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martedì 13 dicembre 2022

BROKEN FLOWERS (2005) DI JIM JARMUSH

Uno dei meriti della colonna sonora di Broken Flowers di Jarmusch è aver riportato in auge una certa scena musicale etiope, ovvero il glorioso Ethio Jazz già tanto celebrato qualche anno prima dalle raccolte Ethiopique. Ma non è solo questo...e come potrebbe esserlo per una pellicola ambientata nella più profonda provincia americana? 

 

 
Ma andiamo con ordine. Una premessa: Broken Flower, del 2005, è ambientato in un contesto pre-rivoluzione/involuzione digitale, internet c’è, ma non ha ancora cambiato le nostre vite, i cellulari non sono ancora indispensabili nella quotidianità e per ascoltare bene la musica c’è ancora bisogno di un impianto audio, un lettore cd in auto con relativo supporto, magari masterizzato. Il ruolo chiave della storia è in carico a Winston (Jeffrey Wright) che convince l’amico Don (Bill Murray) a intraprendere un viaggio nella provincia americana organizzandogli tutto compreso un cd di musica etiope che gli masterizza (una colonna sonora nella colonna sonora). I pezzi strumentali di Mulatu Astatke (padre putativo del jazz etiope) vengono usati soprattutto nelle scene del viaggio del protagonista: Yegelle Tezet, un pezzo quasi rocksteady, Yekermo Sew e Gubelye, jazz minimale e scuro, punto d’incontro tra Etiopia e scena jazz newyorkes

Poi c’è la bellissima cover in acido di Ethanopium, dei Dengue Fever…

Queste musiche accompagnano Don (apatico, silenzioso e scettico) lungo il suo viaggio nelle contraddizioni americane e più che stare nel caos delle autostrade sembra invece di essere in un fumoso club jazz.

Ma come dicevo, nella colonna sonora c’è tanto altro.



Penso alla There is an end, dai sapori sixties, di Holly Golightly (una delle tante ex muse di Biily Childish e fategli una statua per favore a questo uomo!) accompagnata dai Greenhornes, il reggae Ride your donkey dei Tennors, la classica I want you di Marvin Gaye, la bellissima psichedelia anni ’90 di Not if you were the last dandy on earth dei Brian Jonestown Massacre, addirittura presenti i pesanti Sleep con Dopesmoker in una favolosa scena dove Don ha un brutto incontro con dei motociclisti tardo hippy.

Nel lavoro complesso di assemblare pezzi di vari artisti nella stessa colonna sonora, credo che in Broken Flowers siano state fatte scelte azzeccate, non scontate.

Gli accostamenti tra i pezzi scelti e le varie scene confermano la competenza e la passione del regista verso musicisti anche non allineati (come per esempio l’azzardo Sleep). Ed anche solo per questo verso Jarmusch non si può che avere massimo rispetto.

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Massimo Fiore


lunedì 12 dicembre 2022

Ichi the Killer (2001) di Takashi Miike

 

Orgia visionaria di sangue e violenza, deliziosamente inverosimile ed efferato fino all’estremo, Ichi the Killer è tra le opere più famose e anomale di Takashi Miike, prolifico autore che abbiamo conosciuto per la versatilità e disinvoltura con cui è in grado di spaziare dal genere storico (13 Assassini) ai drammi familiari più bizzarri (Visitor Q).

 

 
Il film ci presenta le vicende di Kakihara, sicario e luogotenente (piuttosto pittoresco) al soldo di Anjo, padrino di una gang di yakuza. Kakihara ha, tra le altre stranezze, la caratteristica di essere mentalmente disturbato. L’irragionevolezza, anzi la demenza di molte delle sue mosse, rivelano infatti un unico movente: il masochismo, elevato a metodo filosofico oltre che sessuale. “Non c’è amore nella tua brutalità” rimprovera al membro di una gang rivale che lo sta picchiando selvaggiamente. Kakihara, nel corso del film, si lamenta spesso di non trovare nemici all’altezza del suo autolesionismo. Parallelamente, e intrecciata alle bizzarre vicissitudini di Kakihara, seguiamo la storia di Ichi, adolescente timido e problematico dalla personalità pericolosamente scissa. Nonostante l’aspetto dimesso e impacciato, infatti, Ichi è colto spesso da accessi transitori ma incontrollabili di ferocia (a cui si abbandona sempre, peraltro, con un’improbabile tuta da supereroe). Manovrato dal cinico Jiji – uno Shinya Tsukamoto in ottima forma (come sempre) – Ichi rappresenta il contraltare, il negativo di Kakihara: è tanto brutalmente sadico quanto quest’ultimo è masochista.
 

