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mercoledì 8 febbraio 2023

TITANE (2021) DI JULIA DUCOURNAU - RIPENSARE IL RUOLO DEI FESTIVAL

Nell’approcciarmi all’analisi di Titane, film vincitore della palma d’oro al festival di Cannes del 2021, ritengo necessario porre una domanda preliminare: qual è il ruolo dei festival del cinema? Come dovrebbero contribuire alla riflessione estetica rassegne come Cannes, Venezia e Berlino? E’ una domanda centrale per analizzare uno dei quesiti fondamentali che il film della Ducournau ha suscitato nel mondo della critica. 

 Titane narra le vicende di Alexia a cui  da bambina, a causa di un grave incidente, venne impiantata una placca di titanio in testa che la porterà in età adulta a sviluppare un rapporto feticistico con le auto. Il primo aspetto che balza agli occhi è il rapporto di ibridazione tra uomo e macchina. Ripercorrendo la storia del cinema notiamo che è un topos narrativo fin dai tempi di Metropolis (Fritz Lang, 1927) fino ad imporsi nel cinema contemporaneo attraverso autori come Shin'ya Tsukamoto con il suo manifesto Tetsuo (1989) David Cronemberg attraverso Crash e Videodrome (rispettivamente 1995 e 1983) opere talmente pregnanti  di significato da riuscire ad ampliare la portata del proprio messaggio nella sua declinazione digitale come in Ex Machina (Alex Garland ,2015),  E.R. intelligenza artificiale ( Steven Spielberg, 2011) oppure il capolavoro 2001, odissea nello spazio (Stankey Kubrick, 1968) in cui il rapporto con la tecnica si manifesta attraverso la nascita della stessa (come nella sequenza del primate che scopre i vari utilizzi dell’osso). A questo punto è necessario tornare alla domanda iniziale e chiederci se un film come Titane aveva la forza per imporsi nel festival di Cannes, soprattutto se pensiamo che la palma d’oro è un premio vinto da alcuni dei più grandi registi di tutti i tempi con opere che hanno creato un immaginario cinematografico moderno altamente rivoluzionario tra cui Viridiana (Louis Bunuel, 1961) Miracolo  a Milano (Vittorio de Sica, 1951) Il caso Mattei (Francesco Rosi, 1972) La conversazione e Apocalypse Now (Francis  Ford Coppola, rispettivamente 1974 e 1979) e mi fermo qui perché l’elenco sarebbe lunghissimo. Titane è un film che ha una sua dignità e che si inserisce in questo sotto-genere cinematografico ma nel momento in cui approda alle vette della cinematografia internazionale perde di credibilità in quanto è un’opera che non aggiunge nulla alla riflessione teorico/estetica sull’arte cinematografica. Le altre tematiche come la gravidanza, la sessualità fluida, il titanio come simbolo  della perdita di umanità riescono a essere carichi di un  politically correct che non può sposarsi con uno shock movie con ambizioni autoriali; paradossalmente il suo film precedente (Raw; una crudele verità, 2016) risultava essere molto più efficace perché nel suo essere altamente violento riusciva a conservare forti tratti di autenticità e di libera espressione di idee. Titane si muove su un equilibrio precario tra immaginario horror shock e desiderio di accedere all’olimpo del cinema d’autore fallendo tuttavia in entrambe le aspirazioni in quanto la storia del cinema ha dimostrato che l’immaginario horror shock percorre strade diverse da quelle dei grandi maestri e proprio attraverso questa libera espressione di sé  tali opere continuano a essere amate e a influenzare il cinema contemporaneo ( si pensi al capolavoro di Tobe Hooper The Texas Chain Saw MassacreNon aprite quella porta del 1974 e agli innumerevoli sequel e remake che ha avuto nel corso degli anni). 

