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mercoledì 22 marzo 2023

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE (2022) DANIEL KWAN E DANIEL SCHEINERT - BENVENUTI NEL MULTIVERSO


Il nuovo film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, vincitore di dieci statuette agli Oscar 2023, si sta imponendo come uno dei film più importanti degli ultimi anni non solo per il riscontro della critica ma anche per la sua capacità di rinnovare il linguaggio cinematografico. Dopo la prima visione,  decisamente faticosa, ho intuito che per entrare nei meccanismi dell’opera dovevo rivolgermi a Carlo Rovelli e alla sua opera Sette brevi lezioni di fisica. Nonostante Everything everywhere all at once sia una delle opere più visionarie degli ultimi anni (e forse dell’intera storia del cinema) nel momento in cui siamo chiamati a rendere sistematica questa forza visionaria scopriamo con profondo piacere che la capacità di guardare oltre non è in antitesi con un approccio scientifico. Rovelli: …la scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La forza dell’immaginazione è da sempre ciò che spinge l’essere umano a un impegno sistematico per provare o smentire (in una parola creare) la propria visione del mondo che da sempre accomuna scienza e arte.

In Everything everywhere all at once tutto ruota intorno all’universo e alle leggi che lo animano. Nella terza lezione intitolata L’architettura del cosmo Rovelli afferma che … esistono quindi migliaia di miliardi di miliardi di pianeti come la Terra nell’universo. E in ogni direzione si guardi questo è ciò che appare. Fin dalle  origini il cinema ha seguito  due indirizzi generali: il desiderio di raccontare diversi livelli di realà ( dinamica che possiamo già trovare in George Melies con Il viaggio sulla luna del 1902 per citare il più famoso) e la necessità di filmare il mondo allo scopo di documentarlo con approcci antropologici, come nell’archivio di Alber Kahn.

Nel corso degli anni questo dualismo si è molto assottigliato e ogni autore ha sviluppato  la propria visione di mondo in modo del tutto personale. Oggi il cinema e l’audiovisivo in generale sono  un insieme eterogeneo: la visione immersiva della sala è diversa, se non opposta, a quella delle piattaforme streaming nelle quali lo spettatore entra a piene mani nell’opera stessa stoppando e creando dei montaggi involontari e infiniti collegamenti in quanto la rete non conosce titoli di testa e di coda.

 

Everything everywhere all at once punta a mettere in scena queste galassie interconnese non da regole prestabilite ma dal caso. Nel film la versione alphaverso di Weymond (Ke Huy Quan) spiega a Evelyn (Michelle Yeoh) che solo attraverso azioni casuali prive di senso le permetteranno di accedere ai diversi universi possibili, e Rovelli ci spiega come il caso sia una vera e propria componete della fisica (teorizzata da Ludwig Boltzmann) capace di spiegare perché il calore tende a muoversi verso il freddo (e non viceversa).

Brevemente: il calore nel passaggio dal caldo al freddo non risponde a regole universali fisse ma lavora per grande probabilità influendo direttamente sulle dinamiche del tempo. Rovelli chiarisce che quando non c’è scambio di calore (causato dall’attrito degli atomi) il futuro si comporta esattamente come il passato, ma quando gli atomi si muovono dando vita ad un contrasto capace di generare calore, futuro e passato divergono.

Questo è un passaggio decisivo in Everything everywhere all at once: il primo approdo di Evelyn nel multiverso le fa rivivere la propria vita così come la ricorda anche se il personaggio di Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis) le appare da subito come conflittuale … una conflittualità destinata a crescere in modo esponenziale. In Everything everywhere all at once il conflitto, da un punto di vista narrativo, non è unidirezionale ma si sviluppa dal punto di vista di ogni personaggio: non solo la figlia Joy diventerà la terribile Jobu Tubaki (un agente del chaos) ma ogni singola comparsa diventerà un elemento capace di influenzare l’approdo dei protagonisti nell’infinita galassia del multiverso. La violenza (o attrito per dirla con Rovelli) in Everything everywhere all at once diventa la rappresentazione del movimento atomico nello spazio capace di influenzare le dinamiche del calore ma, soprattutto, del tempo.