A visione ultimata, un’impressione s’impone immediatamente: la violenza parossistica di Ichi the Killer sembra fare, per l’intera durata del film, da bizzarro surrogato del sesso, tanto più in quanto si presenta accompagnata dalle parafilie più grottesche. In questo trionfo di ferocia e di torture, la crudeltà – di cui sono le donne a essere spesso oggetto – si dispiega come una dichiarazione di impotenza. Disorientati dall’incapacità di stabilire rapporti umani secondo coordinate naturali, i personaggi di Ichi the Killer tentano di compensare l’impoverimento, l’inconsistenza biologica da cui sembrano affetti (somigliano a cartoni animati che hanno assunto una plasticità fragile e provvisoria) in un crescendo di violenza meccanico e disumanizzato, un climax di sangue e morte – tra le frattaglie che non cessano di vorticare per l’intera durata del film – che tenta di mimare pateticamente e miseramente quello dell’orgasmo.

Ichi the Killer, nella sua estrema stranezza e nella sua morbosa inventiva, riesce a individuare – meglio di molti film più “nobili” – la sorgente prima dell’arte. Il rifiuto rabbioso dell’ordine naturale, da cui nel corso della storia ci si è allontanati casualmente o per esigenza imposta, ha condotto a configurazioni artificiali – tra cui quelle artistiche, appunto – in sostituzione delle forme già esistenti, ovvero della vita regolata dagli istinti. Ogni opera riuscita porta in sé il riflesso di questo primitivo assillo, e testimonia eloquentemente la parentela fra gli antichi sacrifici e ogni forma d’arte.

Insomma: tra innesti di falsi ricordi, torture ingegnose, yakuza pervertiti e macellazioni su vasta scala, Ichi the killer presenta un campionario umano tanto eterogeneo quanto strambo. Il film raggiunge la massima potenza espressiva proprio nei passaggi più grotteschi, grazie alla consumata abilità stilistica e alla sapienza inventiva di Miike.


M.L.

CARNIVALE (2005) DI DANIEL KNAUF - Il teatro delle illusioni

Carnivale si è imposta negli ultimi anni come una delle serie tv più interessanti dal punto di vista stilistico; narra le vicende di un circo itinerante guidato da una misteriosa direzione attraverso la magica atmosfera degli Stati Uniti degli anni 30; anni in cui impazzava la magia del jazz, la fabbrica dei sogni di Hollywood insieme alla grande depressione e lo spettro della seconda guerra mondiale. 
 
 
 
La serie inizia con un prologo dal carattere biblico in cui la lotta tra bene e male per il controllo del mondo si impone come tematica centrale dell'intera opera; la struttura narrativa tuttavia appare molto più complessa rispetto ad una visione dualistica della storia in quanto la serie è caratterizzata da  una successione di personaggi secondari ricchi di fascino che sorreggono la struttura narrativa conferendole spessore. 
 
 

Come personaggio guida troviamo l’iconico Michael J. Anderson che tutti ricordano come il nano in Twin Peaks; quando un personaggio ha la forza di entrare nell’immaginario collettivo l’attore diviene un tutt’uno con il suo personaggio. Michael J. Anderson è diventato un'icona dei personaggi che vivono sulla soglia tra realtà e finzione (si pensi alla sua presenza in Mulholland Drive di David Lynch o nella serie cult di Chris Carter X-files); inoltre questo aspetto carica il personaggio di Samson di un valore universale: una sorta di novello Mosè alla guida di uno scalcinato gruppo di freaks (l'immaginario browningiano sconfigge per l'ennesima volta la censura storica). Tornando a Carnivale, l’intero corpus degli episodi è caratterizzato da un atmosfera carica di misticismo di stampo manicheo; aspetto che tuttavia si fonde con l’aria gioiosa di una fiera di paese e dei suoi fenomeni da baraccone (oltre al già citato Freaks di Tod Browning troviamo influenze anche da La fiera delle illusioni di Edmund Goulding del 1947).  
 