 


Un altro punto di forte debolezza del film è la volontà dichiarata della regista di attribuire alle donne una sorta di dignità nella violenza emancipandole dal ruolo di vittime; attribuire alla mera violenza una sorta di rivincita sociale non solo tende ad affrontare tale tematica con profonda ingenuità ma arriva a rendere pedante un cinema che non si è mai fatto portatore di facili moralismi. La notte dei morti viventi di George Romero (1968) si inserì nella lotta per i diritti civili degli afroamericani e nel suo denunciare il razzismo dell’uomo bianco non arriva mai a essere retorico o demagogico. Avere un’autorialità forte e riconoscibile richiede il coraggio di percorrere strade inesplorate e Julia Ducournau con il suo Titane fallisce tale sfida.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

 

THE KIDS (1995) DI LARRY CLARKE - UN FILM INVECCHIATO MALE

Entrai in contatto con The Kids molti anni fa e già allora lo reputai un film mediocre.

Nonostante sia un amante della cultura underground (cinematografica e musicale) fin dalla prima visione del film di  Lerry Clarke non riuscivo a entrare in empatia con i giovani protagonisti e con le loro (non) avventure totalmente prive d’interesse per me. Il sesso, la droga e la violenza, che a detta della critica meainstream dovrebbero rappresentare la vita giovanile delle periferie americane,  per l’intera durata del film non si ergono mai a un potere rappresentativo di una generazione o di uno spaccato sociale.

 

Siamo agli inizi degli anni novanta e nei bassifondi americani imperversa la rivoluzione del Punk Hardcore (svolta stilistica del punk rock che portò il genere verso un’estremizzazione delle tematiche e delle sonorità) mentre a livello cinematografico gli autori nati in contesti d’avanguardia riuscivano a imporsi al grande pubblico conservando  tuttavia una forte marca autoriale (si pensi al successo televisivo di David Lynch con Twin Peaks, Jim Jarmush con opere come Stranger Than Paradise (1984) e Down By Law, Abel Ferrara con Il cattivo tenente (1992), The Addiction (1995) ma anche la visionarietà dei primi successi di Tim Burton come Edward mani di forbice (1990), Sleepy Hollow (1999) e la nascita del fenomeno Quentin Tarantino. Il contesto culturale americano anni novanta conservava le linee guida dei protagonisti della scena culturale aprendosi tuttavia a un pubblico sempre più ampio attraverso diversi approcci all’arte di riferimento. In The Kids ciò che appare eloquente è che lo stesso Larry Clarke dimostra non solo di ignorare il mondo giovanile ma di averne una profonda disillusione: un paese come gli Stati Uniti fin dalla rivoluzione del 1968 ha trovato nei giovani una profonda spinta rivoluzionaria e creativa i cui risultati sono ancora oggi pietre miliari della cultura internazionale. Erano anni in cui i temi trattati da Larry Clarke venivano affrontati dalla Silver Factory di Andy Wharol in chiavi fortemente espressive: il forte uso di droghe,  la pornografia e personaggi transgender compaiono attraverso diverse tipologie di opere non solo cinematografiche (si pensi a film come Blow Job – 1964 – e Kiss  1963) ma anche musicali (come i Velvet Undergroud e l’intera psichedelia degli anni settanta). In The Kids non c’è nulla di tutto ciò. 

E’ un film carico di un nichilismo fine a se stesso e autocompiacente incapace di andare oltre il proprio seminato per dar vita a una pellicola in cui gli stessi ragazzi delle periferie del mondo (non solo americane) non riescono più ad immedesimarsi  per creare una visione comune.

L’aspetto più controverso è che Clarke si fa carico di un messaggio involontariamente reazionario nel momento in cui si assume la responsabilità di dipingere i giovani americani del tutto privi di interessi e capaci solo di prevaricare il prossimo (come lo sverginatore seriale) facendo, di conseguenza, enormi passi indietro rispetto al suo lavoro da fotografo.

La sua raccolta fotografica intitolata Tulsa (dal nome della città dell’Oklahoma in cui Clarke è nato)  si impose nella storia della fotografia come una raccolta di immagini …cariche di una feroce onestà! (Dick Chevenrton sul Detroit Free Press). Erano le immagini  della sofferenza dei giovani del piccolo centro americano  senza scivolare verso una facile retorica o un autocompiacimento fine a se stesso. Era un manifesto di giovani sofferenti ma combattivi!

In The Kids non solo questa forza identitaria manca ma rischia di far scivolare il centro della discussione verso una facile critica verso i cosiddetti giovani d’oggi.


