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sabato 21 gennaio 2023

NON APTITE QUELLA PORTA (2022) DI DAVID BLUE GARCIA - Come distruggere un mito


 

Quando una multinazionale dell’intrattenimento cerca di cavalcare una saga che ha dettato le regole estetiche per gran parte del cinema horror degli ultimi anni nasce una pellicola adatta esclusivamente a un gruppo di ragazzini intenti ad ingozzarsi di popcorn: credo che non esista presentazione migliore per quest’ultimo capitolo di Non aprite quella porta.  Per comprendere l’intera operazione è necessario partire dal fatto che è un film di una piattaforma. Questo significa che il ruolo del regista è subordinato ad una spettacolarizzazione del tutto priva di quel fascino perverso che anima l’opera di Tobe Hooper. Questo aspetto separa la figura del regista da quella dell’autore: il primo ha un mero scopo esecutivo mentre il secondo esprime un'estetica riconoscibile in ogni sua opera. L’ultimo capitolo della saga di NAQP è l’esempio perfetto di come ogni produzione delle piattaforme digitali (con rarissime eccezioni come Roma di Alfonso Quaron) abbia un effetto diretto sulla natura stessa dell’opera a causa delle logiche di mercato (in Italia si pensi a RAI CINEMA e alla standardizzazione delle sue produzioni). L’opera di Tobe Hooper aveva invece una forte marca autoriale come La notte dei morti viventi di George Romero, Draucla di Tod Browning o il nostro La maschera del demonio di Mario Bava, opere che riuscivano ad andare oltre la logica di genere costruendo sottotesti e chiavi di lettura diverse senza distaccarsi dal contesto storico/sociale in cui erano usciti. Il cinema horror se viene privato di un'autorialità marcata e riconoscibile cade in cliché estetico/narrativi spesso di cattivo gusto, questo film ne è saturo non solo per scelte registiche grossolane (come il massacro nel disco bus in diretta streaming) ma anche per buchi narrativi e personaggi stereotipati al limite del ridicolo (come personaggi tranciati dalla motosega e subito dopo ancora vivi oppure l’uomo duro di buon cuore che spavaldo corre a salvare la protagonista... telenovela messicana di quart’ordine). Nonostante tali difetti strutturali ritengo che l’aspetto peggiore sia la totale mancanza di una critica politico/sociale.


Nel 1974 gli Stati Uniti affrontarono una profondissima crisi sociopolitica dovuta allo scandalo Watergate e alla guerra in Vietnam con la relativa contestazione giovanile dopo che pochi anni prima era emerso l’orrore per le vicende di Ed Gien che portò con sé una profondissima crisi del concetto stesso di famiglia e di sogno americano. In tale contesto storico il terrore viscerale dell’opera di Hooper era legato a doppia mandata alla distruzione di quell’universo rassicurante tipico della cultura di massa americana ormai collassata grazie a un'opera di rara brutalità capace di prendere in carico gli orrori che il popolo americano voleva rimanessero nascosti. Di contro, l’universo delle piattaforme digitali è quello della pizza e birra sul divano, dell’illusione di avere la conoscenza a portata di mano (come la pornografia online) privandoci allo stesso tempo dell’esperienza della sala e in generale del rapporto con la propria comunità (si pensi agli effetti psichici del fenomeno Binge watching). 

 

Netflix, attraverso questa operazione cerca subdolamente di accontentare chi vuole esclusivamente litri di sangue senza alcuna contestualizzazione né narrativa né storico/sociale...la fotografia è talmente patinata da essere adatta alle pubblicità dei pannolini o del cibo per gatti lontana anni luce dai colori caldi saturi di polvere e sudore che riuscivano a immergere lo spettatore nella violenza animalesca di Leatherface senza possibilità di fuga. In questa mediocrità corrosiva ciò che tuttavia mi rassicura è il fatto che i capolavori non verranno mai intaccati da tale immondizia...le opere dei maestri vivranno per sempre.

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 20 gennaio 2023

NIGHTMARE IN A DAMAGED BRAIN (1981) DI ROMANO SCAVOLINI - L'orrore del rimosso


 
La carriera registica di Romano Scavolini inizia nel 1964 con il suo primo lungometraggio La quieta Febbre per proseguire fino al 2012 con film di genere di diversa natura: documentari come Così vicino così lontano (1970) e Lsd (1970) e la trilogia incappata nella censura A mosca cieca (1966), La prova generale (1968) ed Entonce (1968) fino ad opere a carattere storico come Ustica, Una spina nel cuore (2001) e Le ultime ore del Che (2004). 