 

Questo ci porta direttamente alla legge generale della relatività in quanto lo spazio non è un ambiente neutro ma qualcosa di dinamico e se tale dinamicità è invisibile dal punto di vita fisico in Everything everywhere all at once diviene il punto centrale dell’intera opera riuscendo a mettere in relazione il più piccolo granello di polvere con il macrocosmo in un vortice di interconnessioni talmente veloci da mettere a dura prova lo spettatore…specialmente durante la prima visione. Le interconnessioni di cui stiamo parlando non si riferiscono solo al continuo passaggio nei diversi universi possibili ma anche alla natura stessa dei protagonisti: Evelyn e Joy passano dall’essere persone, disegni elementari di bambini, pignatte appese pronte per essere rotte fino a sassi inanimati in un mondo privo di vita.

Le forme di vita messe in scena da  Kwan e Scheinert  vanno dal grottesco, come avere dei wuster al posto delle dita, al  rammarico, come una carriera di successo nel caso in cui Evelyn e Weymond non si fossero sposati, in una rappresentazione dell’universo(i) che riesce a essere al tempo stesso  complessa e autoironica.

 

Consideriamo Jobu Tupaki e il suo universo racchiuso in un Bagel.

Questo elemento, apparentemente autoironico, non può che rifarsi alla gravità quantistica a loop, teoria della fisica contemporanea capace di unire la relatività generale con la meccanica quantistica, leggi che regolano l’universo apparentemente contrapposte (per un approfondimento rimando alla  quinta delle Sette brevi lezioni di fisica). Il bagel (una ciambella) di Jobu Tupaki è il punto di congiunzione, da li ogni singolo atomo della vita nasce per poi morire divenendo la legge finale di ogni elemento.

Ci sarebbero ancora moltissime cose da dire…ma le regole generali che animano Everything everywhere all at once spero siano delineate. Scienza, arte e una profonda autoironia fusi a livelli altissimi: sono sicuro che si imporrà come uno dei film più importanti degli anni duemila.

Naturalmente questa non è l’unica interpretazione del funzionamento dell’universo…Ma questa è un’altra storia.

 

Troverete l'articolo anche sul nostro sito web al seguente link:  https://www.cinepeep.net/cinema-americano/everything-everywhere-all-at-once-2022-daniel-kwan-e-daniel-scheinert

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 Claudio Suriani Filmmaker

Claudio Suriani Filmmaker

sabato 18 marzo 2023

PILLOLE DI CINEMA - LA GRANDE ABBUFFATA (1973) DI MARCO FERRERI – IL SESTO CANTO DELL’INFERNO






La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) ci trasporta a pieno titolo nel terzo cerchio dell’Inferno (Come nel già incontrato Picnic ad Hanging Rock l’immaginario dantesco riemerge in tutta la sua forza) in cui il cibo, elemento vitale per antonomasia, diventa non solo uno strumento di morte ma, attraverso un’opera divenuta un pilatro del cinema grottesco italiano (e forse mondiale) riesce a imporsi nella storia del cinema nonostante l’ostracismo della giuria del festival di Cannes del 1973 nel quale fu presentato. 

 

In La grande abbuffata tutto si gioca sul corpo e sulla perdita di ogni possibile orizzonte di riferimento (persino quello del piacere) in quanto i protagonisti non arrivano mai a provare alcun tipo di soddisfazione … né sica né morale. Persino la morte viene vissuta con noia e indifferenza, proprio come nell’Inferno dantesco mangiare è una condanna autoinflitta che si racchiude nella frase divenuta celebre … se non mangi tu non puoi morire. Uno dei grandi meriti  de La grande abbuffata (e dell’intera filmografia di Marco Ferreri)  è quello di aver rivitalizzato una scena cinematografica come quella italiana in cui non solo la censura era ancora molto forte (lo sanno bene Ciprì e Maresco per Totò che visse due volte per aver realizzato il primo film vietato  a tutti - film del 1998 - e Pier Paolo Pasolini per Teorema - del 1968 sequestrato direttamente dalla procura di Roma - solo per citare i casi più famosi) e di essersi imposto nella storia del cinema contemporaneo per la sua forza visionaria  perché, come scrisse Gilles Jacobs, è un film Cinico, nichilista, disturbante, imprescindibile: un film moderno come il suo autore, osteggiato, censurato e sopravvissuto fino a divenire un classico. Un sorridente studio della fisiologia intestinale, una fiaba visionaria sulla società dei consumi, in tutta la sua oscenità, e sull'eccesso come arte. 