Da un punto di vista formale un’opera del genere non può ergersi a documento di uno spaccato generazionale (come spesso è stato definito) in quanto il cinema narrativo nasce dallo sguardo soggettivo dell’autore e non riesce a far emergere il valore politico dell’immagine (si pensi  al montaggio nel cinema di Sergej Ėjzenštejn ed al pluri sguardo sul mondo di Dziga Vertov). Un’opera come The Kids ci appare un film invecchiato male non solo perché lo sguardo di uno spettatore attento  e consapevole diventa, giocoforza, critico nel senso creativo del termine (capace di dare interpretazioni diverse da quelle dell’autore) ma si inserisce in un contesto storico in cui il concetto di verità del cinema narrativo è ampliamente superato a favore di una multimedialità divenuta un esperienza quotidiana. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

martedì 7 febbraio 2023

FREAKS OUT (2021) DI GABRIELE MAINETTI - La memoria perduta

 

Freaks Out narra le vicende di un gruppo di fenomeni da circo durante l’occupazione nazista di Roma e porta con sé numerosi interrogativi che necessitano di essere contestualizzati. Gabriele Mainetti lavora su una zona di confine tra universo fiabesco e gli orrori della seconda guerra mondiale, approccio che Roberto Benigni portò avanti con La vita è bella ma che lui sviluppa ulteriormente con risultati migliori dal punto di vista visivo ma ugualmente poveri da un punto di vista contenutistico.


Un primo aspetto di carattere generale è che Freaks Out è un opera di corto respiro: il cinema degli ultimi anni ha prodotto numerose opere ambientate nel mondo circense come The greatest showman del (2017) Big Fish, Le storie di una vita incredibile (Tim Burton, 2003) Mirror Mask (Dave McKean, 2005) e Dumbo (Tim Burton 2019) senza dimenticare i classici come Il circo (Charlie Chaplin, 1928) e La strada (Federico Fellini, 1954) oltre a serie tv di alto valore come Carnivale (HBO, 2013). In Freaks Out la caratterizzazione dei personaggi resta legata a doppia mandata all’anima popolare delle strade di Roma  a differenza delle opere citate che si sono imposte nella storia del cinema come capolavori del genere circus grazie alla loro capacità di narrare storie universali. Questo è un aspetto riscontrato molte volte nelle produzioni RAICINEMA: nel produrre opere che fin dalla loro uscita mirano ai passaggi televisivi in prima serata si arriva a mettere in scena un film per famiglie de tutto privo di incisività (a differenza del fascino perverso di Freaks di Tod Browning). 

 L’aspetto tuttavia più complesso è la rappresentazione della questione ebraica. In Freaks Out la fiaba tende a fagocitare il tema della memoria storica rendendola quasi un’appendice. Mainetti sembra dimenticare (o peggio non conoscere) l’analisi di Serge Daney del film Kapò (G. Ponecorvo, 1960): l’opera di Pontecorco ci dimostra, come scrisse Daney, che Non ci si deve mai mettere dove non si è, né parlare al posto degli altri. La questione ebraica in Freaks Out resta una tematica di contorno del tutto secondaria rispetto alle vicende dei protagonisti e questo è un aspetto della massima importanza non solo perché è un punto cardine per gran parte della critica contemporanea (si pensi al  rapporto che esiste tra opere come Nuit et brouillard di Alain Resnair, Shoah di Claude Lanzmann e L’Histoire(s) Dù Cinemà  di J.L.Godard) ma porta con sé la capacità di dare valore testimoniale alle immagini per rendere giustizia alle vittime non solo della Shoah ma anche degli orrori contemporanei. Questa debolezza strutturale rende Freaks out un film adatto alle prime serate in famiglia ma che toglie a Gabriele Mainetti una forte marca autoriale e la capacità di ritagliarsi un posto all’interno del panorama del cinema italiano e internazionale (e in questo risulta un forte passo indietro rispetto a Lo chiamavano Jeeg Robot) perché il paragone con i capolavori del genere circus sono inevitabili e come abbiamo visto non regge il confronto.

