Elenco blog personale

venerdì 23 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - NON APRITE QUELLA PORTA (1974) DI TOBE HOOPER - Il ballo solitario di Leatherface



 
Uno dei principi che da sempre guida il lavoro di Cinepeep è che lo spettatore, se desidera comprendere a pieno i meccanismi del cinema, ha il dovere di entrare nei territori oscuri della settima arte senza la protezione della perfezione formale e della legittimazione storico-accademica; questo fà di Non aprite quella porta un film imprescindibile nel panorama horror anni 70 (insieme ad autori come John Carpenter, Sam Raimi, Wes Craven, David Cronemberg ecc) e dell'intera storia del cinema.
 
Leatherface si distacca dalla canonica rappresentazione del serial killer in quanto mette in scena  il puro istinto animale privo di  qualsivoglia cultura o inserimento sociale. Non esistono le turbe psichiche del Dott.Lecter (Il silenzio degli innocenti, Jonathan Demme - 1991), la devianza sessuale di Hans Bekert (M Il mostro di Düsseldorf - Fritz Lang, 1931). Leatherface è del tutto privo di un passato con il quale empatizzare o un'intenzione carica d'odio dalla quale difendersi.

Non aprite quella porta è saturo di un orrore creativo (e quindi efficace perchè non stucchevole) rappresentando l'oppressione di un mondo chiuso in sé stesso e privo di speranza ma, al tempo stesso, difficile da dimenticare.

 Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 
Claudio Suriani Filmmaker

martedì 20 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - NANNY LA GOVERNANTE (1965) DI SETH HOLT - I capolavori della follia

 



Uno degli aspetti più interessanti di Nanny la governante ( Seth Holt, 1965) è la costruzione magistrale della tensione hitchcockiana: lo spettatore viene introdotto, attraverso una scrittura tipica del thriller anni '60, in un vortice di follia con un'accurata caratterizzazione dei personaggi e del contesto sociale di riferimento.
L'anima oscura di Bette Davis, già incontrata nel capolavoro di Robert Aldrich Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) emerge ancora una volta presentandoci un personaggio caratterizzato da una lucida follia e fortemente ispirato alla caratterizzazione del Norman Bates di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960).
L'indagine nei meandri di una psiche alienata porta con sé un ritmo narrativo capace di scoprire in ogni passaggio la natura profondamente perturbante di un'attrice diventata simbolo di un'America lontana dal sogno hollywoodiano. Uscito nel 1965, insieme a Repulsione (Roman Polanski, 1965) il film di Seth Holt si inserisce nello stesso filone ricalcandone le atmosfere.
 
Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 Claudio Suriani Filmmaker

domenica 18 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - GRETEL E HANSEL (2020) DI OZ PERKINS- Il cinema delle grandi fiabe

 



Gretel e Hansel ( Oz Perkins, 2020) mette in scena il lato oscuro delle grandi fiabe attraverso le interpretazioni di Sophia Lillis e Sam Leakey e una fotografia che gioca sul contrasto tra oscurità e colori Pop Art e un evidente legame col cinema di Mario Bava. L'immaginario dei fratelli Grimm e i relativi topos narrativi vengono attualizzati e potenziati visivamente con un incremento del loro effetto sull'immaginario collettivo.

Inoltre Gretel e Hansel porta avanti il filone cinematografico del Folk-Horror che trova in opere come I disertori - A Field in England (Ben Wheatley, 2013), The Village (M. Night Shyamalan, 2004) e soprattutto The Wicker Man (Robin Hardy, 1973) alcuni tra gli esempi più significativi (da citare anche il nostro Il signor Diavolo - Pupi avati, 2019).

Gretel e Hansel dimostra che anche il cinema per il grande pubblico può avere elementi di interesse e che può superare la logica anestetizzante dell'intrattenimento.

 

Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 Claudio Suriani Filmmaker



venerdì 16 dicembre 2022

LA VITA DI ADELE (2013) DI ABDELLATIF KECHICHE - La forza penetrante dello sguardo


 La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013), ispirato alla grafic novel Il blu è un colore caldo ( Jul' Maroh, 2010) è la storia di una giovane ragazza che apre il suo cuore a nuove emozioni innamorandosi di Emma, più grande di lei. Nonostante sia divenuto negli anni un film simbolo della comunità LGBTQR ritengo che tale interpretazione sia errata in quanto il film narra il puro atto dell’innamoramento e non la scoperta della propria identità sessuale a differenza di film come Pride (Matthew Warchus, 2014) o Milk (Gus Van Sant, 2009). Uno dei suoi aspetti cardine è la forza penetrante dello sguardo incrociato delle protagoniste

 

 

Nell’approcciarsi a un’opera può succedere che il desiderio di analizzare ogni suo aspetto  ci faccia perdere di vista l’impatto emozionale della prima visione. L'approccio analitico/interpretativo infatti dev'essere conquistato attraverso la reiterazione in quanto il buio della sala ci pone in una condizione passiva dando vita a una serie di processi psicoanalitici teorizzati da autori come Cristian Metz, Alberto Angelini, Robert Stam e Maria Grazia Vassallo Torrigiani.