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 Claudio Suriani Filmmaker

mercoledì 15 marzo 2023

THE WHALE (2022) DI DARREN ARONOFSKY - INSCINDIBILITA' TRA VITA E MORTE

Vita e morte sono veramente due condizioni contrapposte come ci è stato insegnato?

The Whale, ultimo lavoro di Darren Aronofsky, ci appare come una summa della sua intera filmografia: risuonano gli echi biblici di Madre (2017), i tormentati rapporti famigliari di The Wrestler (2008) e soprattutto il senso di solitudine e di fallimento dei protagonisti ormai divenuto totalizzante.

Tutto parte dal titolo: The Whale (la balena). Il nostro protagonista Charlie affetto da un’obesità ormai fuori controllo vive un intimo rapporto con il romanzo di Herman Melville Moby Dick divenuto la sua fragile ancora di salvezza dall’inferno in cui è precipitato. Charlie è un docente universitario di letteratura e attraverso le sue lezioni sulle piattaforme digitali (rigorosamente a telecamera spenta) riesce a costruirsi uno sguardo sul mondo… uno sguardo fragile e carico dei traumi che, fin dall’inizio, sappiamo non potranno essere elaborati.

 

La lotta di Charlie contro il suo corpo è persa in partenza in quanto sappiamo che dovrà morire e l’intero film è intriso di un nichilismo contro cui si infrangono religione,  affetti più cari (il compagno morto, una famiglia abbandonata, una figlia che lo odia – proprio come in The Wrestler del 2008) e ogni tipo di rapporto con il mondo esterno. Nonostante il cibo sia la sua maledizione Charlie riesce a immaginare un mondo al di fuori del suo incubo anche osservando un uccellino che si posa regolarmente sulla sua finestra che nutre regolarmente: anche in questo caso sarà una speranza effimera e incapace di incidere sugli eventi.

 

Il personaggio di Charlie ci accompagna nel suo mondo fatto di cibo ingurgitato, quattro mura opprimenti e un passato che pesa più di ogni altra cosa;  ciò che ci porta a empatizzare con lui è il suo desidero di affetto divenuto nel tempo del tutto acritico. Il desiderio di riconquistare il rapporto con la figlia ormai adolescente lo porta a essere cieco di fronte alle gratuite cattiverie a cui lo sottopone (come la pubblicazione sul profilo social di foto scattate furtivamente o quando gli dice Sbrigati a morire) che esulano da un rancore giustificabile da parte di una figlia abbandonata.

 Il dramma messo in scena da Aronofsky si carica di un’indagine sul corpo al limite del pornografico (che per chi segue Cinepeep sa che non è inteso in senso dispregiativo quando riesce a farsi carico di idee) non solo quando Charlie chiede ripetutamente a Thomas ( Ty Simpkins) se lo trovi disgustoso ma anche quando decide di rivelare ai propri studenti la sua condizione abbandonando ogni forma di protezione e sottoponendosi all’inevitabile giudizio altrui: questo sarà il punto di rottura definitivo.


Da un punto di vista formale Aronofsky si affida al formato 4:3: una scelta che si rivelerà del tutto efficace in quanto crea uno schiacciamento dell’immagine riducendo l’effetto di profondità. Per tutta la durata di The Whale siamo inchiodati alla poltrona non solo per generico senso di empatia nei confronti di Charlie ma, soprattutto, per una scelta di messa in scena coerente e funzionale alla storia narrata.

 

Il cinema è un’arte visiva e, in quanto tale, la storia narrata ha bisogno di scelte formali coerenti capaci di farci entrare a pieno nella vita dei protagonisti. A questo punto torniamo alla domanda iniziale ampliandone la portata: perché lo spettatore deve farsi carico di un universo così drammatico e privo di speranza? Se come abbiamo detto in The Whale risuonano gli echi della sua intera filmografia (specialmente The Wrestler e Madre) è anche vero che Aronofsky decide di indagare la capacità del cinema non solo di sviluppare ulteriormente i fulcri narrativi delle opere precedenti ma di farsi carico di un universo drammatico senza diventare pedante o scendere nel bodyhorror … un universo che non gli appartiene.