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Claudio Suriani Filmmaker

 

NON SIAMO PIU' VIVI (2022) - UN TEEN-HORROR DI CUI NON SI SENTIVA IL BISOGNO

E’ possibile sviluppare idee nuove attraverso una tematica ormai ben strutturata come l’universo zombie? E’ possibile creare non capolavori…ma opere che diano da pensare e che sviluppino un dibattito? L’ultima serie coreana prodotta da Netflix, Non siamo più vivi, ci dice purtroppo di no. Non siamo più vivi, basato sul manga All of Us Are Dead, racconta di un apocalisse zombie in una piccola città sudcoreana e le vicende di un gruppo di studenti braccati nella propria scuola e abbandonati a se stessi dalle istituzioni. Fin dai primi episodi ciò che appare chiaro è l’estrema ripetitività di tali tematiche (non solo all’interno della serie ma anche nell’intera tradizione audiovisiva sullo zombie); la soglia che divide vita e morte e il suo legame con la dimensione biologica è una tematica che si apre, potenzialmente, ad innumerevoli possibilità interpretative (come hanno dimostrato Robin Campillo prima e Fabrice Gobert rispettiva mente con The returned e Les Revenants); inoltre il suo essere rivolto ad un pubblico di adolescenti ha ulteriormente impoverito una tematica molto più complessa di come appare e dalla grande tradizione cinematografica (ricordiamo che il primo film zombie è del 1932 (L'isola degli zombies di Victor Halperin – 1932). La struttura narrativa presenta tematiche deboli e poco convincenti (come la creazione di un virus da parte di un professore di scienze, per permettere al proprio figlio di difendersi dai bulli della scuola) e  inoltre ciò che poteva rappresentare un attacco alle istituzioni sudcoreane (come la decisione di bombardare la città da cui nasce l’epidemia o quella di abbandonare i giovani protagonisti al loro destino) appaiono come scelte difficili da parte delle autorità ma in fondo giustificabili.

Tuttavia il punto più debole dell’intera serie è il rapporto tra l’orrore della violenza zombie e il mondo adolescenziale caratterizzato da topos narrativi ricorrenti (come gli innamoramenti o il pensare alle vicende scolastiche quando ormai la scuola e la propria città non esistono più).

Non siamo più vivi nel mettere in scena un teen-horror a tematica zombie cerca di conservare tratti di positività e di speranza per il futuro ed è qui che fallisce il proprio scopo: non può esserci lieto fine in un’apocalisse o in un bombardamento  a tappeto di una città perché i morti gridano giustizia (come il protagonista di La notte dei morti viventi) oppure ciò che può nascere dal terrore prima, e dall’orrore poi, è un futuro incerto carico di suspense e di incertezza (come nel finale di Gli uccelli - Alfred Hitchcock , 1963).

 

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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 6 febbraio 2023

BENEDETTA (2021) DI PAUL VERHOEVER - TRASCENDENZA E CARNALITA'

Misticismo, seduzione e un profondo desiderio carnale.

Paul Verhoeven narra così le vicende di Benedetta Carlini basandosi sull’opera di Judith Brown  Atti impudici (Torino, Il Saggiatore, 1987) in cui i temi della religiosità, la passione erotica e il lesbismo emergono in modo decisivo creando una profonda tensione narrativa. Fin dalla sua uscita Benedetta è stato messo in relazione con  Elle (2016)  per due tematiche principali: l’analisi dei desideri  delle protagoniste espressi attraverso una dialettica tra dominio e sudditanza e la ricerca di un racconto autobiografico rivolto alla descrizione di una personalità complessa come quella di Benedetta Carlini. La storia del cinema, nell’epoca dei grandi colossal, ha prodotto importanti pellicole sulla cristianità come La Più grande storia mai raccontata (George Stevens, 1965), Re dei re e I dieci comandamenti (Cecil de Mille rispettivamente del 1927 e del 1956) fino alla rivisitazione pasoliniana de Il vangelo secondo Matteo (1964) l’universo grottesco di Totò che visse due volte (Ciprì & Maresco, 1998) fino a una serie di opere caratterizzate da una trascendenza post-cristiana capaci di inglobare nella propria analisi la perdita della fede come elemento di ricerca; le opere più importanti in questo senso sono Diario di un curato di campagna (Robert Bresson, 1950), Ordet (Carl Theodor Dreyer, 1955) La ricotta (P. P. Pasolini, 1963) e Luci d’inverno (Ingmar Bergman, 1963). Se le opere citate affrontano la crisi della religiosità classica da un punto di vista filosofico Verhoeven narra l’universo delle monache teatine attraverso il rapporto fra trascendenza e carnalità in cui la statua della Vergine Maria viene usata come strumento sessuale o la rappresentazione del Cristo come puro oggetto del desiderio della protagonista. Nonostante le vicende della Badessa Carlini si prestino ad una visione blasfema della cristianità, questa irriverenza viene mitigata non solo dallo stile classico della narrazione ma soprattutto dal fatto che dopo il già citato Totò che visse due volte, opera definita per la prima volta vietata a tutti, è stata storicizzata ogni forma di rappresentazione sacrilega della cristianità.

