanging Rock l’immaginario dantesco riemerge in tutta la sua forza) in cui il cibo, elemento vitale per antonomasia, diventa non solo uno strumento di morte ma, attraverso un’opera divenuta un pilatro del cinema grottesco italiano (e forse mondiale) riesce a imporsi nella storia del cinema nonostante l’ostracismo della giuria del festival di Cannes del 1973 nel quale fu presentato. 

 

In La grande abbuffata tutto si gioca sul corpo e sulla perdita di ogni possibile orizzonte di riferimento (persino quello del piacere) in quanto i protagonisti non arrivano mai a provare alcun tipo di soddisfazione … né sica né morale. Persino la morte viene vissuta con noia e indifferenza, proprio come nell’Inferno dantesco mangiare è una condanna autoinflitta che si racchiude nella frase divenuta celebre … se non mangi tu non puoi morire. Uno dei grandi meriti  de La grande abbuffata (e dell’intera filmografia di Marco Ferreri)  è quello di aver rivitalizzato una scena cinematografica come quella italiana in cui non solo la censura era ancora molto forte (lo sanno bene Ciprì e Maresco per Totò che visse due volte per aver realizzato il primo film vietato  a tutti - film del 1998 - e Pier Paolo Pasolini per Teorema - del 1968 sequestrato direttamente dalla procura di Roma - solo per citare i casi più famosi) e di essersi imposto nella storia del cinema contemporaneo per la sua forza visionaria  perché, come scrisse Gilles Jacobs, è un film Cinico, nichilista, disturbante, imprescindibile: un film moderno come il suo autore, osteggiato, censurato e sopravvissuto fino a divenire un classico. Un sorridente studio della fisiologia intestinale, una fiaba visionaria sulla società dei consumi, in tutta la sua oscenità, e sull'eccesso come arte. 

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 Claudio Suriani Filmmaker

mercoledì 15 marzo 2023

THE WHALE (2022) DI DARREN ARONOFSKY - INSCINDIBILITA' TRA VITA E MORTE

Vita e morte sono veramente due condizioni contrapposte come ci è stato insegnato?

The Whale, ultimo lavoro di Darren Aronofsky, ci appare come una summa della sua intera filmografia: risuonano gli echi biblici di Madre (2017), i tormentati rapporti famigliari di The Wrestler (2008) e soprattutto il senso di solitudine e di fallimento dei protagonisti ormai divenuto totalizzante.

Tutto parte dal titolo: The Whale (la balena). Il nostro protagonista Charlie affetto da un’obesità ormai fuori controllo vive un intimo rapporto con il romanzo di Herman Melville Moby Dick divenuto la sua fragile ancora di salvezza dall’inferno in cui è precipitato. Charlie è un docente universitario di letteratura e attraverso le sue lezioni sulle piattaforme digitali (rigorosamente a telecamera spenta) riesce a costruirsi uno sguardo sul mondo… uno sguardo fragile e carico dei traumi che, fin dall’inizio, sappiamo non potranno essere elaborati.

 

La lotta di Charlie contro il suo corpo è persa in partenza in quanto sappiamo che dovrà morire e l’intero film è intriso di un nichilismo contro cui si infrangono religione,  affetti più cari (il compagno morto, una famiglia abbandonata, una figlia che lo odia – proprio come in The Wrestler del 2008) e ogni tipo di rapporto con il mondo esterno. Nonostante il cibo sia la sua maledizione Charlie riesce a immaginare un mondo al di fuori del suo incubo anche osservando un uccellino che si posa regolarmente sulla sua finestra che nutre regolarmente: anche in questo caso sarà una speranza effimera e incapace di incidere sugli eventi.

 

Il personaggio di Charlie ci accompagna nel suo mondo fatto di cibo ingurgitato, quattro mura opprimenti e un passato che pesa più di ogni altra cosa;  ciò che ci porta a empatizzare con lui è il suo desidero di affetto divenuto nel tempo del tutto acritico. Il desiderio di riconquistare il rapporto con la figlia ormai adolescente lo porta a essere cieco di fronte alle gratuite cattiverie a cui lo sottopone (come la pubblicazione sul profilo social di foto scattate furtivamente o quando gli dice Sbrigati a morire) che esulano da un rancore giustificabile da parte di una figlia abbandonata.

 Il dramma messo in scena da Aronofsky si carica di un’indagine sul corpo al limite del pornografico (che per chi segue Cinepeep sa che non è inteso in senso dispregiativo quando riesce a farsi carico di idee) non solo quando Charlie chiede ripetutamente a Thomas ( Ty Simpkins) se lo trovi disgustoso ma anche quando decide di rivelare ai propri studenti la sua condizione abbandonando ogni forma di protezione e sottoponendosi all’inevitabile giudizio altrui: questo sarà il punto di rottura definitivo.


Da un punto di vista formale Aronofsky si affida al formato 4:3: una scelta che si rivelerà del tutto efficace in quanto crea uno schiacciamento dell’immagine riducendo l’effetto di profondità. Per tutta la durata di The Whale siamo inchiodati alla poltrona non solo per generico senso di empatia nei confronti di Charlie ma, soprattutto, per una scelta di messa in scena coerente e funzionale alla storia narrata.

 

Il cinema è un’arte visiva e, in quanto tale, la storia narrata ha bisogno di scelte formali coerenti capaci di farci entrare a pieno nella vita dei protagonisti. A questo punto torniamo alla domanda iniziale ampliandone la portata: perché lo spettatore deve farsi carico di un universo così drammatico e privo di speranza? Se come abbiamo detto in The Whale risuonano gli echi della sua intera filmografia (specialmente The Wrestler e Madre) è anche vero che Aronofsky decide di indagare la capacità del cinema non solo di sviluppare ulteriormente i fulcri narrativi delle opere precedenti ma di farsi carico di un universo drammatico senza diventare pedante o scendere nel bodyhorror … un universo che non gli appartiene.

 


 

 

Inoltre se il cinema esiste nell’occhio dello spettatore singolo (in quanto ognuno darà il suo contributo creativo nell’interpretazione di un’opera) ritengo sia necessario indagare la sua capacità di uscire dalle logiche dell’intrattenimento per intraprendere percorsi dolorosi ma capaci di incidere sulla nostra sensibilità più profonda. Ci sono inoltre numerosi sottotesti che alimentano il film come rapporti umani mediati dagli schermi, il valore dell’insegnamento e molti altri; tuttavia sono tematiche che non arrivano mai ad imporsi come punto focale dell’intera opera. The Whale è la storia di un uomo dal corpo enorme che cerca dolorosamente di riconquistare un frammento di vita prima dell’inevitabile destino ed è proprio questo che ci porta al meraviglioso finale: un finale aperto che ci spinge a non avere paura della morte anche quando siamo chiamati a lottare contro le nostre sofferenze più grandi …Vita e morte si riconciliano.

 

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 Claudio Suriani Filmmaker

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