 


 

 

Inoltre se il cinema esiste nell’occhio dello spettatore singolo (in quanto ognuno darà il suo contributo creativo nell’interpretazione di un’opera) ritengo sia necessario indagare la sua capacità di uscire dalle logiche dell’intrattenimento per intraprendere percorsi dolorosi ma capaci di incidere sulla nostra sensibilità più profonda. Ci sono inoltre numerosi sottotesti che alimentano il film come rapporti umani mediati dagli schermi, il valore dell’insegnamento e molti altri; tuttavia sono tematiche che non arrivano mai ad imporsi come punto focale dell’intera opera. The Whale è la storia di un uomo dal corpo enorme che cerca dolorosamente di riconquistare un frammento di vita prima dell’inevitabile destino ed è proprio questo che ci porta al meraviglioso finale: un finale aperto che ci spinge a non avere paura della morte anche quando siamo chiamati a lottare contro le nostre sofferenze più grandi …Vita e morte si riconciliano.

 

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 Claudio Suriani Filmmaker

martedì 28 febbraio 2023

MERCOLEDI' (2022) DI TIM BURTON - MERCOLEDI' NON E' QUI

Mi sono approcciato alla serie Mercoledì (produzione Netflix Original di Tim Burton, quale delle due anime vincerà alla fine?) con profondo sospetto in quanto la natura ipercommerciale della multinazionale americana influisce il più delle volte sulla qualità finale delle opere impedendo agli autori di sviluppare liberamente la propria estetica (con rarissime eccezioni come Roma - Alfonso Cuarón, 2018).

 

Per indagare il personaggio di Mercoledì Addams è necessario tornare gli albori di un universo molto più complesso rispetto alla narrazione che non nasce, come comunemente si crede, con la storica sitcom del 1964: in realtà i personaggi furono creati da Charles Chas Addams con le vignette pubblicate sul New Yorker alla fine degli anni 30. Erano prototipi capaci di aprire una breccia su un mondo lontano al tempo stesso dai classici dell’horror e dalla stucchevole commedia americana. 

 
 


Sorvolando sulle opere di animazione (del 2019 e del 2021 in cui si ripropone questa visione anestetizzata della paura) è con il film del 1991 che l’universo Addams arriva a un pieno compimento caricandosi di una profonda natura orrorifica del tutto parallela al lato comico che mai viene meno (nulla supera la gioia di fulminare un fratello sulla sedia elettrica o di una madre che insegna a usare il macete a una figlia piccola) per sfociare persino nella sequenza splatter più divertente della storia del cinema (la recita scolastica).

Il film di Barry Sonnenfeld riesce a fondere le due anime dell’universo Addams ed è qui che nasce la prima domanda: Mercoledì riesce a esprimere al meglio questo potenziale creativo? La mia risposta è no.



 

Paura e divertimento … ma non solo.

 

Charles Addams descrive con queste parole il personaggio di Mercoledì: è una bambina piena di tristezza, è esangue e delicata, con i capelli corvini e l'incarnato pallido della madre. Suscettibile e piuttosto tranquilla, ama le scampagnate e le gite alle caverne sotterranee che Morticia e Gomez organizzano spesso. È una bambina seria, compassata nel vestire e, nel complesso, un po' smarrita.

Se la Mercoledì interpretata da Christina Ricci conservava un’originaria austerità, Jenna Ortega carica il personaggio di una sottile ma evidente sensualità (evidente nella sequenza del ballo) allontanandosi dalle caratteristiche del personaggio originario.

La Mercoledì di Tim Burton è del tutto priva di quello smarrimento esistenziale di cui parla Chas Addams diventando la catalizzatrice e il punto focale attorno al quale ruotano le vicende.


 

Da un punto di vista narrativo Mercoledì ripropone il punto morto delle opere monografiche su singoli personaggi: esattamente come per Joker (Todd Phillips, 2019) notiamo come sia impossibile estraniare un personaggio dal contesto generale di riferimento. Se nel film di Todd Phillips il personaggio di Batman alimenta il sottotesto dell’opera in modo significativo, le vicende di Mercoledì sono alimentate dall’eterno ritorno in casa Addams.

I personaggi delle opere di fantasia (fumetti, film o serie televisive) sono inscindibili dal proprio ambiente di riferimento: se Dylan Dog sarà per sempre uno dei simboli di Londra, Divine (Harris Glenn Milstead) il simbolo della cultura drag-queen americana , Mercoledì è al tempo stesso, un personaggio carico di una forza rivoluzionaria e di una profonda malinconia con tendenze sadiche … aspetti che, nella serie di Tim Burton mancano quasi del tutto.