 
Un ulteriore elemento è la tematica del viaggio; il travel movie è un sottogenere cinematografico che ha dato vita a numerosi capolavori tra cui Nomadland (Chloè Zaho, 2020) Green Book (Peter Farrely, 2018), Cry Macho (Clint Eastwood, 2021), Interstellar (Christopher Nolan, 2013), Una storia vera (David Lynch, 1999), Sette anni in Tibet (Jean-Jacques Annaud, 1997), Viaggio a Kandahar (Mohsen Makhmalbaf, 2002) e Easy rider (Dennis Hopper, 1969). Carnivale si distacca dalle opere citate in quanto è il viaggio stesso ad essere il centro narrativo della serie; la direzione è il fondamento sulla quale si fonda l’intera opera proprio come, in X-files, la ricerca degli alieni e di Samantha Mulder resterà il fulcro narrativo della serie.  
 
Carnivale rappresenta un mondo carico di misticismo capace di privare l’essere umano della propria autodeterminazione; è, inoltre, una delle serie tv migliori degli ultimi anni e merita di essere posta all’attenzione di un pubblico sempre più vasto.
 
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Claudio Suriani Filmmaker















domenica 11 dicembre 2022

BITTERSWEET RAINBOW - di Luca Bertossi

 

Bittersweet Rainbow è il nuovo lavoro del giovane regista friuliano Luca Bertossi; formatosi nel cinema di genere con opere che vanno dallo slasher di That Thing in the Darkness, al dramma di La Confessione e Il Dono fino alle tematiche post-apocalittiche di Lost Notes (consultabili gratuitamente sul canale YouTube della casa di produzione Deep Mind Film Factory) con Bittersweet Rainbow affronta per la prima volta il cinema romantico all'interno della comunità LGBT. 

  

Il film racconta le vicende di Niccolò che, dopo la tragica morte del padre e del suo compagno, parte per diversi anni allo scopo (forse) di elaborare i propri lutti e trovare la forza interiore di dichiarare la propria omosessualità. Bertossi in quest'ultimo lavoro conferma le doti già riscontrate in precedenza: sa come mettere in scena un film facendo fruttare al meglio le poche risorse di una produzione crowdfunding. Bittersweet Rainbow è caratterizzato da una messa in scena efficacemente lineare: appare chiaro che manchino i mezzi per sviluppare ulteriormente la forza visiva dell'opera (attraverso un carrello, un dolly ecc..); Bertossi riesce tuttavia a seguire le vicende del protagonista con un occhio discreto e sensibile sfruttando appieno le risorte a disposizione.

Bittersweet Rainbow è caratterizzato, inoltre, da un ritmo narrativo che ben si adatta all'animo riflessivo del protagonista utilizzando il meccanismo del flashback in modo attento ed efficace; tuttavia, nonostante risulti essere un lavoro ben costruito vendibile sul mercato italiano presenta elementi di riflessione: il più evidente è il repentino cambio di registro rispetto ai lavori precedenti.

Le opere finora realizzate erano contraddistinte da un'ottima costruzione della tensione (in particolare nel cortometraggio slasher Una serata tranquilla, presentato al FiPiLi Horror Festival 2019); affrontare tematiche così diverse tra loro spesso può risultare un azzardo correndo il rischio di non riuscire ad esprimere in pieno il proprio talento. Questo è un aspetto di assoluto rilievo se pensiamo ad un film come La congiura degli innocenti (Alfred Hitchcock, 1955); nonostante sia una commedia Hitchcock riuscì a dargli il suo taglio realizzando il capolavoro del genere commedia nera.

Il mio consiglio è di lavorare attentamene sulla propria idea di cinema in modo da poter esprimere la propria impronta stilistica riconoscibile anche all'interno di opere eterogenee.

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Claudio Suriani Filmmaker



sabato 10 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - QUELLE DUE (1961) DI WILLIAM WYLER - L'amore nell'America di Joseph Mc.Carthy

 
 


Il Maccartismo fu un movimento politico-amministrativo che influenzò profondamente la cultura americana in tutti i suoi aspetti più significativi: l'industria hollywoodiana non poté esimersi da tale caccia alle streghe in quanto la società statunitense era sottomessa alla realizzazione di una cultura di stato improntata sulla fedeltà alla bandiera e alla venuta meno dello spirito critico della popolazione. In questo spirito reazionario nasce The Children's Hour (Quelle due, di William Wyler, 1961); uno dei primi film d'amore hollywoodiani a sfondo lesbico.
 