 

Tuttavia l’opera per cui è maggiormente ricordato è lo slasher Nightmares in a Damaged Brain del 1981, opera che si pone come uno dei film più importanti del genere per la sua capacità di rappresentare il concetto di trauma freudiano (evidente l’influenza del cinema di Alfred Hitchcock, specialmente di Marniedel 1964). La trama è la seguente: George Tatum, criminale con profonde turbe psichiche, viene dimesso dall’ospedale psichiatrico in quanto il suo medico lo ritiene guarito dalle sue psicosi. Fin da piccolo la sua malattia ruota attorno a un sogno ricorrente: un bambino che assiste a una scena di sesso tra un uomo ed una donna nell’atto di un rapporto sado, l’uomo legato al letto dalla donna e picchiato duramente.


Tuttavia fin dal primo colloquio di Tatum con il terapeuta scopriamo che la dinamica del sogno non è chiara in quanto Tatum non riesce a capire il suo ruolo all’interno del sogno (non sa se lui osserva la scena, se è lui il bambino del sogno e il ruolo dell’uomo; inoltre quando il medico gli fa questa domanda diretta lui ha una crisi nervosa). Il nostro protagonista tuttavia non è affatto guarito, comincia a trucidare vittime innocenti e, dirigendosi in California, viene morbosamente attratto da una famiglia composta da madre e tre figli; alla fine del film scopriremo non solo che il bambino del sogno è lo stesso Tatum ma che le sue nevrosi da adulto hanno come causa la rimozione dell’omicidio del padre e della donna in questione per mano sua. Per l’analisi del film rivolgiamo la nostra attenzione al concetto di trauma iniziando dalla prima definizione che Freud ne diede in una delle sue prime opere: Il trauma si dovrebbe definire come un incremento di eccitamento nel sistema nervoso che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria (Freud S., Breuer J., 1892-1895, pag. 156). Inoltre in uno scritto del 1920, mettendo in rapporto gli eventi traumatici con gli effetti sull’individuo, l’accento non è posto su l’evento traumatizzante in sé ma su gli affetti penosi del terrore, dell'angoscia, della vergogna, del dolore psichico (Ibidem, pag. 177).

 


 
Nel momento in cui il giovane Tatum vede il proprio padre nel pieno di un rapporto sessuale, per di più in una posizione di sottomissione fa emergere una profonda pulsione di morte che lo porterà non solo ad ucciderli entrambi, ma a manifestare in modo devastante ciò che Freud definì incremento di eccitamento nel sistema nervoso.

Tatum nel corso di tutto il film ricerca, attraverso i suoi omicidi, sia l’esperienza che ha determinato la breccia inferta nella barriera protettiva, attraverso il meccanismo della coazione a ripetere, sia il soddisfacimento di una pulsione sessuale che trova nell’ascia la scarica energetica attraverso un oggetto parziale. Tatum non arriva mai ad avere un rapporto fisicamente soddisfacente (e neanche parzialmente come nella scena della spogliarellista) e esemplifica lo sviluppo teorico freudiano della teoria traumatica: dal momento dell’omicidio non è più l’atto in sé ad essere traumatico quanto la sua mancata elaborazione attraverso le vicende che lo vedono protagonista. L’io di Tatum è consapevole dell’orrore delle sue azioni ma è la pulsione di morte a guidarlo arrivando a vivere la propria morte come una liberazione.

 

Da un punto di vista formale Nightmares In a Damaged Brain è in linea con le maggiori opere definite Video Nasty (termine ideato dalla censura del Regno Unito per indicare opere audiovisive particolarmente violente e commercializzate come home video) come I Spit on Ypur Grave (Non violentate Jennifer – Meir Zarchi, 1978) La casa (Sam Raimi, 1981) o La casa sperduta nel parco (Ruggero Deodato, 1980) opere caratterizzate da una messa in scena di taglio televisivo e prodotte per il mercato degli home video. Nightmares In a Damaged Brain trova il suo punto di maggior interesse nella rappresentazione del rimosso e della coazione a ripetere freudiana e arrivò ad influenzare fortemente il mondo della cultura underground (come ad esempio la copertina del disco del Cripple Bastards Massacrecore del 1997).