Mercoledì è una serie televisiva piacevole se si è a conoscenza delle varie sfumature dell’universo
Addams e, di conseguenza, si riesce a contestualizzare le scelte registiche, in caso contrario è 
un opera che rischia di allontanare gli spettatori (specialmente i più giovani) dalla gioiosa
cattiveria della nostra amata famiglia e, in un periodo storico saturo di politically correct,
porta con sé il rischio di un’ulteriore omologazione agli stereotipi di una produzione audiovisiva
non certo esaltante.
 
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martedì 14 febbraio 2023

THE NORTHMAN (2022) DI ROBERT EGGERS - LE ORIGINI DEL REVENGE-MOVIE

 La storia della letteratura ci ha consegnato le vicende di Amleto come un’opera originale, quindi ben pochi sanno che il drammaturgo inglese scrisse la sua opera più famosa ispirandosi direttamente allo scrittore danese Saxo Grammaticus e alla sua antologica Gesta Danorum, opera fondamentale della letteratura nordica e di notevole  ispirazione per la drammaturgia che ne seguì.

The northman nasce da questo oblio storico. Nel nuovo film di Robert Eggers la cultura nordica si impone in maniera decisiva come a voler riaffermare la vera natura delle vicende di Amleto inteso come topos narrativo e, in seguito, del genere revenge movie. Robert Eggers, dopo un esordio più che convincente come The witch e il capolavoro espressionista The Lighthouse, approda al cinema epico in cui lo schema della vendetta si fonde attraverso la mitologia vichinga. La trama è la seguente: D.C. E Hrafnset, figlio del re Aurvandil, assiste all’omicidio del padre da parte di suo fratello Fjölnir; l’intero film è basato sul desiderio di Hrafnset di vendicare la morte del padre e salvare la madre dalla violenza dello zio. La struttura narrativa è basata sul culto di Odino (come il rituale dei cani che vogliono diventare uomini) e dal culto della fisicità vichinga in cui la brutalità delle sequenze di lotta e il rapporto tra riti di ascensa all’età adulta del protagonista creano un racconto filmico affascinante e carico di pathos.  

 


The northman abbandona l’approccio espressionista di The Lighthouse a favore di un cinema narrativo sulla falsa riga di The Witch, ma sembra calcare la mano su un senso di virilità vichinga che, alla lunga, risulta essere ridondante e strizzare l’occhio agli amanti del cinema epico blockbuster come Il signore degli anelli (Peter Jackson, 2001), La bussola d’oro (Chris Weitz , 2007) o Le Crociate (Ridley Scott, 2005)  perdendo la natura autoriale ben delineata nelle sue prime due opere. Questa caratteristica può non essere considerata un difetto strutturale ma di certo risulta essere un profondo cambio di prospettiva. Eggers per la prima volta guarda al grande pubblico costruendo un’opera lineare priva di sottotesti e l’aver avuto a disposizione un budget incredibilmente più alto rispetto al passato (che oscillava tra i 75 e i 90 milioni di dollari) gli ha permesso di costruire un impianto visivo efficace ma non caratterizzante.

 


La struttura narrativa del film è lineare e riconoscibile, può sembrare un passo indietro nel lavoro di un autore che si stava imponendo nel panorama del cinema mondiale come un punto di incontro tra W. Herzog, Lars Von Trier e l’intero universo del folk horror.  The northman Eggers  invece a mio avviso si apre in modo magistrale a un sottogenere come il revenge-movie che ha dato vita a capolavori del cinema d’autore e del cinema d’exploitation e come La fontana della vergine ( Ingmar Bergman, 1960), Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971), Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave) (1978) di Meir Zarchi, L'angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), Mr. Vendetta (Park Chan-Wook, 2002). Il mio consiglio è di vedere l’intera filmografia dell’autore americano per poterne apprezzare la duttilità e la capacità di aprirsi a diverse tipologie narrative sempre con ottimi risultati. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 13 febbraio 2023

ULTIMA NOTTE A SOHO (2021) DI EDGAR WRIGHT - LEGAME TRA SOGNO E REALTA'