Dopo il grande successo di Ben Hur Wyler realizza un film a basso budget incentrato sul legame affettivo tra Karen (Audrey Hepburn) e Martha (Shirley MacLaine) amiche fin dall'infanzia. Un giorno vengono accusate di avere una relazione omosessuale; per questo saranno emarginate dell'intera comunità portandole verso un tragico finale.
 
Oltre alla meravigliosa interpretazione delle protagoniste (conoscendo le attrici non potevano esserci dubbi)  un ulteriore punto di forza è la scrittura capace di superare l'ombra del maccartismo a favore di una profonda riflessione sull'animo tormentato delle protagoniste.
 
Wyler dimostra come si possano superare le ombre di uno dei periodi storici più oscurantisti del  XX secolo (definito da Eleanor Roosevelt È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto) attraverso una scrittura, allo stesso tempo, sobria e intensa.
  
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Claudio Suriani Filmmaker


PILLOLE DI CINEMA - STRANGE CIRCUS (2005) DI SION SONO - Il circo degli orrori


 
 
Le dinamiche familiari sono state affrontate dal cinema orientale in diverse modalità: dalla perfezione formale di Viaggio a Tokyo (Yasujiro Ozu, 1953) fino alla violenza estetica di Visitor Q (Takashi Miike, 2001, direttamente ispirato al film Teorema - Pier Paolo Pasolini, 1968). Strange Circus (Sion Sono, 2005) rappresenta il perfetto punto d'unione tra queste due anime espressive: siamo di fronte ad un'opera oscura e disturbante caratterizzata non solo dall'immaginario cinematografico J-Horror (che annovera tra le sue fila registi del calibro di Takashi Shimizu, Hideo Nakata, Kiyoshi Kurosawa e Kōji Shiraishi) ma anche da una perfezione stilistica del già citato Yasujiro Ozu o del contemporaneo Hirokazu Kore'da.
 
Nonostante Strange Circus riesca a rappresentare a pieno queste due anime del cinema giapponese non vuol dire che sia privo di difetti; il più evidente è l'eccessivo indugiare di Siono su determinate dinamiche voyeuristiche riscontrabili in alcune parti dell'opera. 
 
Siono, tuttavia, riesce a portare a casa una delle opere più importanti del cinema giapponese contemporaneo trovando nell'estetica del  Grand Guignol uno del suoi aspetti più significativi. 

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Claudio Suriani Filmmaker





venerdì 9 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI (1968) DI GEROGE A. ROMERO - I capolavori del cinema zombie


 
 
Il cinema horror è sempre stato considerato dalla critica un sotto-genere di consumo; nonostante sia stato dimostrato quanto ciò sia erroneo da un punto di vista storico (si pensi all'intero movimento espressionista) e al lavoro di autori dalla forte componente orrorifica (si pensi a David Lynch, David Cronemberg o Shin'ya Tsukamoto per citare i più importanti), ancora oggi capolavori come La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968) faticano a ritagliarsi un posto nell'Olimpo dei film più importanti della storia del cinema.
 
Nonostante il film sia stato analizzato da diversi punti di vista (in promo luogo la critica feroce di Romero alla società americana e alla sua politica razziale nei confronti degli afroamericani) raramente è stato messo in luce la capacità di Romero di intuire la natura ultima del periodo storico in cui il film è stato prodotto: il 1968 e il suo movimento di protesta contro la guerra in Vietnam e la cultura borghese.
 
La notte dei morti viventi è uno dei film più rappresentativi degli anni 60 aprendosi anche ad una lettura generale sull'immagine cinematografica: nella sua intangibile presenza sia apre ad una natura profondamente perturbante alla pari dell'immagine fantasmatica e allucinatoria (Pre approfondimento consiglio Cinema e psicanalisi di Cristian Metz).
 
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Claudio Suriani Filmmaker

I SAW THE DEVIL (2010) DI KIM JI-WOON - Il giorno in cui vidi il diavolo.