 Oggi nulla può più scandalizzarci.

Inoltre è stato ipotizzato che la rappresentazione dell’amore saffico all’interno di un convento sia un mezzo per solleticare le fantasie maschili (e forse non solo) in quanto figlie di certi b-movie come Il diavolo in convento (Mario Amendola, 1981) o L’altro inferno (Bruno Mattei, 1981) considerazione che appare in tutta la sua fragilità perché l’universo monastico è presente anche in opere d’autore come Spostamenti progressivi del piacere  (Alain Grillet, 1974) ma anche perché l’amore lesbico è stato del tutto sdoganato non solo dal cinema ma anche dalla serialità televisiva. Paul Verhoeven nella sua carriera ha dimostrato di essersi emancipato dal meainstrem come Robocop e Basic Instinct (rispettivamente del 1987 e del 1992) grazie a Elle (2016) in cui traspare non solo una grande cura per la scrittura ma soprattutto una maggiore libertà stilistica. Tuttavia se come disse Jean-Luc Godard Ogni film è politico in Benedetta ciò si declina in una riflessione sul ruolo del cinema narrativo nella società contemporanea (e la tecnica che la contraddistingue) capace di raccontare storie ma non di cogliere la natura dell’immagine digitale. 

 

 


Oggi il fantasma cinematografico teorizzato da Cristian Metz è un concetto del tutto obsoleto. Il cinema ha vissuto il percorso inverso della musica in quanto, mentre questa è divenuta liquida nel passaggio dalla materialità dei dischi all’immaterialità di Spotify, il cinema negli anni è passato dall’immagine/fantasma alla materialità dei dispositivi elettronici (smartphone, tablet e pc) che lentamente stanno sostituendo non solo le sale ma anche le videoteche. La rappresentazione cinematografica del mistico e della sua antitesi nella sensualità del corpo femminile, rendono Benedetta un’opera di buon livello che, tuttavia, stempera la sua forza sacrilega in quanto sono state opere come La ricotta, Totò che visse due volte o Anche i nani hanno cominciato da piccoli (Werer Herzoh, 1970) a tracciare un solco di valore storico in cui possiamo intravedere un prima e un dopo.

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Claudio Suriani Filmmaker

ANNETTE (2021) DI LEOS CARAX - UNA FIABA CONTEMPORANEA

 

Annette è figlio della rinascita del musical degli anni 2000 che vede tra le proprie fila opere come The Greatest Showman (Michael Gracey, 2017), La La Land (Damien Chazelle, 2016), Chicago (Rob Marshall, 2002), Moulin Rouge! (Baz Luhrmann, 2001) e molti altri di indiscusso valore…si…ma Leos Carax viene da un film come Holy Motors in cui emerge una marcata linea autoriale… possiamo supporre quindi che Annette si distanzi dal musical classico? Vediamo… Il primo aspetto è una scrittura caratterizzata da una volontà di velare piuttosto che di narrare. In diversi passaggi chiave i protagonisti fuggono dallo sviluppo conseguenziale degli eventi senza creare il fascino del mistero; se durante i suoi spettacoli Adam è incalzato dal pubblico con la domanda Perché sei diventato comico? è per creare una forma di spettacolo interno al film e non per portare avanti la narrazione in modo causale; emerge inoltre un vincolo che lega in modo diretto il pubblico degli spettacoli e noi spettatori. La nostra  chiamata in causa  è centrale in Annete in quanto ci spinge a creare un rapporto enigmatico (attraverso il prologo in cui Carax si rivolge direttamente a noi chiamandoci ad un surplus di attenzione) con il pubblico degli spettacoli di Henry (non di Ann in quanto il mondo della lirica non prevede un’interazione con il pubblico). Questa fusione ci permette di implementare la forza drammatica delle vicende perché lo sguardo fuori campo diventa capace di dare ad un genere ben strutturato come il musical un forte tocco di modernità.