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Claudio Suriani Filmmaker

LAMB (2021) DI VALDIMAR JOHANNSON (2021) - La solitudine genera mostri

 

Lamb, film del regista islandese Valdimar Jóhannsson (prodotto da Bela Tarr) narra la storia di María e Ingvar e del loro allevamento di pecore dal quale nascerà Ada, una creatura umanoide con la testa di agnello cresciuta dai due protagonisti come una figlia. Lamb è un’opera carica di numerose chiavi interpretative, la prima è uno sguardo antropologico sulla terra d’Islanda e le sue zone rurali caratterizzate da vita agricola e da un profondo senso di isolamento. Nonostante sia una considerazione di ordine generale possiamo cogliere fin da subito l'influenza di Bela Tarr (specialmente di opere come Satantango del 1994 e Il cavallo di Torino del 2011) e la sequenza d'apertura non solo è un chiaro rimando al suo ultimo film ma ne arricchisce la natura antropologica. Lamb è del tutto privo di movimento interno e il focus si concentra sulla vita contadina e sull'insieme di tradizioni in cui anche i gesti più semplici si caricano di una ritualità quasi sacrale.


La storia del cinema ha spesso mostrato come l'isolamento sia spesso causa di follia (si pensi ad opere come L'ora del lupo di Ingmar Bergman (1968), Antichrist di Lars VonTrier (2009), Hagazussa; la strega di Lukas Felgeifed, (2017) e La pianista e Funny Game (Michael Haneke, 2001 e 1997) solo per citarne alcuni, topos narrativo che porta i protagonisti a incancrenire le proprie tendenze depressive in dinamiche patologiche spesso violente.

Queste dinamiche in Lamb si accompagnano al profondo senso di solitudine di un paese di appena 366.000 abitanti la cui metà vive nella sola Reykjavík e il rapporto con la luce è capace di influenzare profondamente i propri cineasti: il cinema scandinavo è spesso caratterizzato dal buio o dalla luce perenne e dalla relativa mancanza di un'elaborazione del tempo.

Tuttavia l’entrata in scena di Ada diventa un punto di rottura nel percorso teorico fin qui descritto; attraverso il suo personaggio Lamb si carica da un lato di una forte natura mitologica che rimanda al mito del Minotauro mentre dall’altro chiama in causa l’elaborazione del lutto dei protagonisti, lutto che tuttavia non ci è dato conoscere ma che trova nel rapporto con il mondo animale la propria coazione a ripetere (rivolgendoci al cinema indipendente possiamo trovare le tematiche descritte nel film Vase de Noces – Thierry Zeno, 1974). Nonostante Jóhannsson rielabora la dimensione del mito in modo personale Lamb conserva il classico inganno a un Dio vendicativo.


María e Ingvar non riescono a vedere in Ada ciò che è in realtà: il simbolo di una vita segnata da traumi irrisolti capaci di confinarli in una terra priva di mondo in cui tutto inizia e finisce nella loro fattoria. Lamb inoltre rientra a pieno titolo nel sottogenere cinematografico definito folk-horror trovando in opere come The Wicker Man (Robin Hardy, 1973) e nel recente Midsommar (Ari Aster, 2019) alcune delle opere più significative; sono film accomunati dalla rappresentazione di culture primordiali che, nonostante il diffondersi del cristianesimo da una parte e dello sviluppo economico/capitalistico dall’altro, riescono a sopravvivere nelle tradizioni popolari delle culture rurali. Lamb trova nel rapporto con le antiche credenze popolari alimentate da contrapposizioni come antico/moderno e laico/religioso una forza narrativa capace di richiamare i più antichi miti che hanno caratterizzato il nostro immaginario fino ad oggi riuscendo anche da un punto di vista visivo a valorizzare il senso di infinito che l'Islanda porta con sé.

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 13 gennaio 2023

ADIEU AU LANGAGE (2014) DI JEAN-LUC GODARD – La nuova dimensione del linguaggio cinematografico


Adieu au langage
rappresenta l'atto finale di una riflessione sul rapporto tra le immagini e linguaggio e al tempo stesso sul perché il cinema non trovi più nell'essere umano il suo fulcro narrativo in quanto l'atto di filmare è divenuto un'esperienza quotidiana. Ma vi è anche una riflessione sul rapporto tra storia, immagini e lettura critica a cui lo spettatore è chiamato. 
L'obbiettivo di Godard è la decostruzione della semiotica cinematografica classica per costruire un nuovo tipo di approccio al cinema capace di fornire strumenti analitici capaci di far emergere i mille piani teorizzati da Gilles Deleuze che in Adieu Au Langage si manifestano attraverso uno schema interattivo in cui ogni frammento memoriale messo in scena da schermi e dispositivi digitali si lega a un presente dichiaratamente sfuggevole.