In Ultima notte a Soho
(2021) Edgar Wright lavora sull’universo sixties mirando  a far riemergere l’anima di un decennio che tanto ha dato alla cultura giovanile attraverso scelte di messa in scena e tematiche tipiche del cinema classico americano.   
Ultima notte a Soho è un’opera costruita sul rapporto tra sogno e realtà, caratteristica non solo dell’immagine filmica in sé ma anche di molte pellicole classiche e contemporanee, L’arte del sogno (Michel Gondry, 2016), Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999), Inception (Christofer Nolan, 2010), Io ti Salverò (Alfred Hitchcock, 1945) Sogni (Akira Kurosawa, 1990) e molte altre. Nonostante la dimensione onirica faccia parte dell’intima natura del cinema, Edgar Wright la inserisce in un contesto più ampio arrivando a toccare il cinema di Bob Fosse e il suo amore per il musical. L’Inghilterra degli anni 60 era un paese in cui la tradizione musicale  e i  movimenti giovanili erano tali da influenzare ancora oggi la cultura pop contemporanea - dalla beat generation, il movimento mod, i Teddy Boys fino al british-rock, con un impatto su ogni forma di comunicazione come l’editoria e la moda intese come mezzo espressivo e di appartenenza. In Ultima notte a Soho il concetto di moda è inserito in una rappresentazione del sogno efficace ma  non innovativa; possiamo cogliere il gusto per l’estetica retrò non solo a livello tematico ma anche nelle scelte formali: la fotografia gioca sullo scontro tra una realtà cupa e opprimente (dai colori scuri e decadenti) a una dimensione onirica caratterizzata dai colori vivi e spettacolari che tendono  a sparire quando il sogno si trasforma in incubo. 

 

Le inquadrature e i movimenti di macchina rimandano a un immaginario horror-thriller di stampo classico influenzato da opere come La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945), Vertigine (Otto Preminger, 1944) o Repulsione (Roman Polanski, 1965). Questo eccesso nostalgico mette in secondo piano una delle tematiche che potevano essere sviluppate in modo personale: la rappresentazione del quartiere di Soho e della sua storia. Ultima notte a Soho è un’opera che cerca di nascondere attraverso una messa in scena spettacolare non solo una proposta tematica ormai datata che ha rappresentato le basi per gran parte del cinema americano (autoriale e di genere) del secondo dopo guerra, ma pone allo spettatore un contrasto evidente tra forma e sostanza, contrasto che tende a ripresentarsi spesso negli ultimi anni specialmente nel cinema mainstream.

 

La mia conclusione è che se lo spettatore si rapporta a questo film come opera di puro intrattenimento riesce ad esserne coinvolto, ma se Wright mira a un posto di rilevo nel panorama cinematografico contemporaneo fallisce nel suo scopo: l’eccessiva nostalgia per la cultura sixties rende il film incapace di aprire nuove strade espressive oltre a manifestare limiti evidenti nella delineazione dei personaggi e nel distacco da un universo cinematografico ormai del tutto storicizzato.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

domenica 12 febbraio 2023

NEWS FROM HOME (1977) DI CHANTAL AKERMAN - DALLE STRADE DI NEW YORK CITY






News from Home è una delle opere più significatine del New American Cinema…lunghe lettere che la madre della regista le spedì quando la Akermann si trovava a New York per i suoi studi di cinema.

News from home è un perfetto esempio di ciò che Gilles Deleuze definì immagine-tempo. Il suo racconto appare sdoppiato in due dimensioni temporali simultanee, rappresentazione etnografica della città di New York. Se il cinema vive durante la sua rappresentazione, il presente dell’opera appare saturo di un passato indeterminato di eventi narrati dalla voce fuori campo. Questa struttura narrativa spezza la costruzione cronologica del tempo a favore di un’immagine in cui il passato si manifesta in una forma indeterminata in quanto non conosciamo la posizione degli eventi nella linea temporale. Tale procedimento analitico si differenzia dal flashback in quanto instaura nel presente tracce di un passato ben riconoscibile e cronologicamente posizionato (si prenda come esempio la struttura narrativa di Quarto potere di Orson Wells).

 

Nel film della Hakerman invece le dimensioni temporali di passato e presente appaiono del tutto fuse in una temporalità indeterminata e ciò comporta un profondo senso di inquietudine per la difficoltà di immedesimazione dello spettatore e dell’assenza dei protagonisti narrati per tutta la durata dell’opera. In questa proposta analitica l’immagine di New York City diventa centrale perché viene privata della sua peculiare dimensione comunitaria dando vita a un senso acronologico dell’opera attraverso una rappresentazione in profondità di campo delle ampie strade americane e dalla fotografia dai forti toni scuri. La profondità di campo per G. Deleuze non è legata alla dinamica del movimento ma a quella del tempo in quanto appare come una forma di esplorazione mostrandoci nello stesso fotogramma, ma in due piani diversi, la simultaneità delle strutture temporali e in questo senso risulta essere  immagine tempo diretta.