 


Annete è caratterizzato dal legame con il mondo della drammaturgia attraverso un ulteriore elemento formale prettamente cinematografico: il piano sequenza (PS). Nonostante le teorie classiche del cinema teorizzarono il PS come un possibile mezzo per rappresentare la realtà (termine che oggi necessita di un radicale approfondimento) in quanto appartenente al découpage classico (insieme alla profondità di campo) la storia del cinema ci mostra come molte delle opere cinematografiche più innovative non solo abbiano lavorato su questo mezzo espressivo anche nella più stretta contemporaneità come Aleksandr Sokurov in Arca russa (2002), Gustavo Hernandèz con La casa muta (2012), Alfonso  Cuaron con Gravity (2013) e il cinese Bi Gan con Un viaggio lungo una notte (2018) ma ad oggi il découpage classico è una struttura formale ormai del tutto sorpassata dalle nuove tecnologie grazie alle quali l’atto di filmare diventato parte integrante della società contemporanea. La realtà del piano sequenza in Annete ci mostra un’opera carica di due echi contrapposti: la classicità della lirica incarnata da Ann e la modernità degli spettacoli comici di Henry in cui il rapporto dialettico tra attore e pubblico si esprime anche attraverso le nuove tecnologie, aspetto chiave in cui si materializza l’intermedialità dell’opera di Carax. 

 



Annette nel suo ultimo spettacolo (quello che doveva sancire il suo abbandono delle scene) appare non solo in diversi smartphone e tablet ma la sequenza termina dietro uno schermo che, a differenza dei primi spettacoli del padre, la separa non solo dal pubblico ma anche da noi spettatori. Se la tecnica diviene una barriera che si frappone tra noi e l’immedesimazione nei personaggi, questo è ancor più vero nel caso della nostra protagonista. Inoltre, a differenza di La doppia vita  di Veronica (Krzysztof Kieślowski, 1991) il suo essere marionetta per quasi l’intero film non sembra rifarsi alla grande tradizione del teatro delle marionette ma esprime l’utilizzo della tecnica come mezzo espressivo tipico del cinema contemporaneo. Nel far riemergere la voce della madre attraverso un carillon e il suo gioco di luci Annette, personaggio al limite tra tecnica e autodeterminazione, diviene il nodo focale attorno al quale ruota la svolta decisiva del film. Il personaggio di Annette è saturo di un legame innaturale con il mondo esterno portandola ad un desiderio di emancipazione che non potrà mai compiersi del tutto; dopo la sua rivincita nei confronti del padre Annette torna ad essere una marionetta … ormai abbandonata da tutti.

Nonostante il suo personaggio possa rimandare alle grandi marionette della storia del cinema è necessario ricordare che il topos narrativo dell’animazione dell’inanimato rievoca in modo diretto non solo i classici dell’horror  ma l’intero universo perturbante come le opere iconiche Eva futura (del 1886) o Frankenstein (o il Prometeo Moderno, 1816-1817) fino  al grande cinema muto tedesco con opere come Homunculus (1916) di Otto Rippert, poi con le due versioni del Golem (1914 e 1920) di Paul Wegener; con lo sberleffo di Ernst Lubitsch con Bambola di carne (Die Puppe, 1919); con Metropolis ( Fritz Lang, 1927).

Annette di Leos Carax nonostante lavori su diversi piani interpretativi riesce ad infondere allo spettatore un senso di inquietudine allo stesso tempo profondo e inafferrabile ed è su questo topos narrativo che l’intero cinema di Carax muove i suoi aspetti più interessanti.