La macchina da presa in Godard non solo cerca di far emergere le falde del passato andate perdute ma di renderle archivio di se stesse: nell'istante in cui l'occhio meccanico crea un'immagine si apre un dialogo con le epoche successive superando la concezione cronologica del tempo. Oggi questo dialogo non può che essere tra il cinema del passato e l'immagine digitale intesa come schermo e manipolazione delle immagini in quanto tutti ormai sanno caricare video sulle varie piattaforme disponibili e creare sia piccoli montaggi che infinite copie. Il concetto classico di verità deve prestare il fianco dunque a coordinate radicalmente nuove. Lo spettatore è chiamato a decidere come interpretare le immagini attraverso la propria competenza critica (specialmente per l’immagine 3D) restituendo all’occhio umano la capacità di sintetizzare, tagliare e montare. Nonostante questa sia una riflessione iniziata con le Histoire(s) Dù Cinema e proseguita con Film Socialisme, qui Godard mira a un'opera testamento indicando come la capacità di manipolare le immagini e la sovraesposizione degli schermi digitali (si pensi a Times Square) sia il tratto distintivo della nostra epoca e la necessità di inglobare nella riflessione sul cinema ogni tipologia di immagine filmata (riflessione anticipata da Ridley Scott in Blade Runner nel 1982).

 

Adieu Au Langage si articola attraverso un disordine organizzato di suoni e musiche costantemente fuori sincrono che si scontrano con lo sguardo di un cane, sguardo innocente capace di rappresentare il rovesciamento del punto di vista umano sul cumulo di macerie che la storia ci consegna in eredità e che la storia del cinema é incapace di inglobare nella sua narrazione della contemporaneità che comporta l'uso dei dispositivi multimediali, dello streaming e del filesharing che hanno trasformato in maniera irreversibile il concetto stesso di film/oggetto, la sua mercificazione e il proliferare di infinite copie sulle piattaforme digitali. In Adieu Au Langage il concetto di soglia che caratterizza A Ghost Story si forma tra il concetto di verità come lavoro riflessivo sulla storia e sullo sviluppo della tecnica cinematografica (che ad oggi si compie nel 3D) e quello di falso inteso come radicale trasformazione di una narrazione sul cinema a cui oggi non crede più nessuno.

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Claudio Suriani Filmmaker

A GHOST STORY (2017) DI DAVID LOWERY - i nostri fantasmi



A Ghost Story (David Lowery, 2017) racconta le vicende di una giovane coppia in procinto di traslocare che condivide una quotidianità fatta di piccoli gesti carichi di significato in cui anche i silenzi diventano determinanti. L’improvvisa morte dell’uomo devierà il corso degli eventi ma lo obbligherà all’eterna permanenza nella propria casa dei ricordi. A Ghost Story affronta la tematica del tempo attraverso la messa in scena del fantasma, immagine feticcio del cinema analizzata da Christian Metz nella sua opera più famosa Cinema e psicanalisi.

 