Il primo incontro tra Adele ed Emma mette in scena una dinamica assimilabile al capolavoro di Luchino Visconti Ossessione (1943): l’identificazione delle protagoniste ha inizio dallo sguardo inquadrato in primo piano e in questa doppia immedesimazione il cinema si carica dello sguardo del regista, delle protagoniste e dello spettatore. Questo triplo legame è determinante, ci spinge a riflettere sul concetto di verità nel cinema: uno sguardo rubato è capace di cambiare la vita delle protagoniste, il cinema esprime la forza di raccontare storie attraverso  singoli fotogrammi, è l’arte del hic et nunc. La vita di Adele dal punto di vista stilistico è il punto di congiunzione di alcune delle opere più significative  degli ultimi anni in particolare La classe (Laurent Cantet, 2008) e Lussuria (Ang Lee, 2007): Kechiche riesce a creare un perfetto legame estetico/narrativo ma anche una sorta di realismo visivo. Il film segue le vicende di Adele inizialmente nel suo periodo di formazione ed infine nel dolore per l’abbandono di Emma. Non esiste alcuna sovrastruttura estetica, nessun occhio morboso nelle scene erotiche: questo risultato è stato raggiunto grazie ad una direzione delle attrici rivolta a consumare ogni forma di resistenza attraverso innumerevoli ciack in particolar modo nelle sequenze più compromettenti dal punto di vista emotivo. Nonostante tale regia tirannica sia stata ampiamente criticata dalle attrici (per motivi tuttavia discutibili) è fuori dubbio che il risultato sullo schermo è incredibile in quanto la forza drammatica riesce a coinvolgere totalmente lo spettatore dando alla pellicola la stessa forza  della graphic novel.

  

La struttura è costruita attraverso un'ellissi temporale che divide il film in due parti: adolescenza di Adele e la sua vita adulta  tra insegnamento e  convivenza con Emma. Non ci è dato sapere se tra le due parti del film siano accaduti eventi determinanti, ciò che vediamo è un importante cambio di direzione delle protagoniste che le porta a trasformare la natura stessa del loro rapporto. Abbiamo visto come il film ci narri del puro atto dell’innamoramento: la rottura tra Emma ed Adele invece non risulta coerente con il racconto e ci porta quasi a tifare per la seconda. Seguendo questa impronta  il finale ci appare carico di una sottile crudeltà in quando l'ostentata indifferenza del congedo di  Emma ci arriva più dura di un sincero e sentito rifiuto. Nonostante queste, in fondo perdonabili, perplessità di struttura, La vita di Adele rimane un'opera capace di raccontare  senza inutili divagazioni ed è questo il suo maggior punto di forza.

Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 Claudio Suriani Filmmaker


giovedì 15 dicembre 2022

FOXFIRE; RAGAZZE CATTIVE (2012) DI LAURENT CANTET - La censura nell'epoca dei nativi digitali

 Rivolta femminista, rivendicazioni sociali, lotta contro l’America di McCarthy: tutto vero ma c'è molto di più.

Una storia non porta mai avanti un messaggio univoco perchè la scrittura è alimentata da numerosi sottotesti; lo sguardo del regista sul mondo risulta un punto focale attorno al quale ruotano gli occhi dei protagonisti, degli spettatori e special modo del significato storico che uno sguardo assume in un determinato luogo e in una determinata epoca.

 


Inoltre l’esperienza del pubblico con il cinema narrativo, dall’avvento delle tecnologie digitali, della rete e della tecnologia peer to peer, ha subito una radicale trasformazione nel corso del tempo: la pratica onirica della sala cinematografica ha lasciato il posto ad una (possibile) continua rielaborazione delle immagini e del loro significato.

Lo spettatore spesso per vedere un film non è costretto a recarsi nella sala cinematografica perché può trovarlo, dopo pochi giorni dalla sua uscita, in streaming o in download in rete; sorvolando sulle questioni etico-legali ci soffermeremo sulla radicale trasformazione dell’ esperienza cinematografica e del suo intero apparato tecnico.

Attraverso questi mezzi lo spettatore entra di fatto nella narrazione acquisendo i mezzi tecnici per una totale rielaborazione del film attraverso il proprio squardo; si pensi ad esempio ai link di siti di condivisione video (come YouTube) e alla proposta di video in linea con il video centrale e con gli interessi dell’utente; vengono a crearsi veri e propri montaggi che creano film diversi ad ogni visione.

 

Non esiste più il film come esperienza unica, solo uno dei tanti  possibili che vengono a crearsi ad ogni nostro click: in questo modo rielaborare il cinema significa rielaborare la nostra visione del mondo.

Il primo film in terra americana di Laurent Cantet non si sottrae a questa dinamica e questo passaggio risulta ancor più decisivo se pensiamo alla censura in cui il film è incappato nel nostro paese.

Nelle motivazioni ufficiali si legge: “… per le continue e ripetute condotte di rottura delle regole con modalità violente" e "il farsi giustizia da sole" a cui possiamo aggiungere la rappresentazione degli adulti come totalmente negativi, si ritenne che tutto questo ponesse  seri problemi di elaborazione in un minore di anni quattordici che potrebbe avere difficoltà a contestualizzare ed essere tentato da comportamenti emulativi.