 

Quanto un regista punta sul puro sensazionalismo senza curare la scrittura e la caratterizzazione psicologica dei personaggi ecco che nascono opere come I saw the devil (Kim Jee-woon, 2010). Il film parla delle gesta del serial killer Kyung-chul; un giorno, uccidendo la compagna dell’agente dei servizi segreti Soo-hyun, scatenerà in quest'ultimo una vendetta lunga e dolorosa.

 

Il revenge-movie è un sotto-genere cinematografico che annovera tra le sue fila opere di stampo underground (come Thriller: A Cruel Picture di Bo Anre Vibenius - 1974), opere mainstream dalla natura controversa (come Irreversible di Gaspar Noè – 2002) e nomi illustri della storia del cinema (come Ingmar Bergman con il suo La fontana della vergine – 1960). I saw the devil presenta diversi aspetti che lo allontanano dalle opere citate: il primo è il suo essere estremamente prolisso. Due ore e ventiquattro minuti per una storia di vendetta sono oggettivamente troppe soprattutto se il fulcro del film risulta privo di sottotesti meritevoli di essere approfonditi.  

 

Il secondo aspetto è che i personaggi principali attorno ai quali ruota l’intera vicenda hanno una caratterizzazione psicologica troppo debole da poter sostenere una vicenda così complessa e dolorosa.

L’intero film ruota intorno alla cruda violenza di entrambi i personaggi messa i scena con un ottimo montaggio e un ritmo accattivante ma che ad un occhio esperto e navigato non può bastare.

Sono assenti domande del tipo: Soo-hyun saprà elaborare il lutto della compagna? E se non ci riuscirà che deriva prenderà la sua vita? Mentre per quanto riguarda Kyung-chul cosa lo ha trasformato in un così atroce assassino? (in Il silenzio degli innocenti le turbe psichiche a sfondo sessuale dell’assassino sono delineate in maniera del tutto convincente).  

 

I saw the devil fallisce in quello che poteva essere il suo punto di forza: la rappresentazione del trauma inelaborato che conduce due persone così lontane tra loro verso orizzonti comuni; inoltre la scrittura di un film si basa non sull'idea di partenza ma sul suo sviluppo in particolar modo per un sottogenere cinematografico sviluppato negli anni attraverso numerose chiavi interpretative. Se in questa fase non si scava nella natura profonda dei personaggi e in una reale evoluzione delle vicende una messa in scena accattivante risulta come pura forma priva di sostanza. 

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Claudio Suriani Filmmaker


 

 


giovedì 8 dicembre 2022

THE BATMAN (2022) DI MATT REEVES - L’anima nera di Gotham City

 

Iniziamo da una considerazione generale: Batman è uno dei personaggi dei fumetti più sfruttati a livello cinematografico (il primo film è del lontano 1943 di Lambert Hillyer) ed è stato rielaborato in numerose chiavi interpretative fino al punto che Joker (Todd Phillips - 2019) è stato definito una riflessione sull’universo di Batman e non un film a sé privo di legami con l’universo di Gotham City. 



Data l’impossibilità di costruire un opera innovativa da un personaggio che non ha obiettivamente più nulla da dire è necessario indagare se il film di Matt Reeves riesce a farsi carico di interessanti peculiarità; il primo aspetto è la costruzione di un universo noir capace di allontanarsi dall’universo fiabesco del Batman di Tim Burton o dallo cinema hollywoodiano di Christopher Nolan. Nel film di Reeves ci sono echi del cinema di John Huston, Billy Wilder e Orson Welles contestualizzati in una contemporaneità in cui il rapporto uomo/schermo diventa un processo cardine di conoscenza del mondo (si consideri la sequenza iniziale di Blade Runner e il suo universo distopico). La natura noir di The Batman crea una Ghotam City profondamente oscura in puro stile espressionista; Reevees dimostra non solo di conoscere il cinema del passato ma di saperlo reinterpretare in chiave contemporanea fuggendo dal rischio di anacronismo spesso presente nel cinema odierno (si pensi a The artist - Michel Hazanavicius, 2011). The Batman è caratterizzato da un flusso di coscienza capace di rendere l’intera città di Gotham una proiezione dell’animo di Bruce Wayne e del suo senso di fallimento nei confronti di una missione degenerata in un desiderio di vendetta feroce e totalizzante. 
 