Il film della Hakerman si distacca dall’immagine-tempo pura di Welles per la natura impersonale del racconto: l’immagine ricordo di Quarto potere in News from home diventa un’indeterminata rappresentazione della città al di fuori della struttura temporale cronologica in cui le tre tipologie di presente teorizzate da Sant’Agostino arrivano a coincidere in quanto il testo delle lettere vive nel dubbio continuo che si arrivi a compimento di un’ azione compiuta creando nello spettatore un sottile ma continuo senso di inquietudine.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 10 febbraio 2023

LA REGINA DI SCACCHI (2020) DI SCOTT FRANK - INDAGINE SUL CONTROLLO ASSOLUTO

Il panorama delle serie tv netflix original spesso propone titoli che, senza ambire allo status di capolavoro assoluto, si impongono come prodotti seriali di buona qualità gradevoli da vedere: La regina di scacchi ne è un perfetto esempio.

 

 

La trama è la seguente: Elisabeth (Beth) dopo la morte della madre verrà affidata a un collegio femminile; in questo centro scoprirà l’amore per gli scacchi grazie al custode (il signor Shaibel) della struttura e, grazie a ciò, riuscirà a riscattare la propria vita arrivando a vincere il titolo mondiale. Fin dal primo episodio riusciamo ad apprezzare diversi fattori: il primo è la forza di immedesimazione nei personaggi e in particolare nella protagonista in quanto sono ben delineati dal punto di vista psicologico senza arrivare mai a essere pedanti o prolissi. Se analizziamo il personaggio di Beth scopriamo una narrazione che non sfocia mai in situazioni cariche di pathos in cui la regia possa sovrastare il personaggio. Anche nelle vicende più dolorose (come la morte della madre adottiva di Beth) il racconto si sorregge su un equilibrio che ben rappresenta l’animo e la psiche della nostra protagonista.

Beth negli scacchi non trova semplicemente una passione ma il mezzo perfetto per elaborare i propri traumi e relegarli in una condizione di controllo assoluto. Ma accadono eventi in cui il controllo totale sulla propria vita sembra deteriorarsi, notevole incremento di complessità nelle pieghe narrative e quindi nel livello qualitativo dell’intero prodotto.

Negli ultimi episodi Beth ha una profonda crisi esistenziale che la porterà verso una breve deriva alcolista. E’un passaggio decisivo nella storia e ci si rammarica che non sia stato approfondito a dovere.

Le mini serie come La regina di scacchi se da un lato fuggono dal rischio di essere prolisse come può essere accaduto ad alcune antesignane (si pensi ad X-Files ) dall’altro hanno il dovere di delineare in modo efficace tutti gli elementi e le vicende dei protagonisti, specialmente i punti di rottura della narrazione. Se l’intero corpus degli episodi si regge sulla capacità degli scacchi di dare alla protagonista due qualità fondamentali per la sua emancipazione – l’autocontrollo da una parte e l’elaborazione del lutto dall’altra – è pur vero che un punto di rottura nella storia necessita di una descrizione approfondita degli effetti sulla protagonista e sul suo intero mondo: sarebbero bastati un paio di episodi in più per farci vivere a pieno questo passaggio decisivo.

 Se la crisi di Beth è uno dei punti deboli dell’intera storia, la sequenza del suo ritorno nel collegio rappresenta invece un punto di svolta efficace nell’animo della protagonista: scendendo nello scantinato dove giocava a scacchi con il signor Shaibel nota che quest’ultimo aveva conservato tutti gli articoli di giornale delle sue vittorie nei vari tornei nel mondo. In quel momento Beth si apre a un pianto catartico: per la prima volta il suo passato non le torna indietro come un trauma inelaborato (come la morte della madre biologica o l’abbandono del padre in tenera età) ma sotto forma d’amore nei confronti di una delle persone più importanti della sua vita.  Da questo evento liberatorio si dipaneranno nuove trame determinanti per la sua vita che la condurranno verso un finale narrativamente aperto.

 


Nonostante La regina di scacchi non sia un capolavoro in senso stretto in quanto non crea un’idea di narrazione televisiva (a differenza di Heimat o I segreti di Twin Peaks) una volta conclusa lascia la sensazione piacevole di aver visto un’opera di qualità capace di arricchire in modo discreto e pregevole.

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Claudio Suriani Filmmaker

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