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Claudio Suriani Filmmaker

sabato 21 gennaio 2023

NON APTITE QUELLA PORTA (2022) DI DAVID BLUE GARCIA - Come distruggere un mito


 

Quando una multinazionale dell’intrattenimento cerca di cavalcare una saga che ha dettato le regole estetiche per gran parte del cinema horror degli ultimi anni nasce una pellicola adatta esclusivamente a un gruppo di ragazzini intenti ad ingozzarsi di popcorn: credo che non esista presentazione migliore per quest’ultimo capitolo di Non aprite quella porta.  Per comprendere l’intera operazione è necessario partire dal fatto che è un film di una piattaforma. Questo significa che il ruolo del regista è subordinato ad una spettacolarizzazione del tutto priva di quel fascino perverso che anima l’opera di Tobe Hooper. Questo aspetto separa la figura del regista da quella dell’autore: il primo ha un mero scopo esecutivo mentre il secondo esprime un'estetica riconoscibile in ogni sua opera. L’ultimo capitolo della saga di NAQP è l’esempio perfetto di come ogni produzione delle piattaforme digitali (con rarissime eccezioni come Roma di Alfonso Quaron) abbia un effetto diretto sulla natura stessa dell’opera a causa delle logiche di mercato (in Italia si pensi a RAI CINEMA e alla standardizzazione delle sue produzioni). L’opera di Tobe Hooper aveva invece una forte marca autoriale come La notte dei morti viventi di George Romero, Draucla di Tod Browning o il nostro La maschera del demonio di Mario Bava, opere che riuscivano ad andare oltre la logica di genere costruendo sottotesti e chiavi di lettura diverse senza distaccarsi dal contesto storico/sociale in cui erano usciti. Il cinema horror se viene privato di un'autorialità marcata e riconoscibile cade in cliché estetico/narrativi spesso di cattivo gusto, questo film ne è saturo non solo per scelte registiche grossolane (come il massacro nel disco bus in diretta streaming) ma anche per buchi narrativi e personaggi stereotipati al limite del ridicolo (come personaggi tranciati dalla motosega e subito dopo ancora vivi oppure l’uomo duro di buon cuore che spavaldo corre a salvare la protagonista... telenovela messicana di quart’ordine). Nonostante tali difetti strutturali ritengo che l’aspetto peggiore sia la totale mancanza di una critica politico/sociale.


Nel 1974 gli Stati Uniti affrontarono una profondissima crisi sociopolitica dovuta allo scandalo Watergate e alla guerra in Vietnam con la relativa contestazione giovanile dopo che pochi anni prima era emerso l’orrore per le vicende di Ed Gien che portò con sé una profondissima crisi del concetto stesso di famiglia e di sogno americano. In tale contesto storico il terrore viscerale dell’opera di Hooper era legato a doppia mandata alla distruzione di quell’universo rassicurante tipico della cultura di massa americana ormai collassata grazie a un'opera di rara brutalità capace di prendere in carico gli orrori che il popolo americano voleva rimanessero nascosti. Di contro, l’universo delle piattaforme digitali è quello della pizza e birra sul divano, dell’illusione di avere la conoscenza a portata di mano (come la pornografia online) privandoci allo stesso tempo dell’esperienza della sala e in generale del rapporto con la propria comunità (si pensi agli effetti psichici del fenomeno Binge watching). 

 

Netflix, attraverso questa operazione cerca subdolamente di accontentare chi vuole esclusivamente litri di sangue senza alcuna contestualizzazione né narrativa né storico/sociale...la fotografia è talmente patinata da essere adatta alle pubblicità dei pannolini o del cibo per gatti lontana anni luce dai colori caldi saturi di polvere e sudore che riuscivano a immergere lo spettatore nella violenza animalesca di Leatherface senza possibilità di fuga. In questa mediocrità corrosiva ciò che tuttavia mi rassicura è il fatto che i capolavori non verranno mai intaccati da tale immondizia...le opere dei maestri vivranno per sempre.

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 20 gennaio 2023

NIGHTMARE IN A DAMAGED BRAIN (1981) DI ROMANO SCAVOLINI - L'orrore del rimosso


 
La carriera registica di Romano Scavolini inizia nel 1964 con il suo primo lungometraggio La quieta Febbre per proseguire fino al 2012 con film di genere di diversa natura: documentari come Così vicino così lontano (1970) e Lsd (1970) e la trilogia incappata nella censura A mosca cieca (1966), La prova generale (1968) ed Entonce (1968) fino ad opere a carattere storico come Ustica, Una spina nel cuore (2001) e Le ultime ore del Che (2004). 