 
Il mondo oscuro di Gotham è la manifestazione diretta di un Bruce Wayne ormai privo di speranza ostaggio della sua identità segreta; Batman continua a lottare contro il crimine avendo compreso che non riuscirà mai a scalfire l’anima profonda di Gotham; questo elemento ci dà il segno di come il ruolo stesso della città all’interno del testo filmico risulti totalizzante nei confronti dei protagonisti (non solo di Bruce Wayne) dando all’intera opera un sapore politico in senso etimologico; un film che affronta il tema della polis e delle sue dinamiche interne. Non sono i personaggi a muovere gli eventi ma è la città stessa a vivere di vita propria rendendo gli stessi protagonisti schiavi di uno spazio cittadino privo di tensione verso il futuro.

Il tema della città è stato raccontato dal cinema sotto diverse chiavi come Manhattan (1979, di Woody Allen), Shadows (1959, di John Cassavetes), L.A. Confidential (1997,di Curtis Hanson, Los Angeles Plays Itself (2003, di Thom Andersen) Il Grande Lebowski, 1998, dei fratelli Coen e The Infinite Happiness (2015, diretto da Ila Bêka e Louise Lemoine) – solo per citare i più significativi. The Batman assimila l’immaginario di questi capolavori creando un universo dispotico profondamente radicato nella contemporaneità. 

 

L’eccessiva durata dell’opera (176 minuti) la pone in una doppia posizione: se la prima è l’inevitabile presenza di sequenze dal ritmo irregolare in cui l’anima del film tende a sparire a favore di esercizi di stile fini a se stessi (rischio presente in ogni opera eccessivamente lunga), dall’altra Reevees pare voler realizzare un opera epica grazie alla quale porre il sigillo finale alla vicenda di Bruce Waine; un testamento filmico carico di una spiritualità sofferta consapevole del fatto che la lotta di Batman è stata un fallimento è che ha ragion d’essere solo nell’idea della lotta perenne.

I personaggi dei fumetti non cercano la fine della propria storia; come Dylan Dog vivrà per sempre a Londra con Groucho, Batman è inscindibile dalla città di Gotham e dalla sua anima nera.

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Claudio Suriani Filmmaker













mercoledì 7 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - CROWN ZERO (2007) DI TAKASHI MIIKE - Dal manga di Hiroshi Takahashi


Ispirato al manga Crows di Hiroshi Takahashi Crows Zero è uno dei film più interessanti di Takashi Miike, autore conosciuto per la sua copiosa filmografia e meno per le sue grandi doti registiche. Crows Zero narra le vicende della Suzuran (un istituto superiore) e di Genji Takiya, figlio di un importante Yakuza di Tokyo, che si iscrive presso l’istituto con lo scopo di diventare il capo di tutte le bande giovanili della scuola. Nonostante sia un'opera caratterizzata da risse sanguinose e dall’elevazione della violenza come mezzo di affermazione sociale Crows Zero riesce a conservare una certa natura fumettistica che permette al film di non prendersi mai troppo sul serio; questo è un aspetto caratteristico del cinema di genere nipponico capace di portare avanti generi come l’horror estremo o la violenza giovanile attraverso uno stile autoironico riscontrabile nel cinema di Noboru Iguchi, Sion Sono e Yoshihiro Nishimura.


Genji Takiya
è il personaggio chiave attorno cui ruota l’intera narrazione; attraverso le sue gesta scopriamo un ambiente sociale caratterizzato da edifici distrutti e da adulti incapaci di incidere sugli eventi.

Crown Zero mette in scena una rottura generazionale caratterizzata da un codice d’onore tipicamente nipponico; in fondo è la Suzuran ad essere la vera protagonista del film in quanto non esiste uno sviluppo narrativo al di fuori di essa. In Crown Zero è la volontà di emergere di Genji a muovere l’intero corpus degli eventi senza sfociare in una fama di potere fine a se stessa; questo è un aspetto determinante perché l’opera di Miike si distacca da film come Gomorra (a cui è stato erroneamente paragonato) in quanto il film di Matteo Garrone è del tutto privo di ogni declinazione favolistica.

A differenza di opere marcatamente autoriali come Audition (1999) o Over your dead body (2014), Crown Zero resta un opera di intrattenimento senza tuttavia perdere il segno distintivo che da sempre contraddistingue il cinema di Takashi Miike.