Nel capitolo intitolato film/fantasma Metz introduce il termine fantasticheria affermando che lo stato filmico [la fantasticheria] è un'attività dello stato di veglia e che il fantasma cosciente si radica nell’inconscio in maniera più diretta seguendo un tragitto più breve. Appartiene al sistema dell’inconscio anche quando le sue manifestazioni o alcune di esse accedono alla coscienza, perché il fantasma cosciente è tematicamente vicino alla Vorstellung-reprasentanz della pulsione […] da cui la sua oscura seduzione quando si trova ad essere riattivato dal film o da qualcos’altro. Questo è un passaggio importante perché non solo crea una relazione tra la natura fantasmatica (per definizione estranea ai sensi) e lo stato di veglia ma definisce la natura del protagonista maschile. Nella storia del cinema ci sono state diverse rappresentazioni di spettri e creature ultraterrene; a differenza dello spettro di Personal Shopper (Olivier Assayas, 2016) per citare uno degli esempi più recenti, la natura di C.(i protagonisti hanno entrambi il nome puntato) si manifesta come una sorta di fisicità innaturale attraverso l’espediente del lenzuolo che non è né rappresentazione canonica del fantasma né della nostra memoria culturale infantile. Lowery gioca sulla soglia tra l’essenza materiale della vita (un fantasma fatto di carne e sangue) e la perdita di ogni psicologia e tratto caratteristico del personaggio tanto che l’unico rapporto conseguenziale tra C. ed M. sarà attraverso la casa che, a differenza della sua compagna, C. non abbandonerà mai più in quanto la sua natura è strettamente legata al divenire degli eventi e al decadimento della vita biologica. Incontriamo in questo modo aspetti determinanti delle tematiche del film in quanto l’interruzione del rapporto causale tra gli eventi determina un rapporto fallimentare con la memoria dei personaggi. In A Ghost Story l’attività memoriale risulta impossibile da ricomporre in quanto la morte di C. lo pone in una soglia in cui né la vita né la morte si adempiono del tutto ma in tale condizione potrà entrare in contatto solo con il lutto di M. La morte per C. comporta la perdita di ogni tratto caratteristico: la perdita del linguaggio parlato ma anche cinematografico al punto che Lowery costruisce un film in formato super16 con un forte effetto visivo straniante di schiacciamento della prospettiva rispetto al canonico 4:3 del cinema classico. La profondità di campo è la scelta stilistica del cinema moderno per lavorare sul concetto di tempo in quanto riesce a esprimere in un singolo fotogramma un presente attuale nel quale abita uno sforzo di rimemorazione. La morte di C. e il suo insediarsi in una dimensione temporale incapace sia di un’attività memoriale sia di un’azione in divenire in un ambiente in cui il solo contatto possibile è con la pulsione di morte di M. trasforma la casa non solo nel terzo protagonista del film ma in un limbo che vive al di fuori di ogni legame con il mondo e la sua natura d'impermanenza. E’ proprio in questo punto che l’immagine in super16 si definisce in tutta la sua forza espressiva fino al punto che la dimensione temporale descritta risulterà estranea ai concetti cronologici di passato, presente e futuro.  

A Ghost Story arriverà a esistere al di là dei limiti temporali dei titoli di testa e di coda perché a differenza del cinema di Welles, un possibile centro nel presente viene a decadere a causa del mancato incontro del fantasma con M. in quanto il fantasma vivendo in una dimensione acronologica si instaura in una falda del passato di C. ma non può interagire con la dimensione del suo futuro che rimane cronologicamente vietata alla sua conoscenza. Inoltre A Ghost Story sembra riprendere dal già incontrato Begotten il silenzio inteso come rumore primordiale articolato in due prospettive diverse: se in Begotten il silenzio era l’essenza del tempo prima del Verbo cristiano, in A Ghost Story è alla base di una dimensione metafisica in cui viene meno non solo prima e oltre i titoli di testa e di coda ma anche l'al di là della visione umana: ciò che importa non è l’esistenza del film come oggetto fisico ma l’idea concettuale che lo anima. A Ghost Story non solo definisce in modo esaustivo la morte dell’asse cronologico, ma apre anche a ciò che Deleuze, seguendo il pensiero di Felix Gauttari definisce i Mille piani, un momento in cui la causalità degli eventi si annulla a favore di una fittissima concatenazione di falde del passato appartenenti a personaggi diversi. Le memorie poste in scena dall’autore diventano una sorta di raccordo capace di concatenare eventi narrati lontanissimi tra loro.

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Claudio Suriani Filmmaker

 





martedì 10 gennaio 2023

PERSONA (1966) DI INGMAR BERGMAN - Il racconto dell'orgia


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a sempre cariche di desiderio, le immagini cinematografiche hanno il potere di stimolare le pulsioni più inaccessibili generando tra gli altri, due effetti ancora oggi determinanti. Nei primi anni del novecento il cinema fu definito un’arte pornografica per via dello sguardo dello spettatore ritenuto non contemplativo (tipico delle arti classiche) ma feticistico, mentre altrove stava acquisendo un profondo valore politico grazie al lavoro di registi/teorici come Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn. Emerge in ogni caso la capacità di parlare sia al singolo che alle masse alimentando la dimensione del desiderio (di natura erotica, sociopolitica o altro). Persona (Ingmar Bergman, 1966) narra la vicenda dell’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ulmann) e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson): la prima è colta da una profonda crisi che la trascinerà in uno stato di mutismo mentre la seconda la assisterà prima in clinica, poi in una casa al mare dove le due donne si recheranno per far ritrovare alla Vogler la serenità perduta. Tra loro nasce subito una forte intesa che culminerà la sera del primo giorno in cui Alma, in un inarrestabile flusso di coscienza, le racconta l’esperienza di un'orgia sulla spiaggia con persone a lei sconosciute. 