 

Tuttavia l’opera per cui è maggiormente ricordato è lo slasher Nightmares in a Damaged Brain del 1981, opera che si pone come uno dei film più importanti del genere per la sua capacità di rappresentare il concetto di trauma freudiano (evidente l’influenza del cinema di Alfred Hitchcock, specialmente di Marniedel 1964). La trama è la seguente: George Tatum, criminale con profonde turbe psichiche, viene dimesso dall’ospedale psichiatrico in quanto il suo medico lo ritiene guarito dalle sue psicosi. Fin da piccolo la sua malattia ruota attorno a un sogno ricorrente: un bambino che assiste a una scena di sesso tra un uomo ed una donna nell’atto di un rapporto sado, l’uomo legato al letto dalla donna e picchiato duramente.


Tuttavia fin dal primo colloquio di Tatum con il terapeuta scopriamo che la dinamica del sogno non è chiara in quanto Tatum non riesce a capire il suo ruolo all’interno del sogno (non sa se lui osserva la scena, se è lui il bambino del sogno e il ruolo dell’uomo; inoltre quando il medico gli fa questa domanda diretta lui ha una crisi nervosa). Il nostro protagonista tuttavia non è affatto guarito, comincia a trucidare vittime innocenti e, dirigendosi in California, viene morbosamente attratto da una famiglia composta da madre e tre figli; alla fine del film scopriremo non solo che il bambino del sogno è lo stesso Tatum ma che le sue nevrosi da adulto hanno come causa la rimozione dell’omicidio del padre e della donna in questione per mano sua. Per l’analisi del film rivolgiamo la nostra attenzione al concetto di trauma iniziando dalla prima definizione che Freud ne diede in una delle sue prime opere: Il trauma si dovrebbe definire come un incremento di eccitamento nel sistema nervoso che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria (Freud S., Breuer J., 1892-1895, pag. 156). Inoltre in uno scritto del 1920, mettendo in rapporto gli eventi traumatici con gli effetti sull’individuo, l’accento non è posto su l’evento traumatizzante in sé ma su gli affetti penosi del terrore, dell'angoscia, della vergogna, del dolore psichico (Ibidem, pag. 177).

 


 
Nel momento in cui il giovane Tatum vede il proprio padre nel pieno di un rapporto sessuale, per di più in una posizione di sottomissione fa emergere una profonda pulsione di morte che lo porterà non solo ad ucciderli entrambi, ma a manifestare in modo devastante ciò che Freud definì incremento di eccitamento nel sistema nervoso.

Tatum nel corso di tutto il film ricerca, attraverso i suoi omicidi, sia l’esperienza che ha determinato la breccia inferta nella barriera protettiva, attraverso il meccanismo della coazione a ripetere, sia il soddisfacimento di una pulsione sessuale che trova nell’ascia la scarica energetica attraverso un oggetto parziale. Tatum non arriva mai ad avere un rapporto fisicamente soddisfacente (e neanche parzialmente come nella scena della spogliarellista) e esemplifica lo sviluppo teorico freudiano della teoria traumatica: dal momento dell’omicidio non è più l’atto in sé ad essere traumatico quanto la sua mancata elaborazione attraverso le vicende che lo vedono protagonista. L’io di Tatum è consapevole dell’orrore delle sue azioni ma è la pulsione di morte a guidarlo arrivando a vivere la propria morte come una liberazione.

 

Da un punto di vista formale Nightmares In a Damaged Brain è in linea con le maggiori opere definite Video Nasty (termine ideato dalla censura del Regno Unito per indicare opere audiovisive particolarmente violente e commercializzate come home video) come I Spit on Ypur Grave (Non violentate Jennifer – Meir Zarchi, 1978) La casa (Sam Raimi, 1981) o La casa sperduta nel parco (Ruggero Deodato, 1980) opere caratterizzate da una messa in scena di taglio televisivo e prodotte per il mercato degli home video. Nightmares In a Damaged Brain trova il suo punto di maggior interesse nella rappresentazione del rimosso e della coazione a ripetere freudiana e arrivò ad influenzare fortemente il mondo della cultura underground (come ad esempio la copertina del disco del Cripple Bastards Massacrecore del 1997).

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Claudio Suriani Filmmaker

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