 

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PILLOLE DI CINEMA - L'IMMAGINE ALLO SPECCHIO (1976) DI INGMAR BERGMAN - Il mostro che ci divora.

 

 


Nella filmografia di Ingmar Bergman L’immagine allo specchio viene subito dopo Il flauto magico e Scene da un matrimonio; è un'opera che scava negli animi tormentati dei protagonisti preparando lo spettatore (e forse l'intera storia del cinema) a 
Fanny e Alexander (1982, opera che segnerà la fine della sua carriera). Se in L'immagine allo specchio (1961) Bergman lavora sulla forza simbolica dell'immagine speculare nel film in questione sembra concludere tale percorso di ricerca in quanto le vicende della protagonsta (che torna a vivere nella casa dei nonni, l'assenza del marito  e l'immagine di una casa totalmene vuota) diventano un confronto forzato con traumi del passato mai elaborati.
 
Inoltre il tentato stupro e l'incominicabilità con la figlia alimentano ulteriormente il senso di angoscia di Jenny (interpretata da un'immensa Liv Ullmann, attrice feticcio di Bergman); se da bambina la natura rassicurante dei legami famigliari le permise di tenere lontani da sè quei piccoli (o grandi) rancori presenti in ogni famiglia, in età adulta il suo inconscio riemerge in tutta la sua forza gettandola in uno stato di sofferenza da cui si emanciperà con grande fatica.
 
Jenny troverà la forza di guarire grazie un semplice gesto carico di significato: vide la nonna accarezzare il nonno, ormai morente: il quel momento comprese che la forza dell'amore è superiore alla stessa morte.

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Claudio Suriani Filmmaker
 
 
 


martedì 6 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - KUSO (2017) DI FLYING LOTUS - Esperimenti di cinema dadaista




 
 
Kuso è un interessante esperimento di cinema dadaista in cui si avvertono influenze che vanno dalle animazioni di Terry Gilliam fino ai Monty Python passando per un'ossessione compulsiva per la pop art. La visione di Kuso è  quanto di più lontano dalla logica borghese dell'intrattenimento ed è necessario per cogliere le innovazioni dell'industria cinematografica underground. La storia del cinema è piena di opere capaci di superare la logica della narrazione classica (la prima è sicuramente il Kinoglaz di Dziga Vertov); Kuso si impone come la versione disgustosamente grottesca di questa scuola cinematografica.
Kuso è influenzato dal cinema di David Lynch, David Cronemberg, Shin'ya Tsukamoto e il body horror grottesco di Society (Brian Yuzna, 1989) tutto passato all'interno di quel tritatutto che si chiama rete digitale. In conclusione, Flying Lotus è il Marcel Duchamp del cinema contemporaneo e Kuso è il suo urinatoio.

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PILLOLE DI CINEMA - ACCATTONE (1961) DI PIER PAOLO PASOLINI - La fame dello Zanni

 
 
L'opera prima di Pier Paolo Pasolini mette in scena le storie mai raccontate del boom economico italiano: le periferie romane e la loro natura fortemente classista  sono lo scenario  per un sottoproletariato estromesso da ogni visione positiva per il futuro e per la stessa democrazia italiana che, con fatica, cercava di affrancarsi dalle dinamiche del ventennio fascista.
 
Nonostante il film sia affiancato al neorealismo se ne discosta sotto molti aspetti: il primo, di ordine cronoligico, è che Accattone e successivo al 1955 (anno in cui si ritiene che il neorealismo abbia terminato la sua spinta creativa) ma la più importante è l'influenza dell'arte figurativa messa  in scena attraverso tecniche registiche del cinema muto.

 Pasolini lavora sulla composizione dell'inquadratura considerata indissolubile dalle arti  del passato  in cui risuonano gli echi della pittura tre/quattrocentesca toscana che svilupperà ulteriormente in opere successive come Mamma Roma (1962), La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).

Inoltre a differenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) in cui le figure di Aldo Fabrizi  e di Anna Magnani catalizzarono l'immaginario dello spettatore (secondo la logica dello Star System hollywoodiano), in Accattone non esistono attori professionisti:  Franco Citti sarà per sempre Accattone in quanto non c'è separazione, di ordine professionale, tra lui e il personaggio.

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Claudio Suriani Filmmaker

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