 

Se consideriamo questa sequenza come uno dei cardini dell’intera pellicola vediamo come Bergman non cada nel facile meccanismo del flashback affidando alla parola il valore erotico degli eventi narrati. Il desiderio di raccontare di Alma tuttavia contrasta con il silenzio di Elisabeth creando una tensione carica di un erotismo non appagato in quanto Elisabeth non offre alcuna reazione ai suoi racconti. E’ una sequenza in cui emergono le dinamiche del mito (si pensi alle Erinni o a Edipo) e dell’opera shakespeariana in cui si evince che non esiste erotismo privo di tragedia. Persona è un’opera non solo sulla tensione erotica tra le protagoniste ma anche sull’incomunicabilità. Considerando l’assunto teorico di Christian Metz secondo cui il cinema è un mezzo di espressione e non di comunicazione, il crescente contrasto che viene a crearsi tra Alma ed Elisabeth arriva a rappresentare il conflitto tra un linguaggio autoreferenziale (Alma) e l’incapacità di saper corrispondere agli eventi del mondo (Elisabeth di fronte all’immagine del monaco in fiamme si smarrisce per sempre). Questo conflitto interno deflagra attraverso un atto traumatico (la sequenza dell’acqua bollente): è un’ azione di rottura attraverso cui vengono meno i processi di identificazione tipici del cinema narrativo portando l’opera verso la tragica seconda parte. Alma spaventa Elisabeth, pur riuscendo a farla parlare e ottiene come risultato l’inibizione della pulsione erotica descritta conducendole verso un finale che le allontanerà del tutto. Tuttavia, nell’istante stesso in cui Elisabeth pronuncia quelle poche parole emerge la forza veritativa dell’immagine cinematografica: un istante, allo stesso tempo folgorante e sfuggente, capace di sottrarsi al ferreo controllo della messa in scena autoriale esattamente come una pellicola che si brucia all’improvviso durante la proiezione. Un ulteriore aspetto determinante è il rapporto simbiotico che si viene a creare tra personaggio e strumento cinematografico. Bergman lavora sulla rimozione dell’idea di spettacolo scarnificando a tal proposito lo stesso dispositivo tecnico: immagine proiettata sottoposta all’impermanenza del mondo. 

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Claudio Suriani Filmmaker

PILLOLE DI CINEMA - WHERE THE DEAD GO TO DIE (2012) DI JIMMY SCREAMERCLAUZ - Un mondo allucinatorio



L'universo di Where the Died Go to Die è caratterizzato da un'animazione retrò tipica dei videogame anni 80 e da una sorta di religiosità negativa in cui alcune delle tematiche tipiche del cinema horror (tra cui la mutazione dei corpi e la possessione demoniaca) vengono rielaborate in chiave apocalittica. Where the Died Go to Die ci getta in un vortice di follia fatto di depravazione, violenza e necrofilia. Una tale scelta registica, carica di un'animazione vintage fortemente stilizzata, ha il potere di destabilizzare lo spettatore molto più delle sequenze. L'orrore nel cinema è stato elaborato in numerose chiavi stilistiche. Da quando il mondo conobbe l'orrore dei campi di sterminio con il documentario Memory of the camps (costituito da una raccolta dei filmati degli eserciti alleati durante la liberazione dei campi di sterminio) l'orrore è diventato un sentimento del tutto stucchevole che ha spinto molti dei più grandi registi contemporanei (come David Lynch o David Cronemberg) ad inserire il perturbante all'interno di una riflessione sul cinema molto più ampia. Seguendo tale percorso Where the Died Go to Die si rivela un film per stomaci forti proponendo al contempo un'idea rivoluzionaria per il cinema di animazione: per superare il canone disneyano e la classica estetica manga (incontrata con Akira ed Anappe Bazzoka) Jimmy ScreamerClauz compie, a livello visivo, un passo indietro di quasi trent'anni allo scopo di ridare al cinema di animazione una nuova spinta creativa e mostrando come l'universo del videogame, prodotto audiovisivo mai approfondito adeguatamente, possa dialogare con il cinema in modo del tutto coerente. Where the Died Go to Die vive nei meandri più oscuri della cinematografia contemporanea riuscendo a turbare lo spettatore in modo viscerale proprio grazie alla sua natura fortemente sperimentale: carica di un viscerale nichilismo conserva a più di dieci anni dalla sua uscita, un fascino fuori dal tempo.
 
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Claudio Suriani Filmmaker

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