Risulta difficile infatti, per un minore degli anni quattordici, la contestualizzazione che renderebbe maggiormente elaborabili e comprensibili i meccanismi che caratterizzano la storia. Peraltro, il gruppo delle ragazze viene presentato in veste eroica e anche per questo le condotte a rischio possono essere lette come attraenti”.

Queste le proteste di Cantet e di Teodora Produzioni.

 Ciò che non è stato ancora analizzato è il perché il film nonostante la censura, non solo sia liberamente disponibile sulle piattaforme streaming il che ci fornisce la possibilità di chiarire  come l’uso dei vari medium  trasformi radicalmente sia l’opera sia gli effetti sullo spettatore e sulla comunità.

Il cinema, attraverso il suo legame imprescindibile con i new media, torna a essere un vero e proprio atto politico e la stessa visione del film si carica di ulteriori sguardi e significati.

  

Foxfire, ragazze cattive, visto in Italia attraverso la rete è un film diverso da Foxfire, confessions d'un gang visto liberamente in qualunque altra parte del mondo esattamente come la nona sinfonia di Beethoven, suonata da Wilhelm Furtwängler alle celebrazione del compleanno di Hitler è un'opera diversa dalla nona sinfonia suonata nei lager nazisti, o da quella che ascoltiamo liberamente nelle nostre case. 

E’ di questa tensione creativa che Foxfire vive. Poco importa che risulti essere sul piano formale un passo indietro rispetto a La classe perché l’esperienza cinematografica classica oggi risulta del tutto anacronistica. Basti pensare al Kinoglaz di Dziga Vertov, all’Histoire(S) Du Cinema di J.L. Godard, al film Redacted di B. De Palma o alla serie Tv Black Mirror.
Il cinema oggi è un intreccio di tanti possibili Link che aprono ulteriori possibili schermi e occhi bio/meccanici che interrogano e creano un montaggio tra la storiografia, la storia del cinema e le vicende che l'autore ci narra trasformando il film che diventa  una visione di  comunità (o di una comune) acquisendo un valore storico/politico. Film da vedere e da mettere in relazione con i più diversi stili cinematografici.

 Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 Claudio Suriani Filmmaker

martedì 13 dicembre 2022

BROKEN FLOWERS (2005) DI JIM JARMUSH

Uno dei meriti della colonna sonora di Broken Flowers di Jarmusch è aver riportato in auge una certa scena musicale etiope, ovvero il glorioso Ethio Jazz già tanto celebrato qualche anno prima dalle raccolte Ethiopique. Ma non è solo questo...e come potrebbe esserlo per una pellicola ambientata nella più profonda provincia americana? 

 

 
Ma andiamo con ordine. Una premessa: Broken Flower, del 2005, è ambientato in un contesto pre-rivoluzione/involuzione digitale, internet c’è, ma non ha ancora cambiato le nostre vite, i cellulari non sono ancora indispensabili nella quotidianità e per ascoltare bene la musica c’è ancora bisogno di un impianto audio, un lettore cd in auto con relativo supporto, magari masterizzato. Il ruolo chiave della storia è in carico a Winston (Jeffrey Wright) che convince l’amico Don (Bill Murray) a intraprendere un viaggio nella provincia americana organizzandogli tutto compreso un cd di musica etiope che gli masterizza (una colonna sonora nella colonna sonora). I pezzi strumentali di Mulatu Astatke (padre putativo del jazz etiope) vengono usati soprattutto nelle scene del viaggio del protagonista: Yegelle Tezet, un pezzo quasi rocksteady, Yekermo Sew e Gubelye, jazz minimale e scuro, punto d’incontro tra Etiopia e scena jazz newyorkes

Poi c’è la bellissima cover in acido di Ethanopium, dei Dengue Fever…

Queste musiche accompagnano Don (apatico, silenzioso e scettico) lungo il suo viaggio nelle contraddizioni americane e più che stare nel caos delle autostrade sembra invece di essere in un fumoso club jazz.

Ma come dicevo, nella colonna sonora c’è tanto altro.



Penso alla There is an end, dai sapori sixties, di Holly Golightly (una delle tante ex muse di Biily Childish e fategli una statua per favore a questo uomo!) accompagnata dai Greenhornes, il reggae Ride your donkey dei Tennors, la classica I want you di Marvin Gaye, la bellissima psichedelia anni ’90 di Not if you were the last dandy on earth dei Brian Jonestown Massacre, addirittura presenti i pesanti Sleep con Dopesmoker in una favolosa scena dove Don ha un brutto incontro con dei motociclisti tardo hippy.

Nel lavoro complesso di assemblare pezzi di vari artisti nella stessa colonna sonora, credo che in Broken Flowers siano state fatte scelte azzeccate, non scontate.

Gli accostamenti tra i pezzi scelti e le varie scene confermano la competenza e la passione del regista verso musicisti anche non allineati (come per esempio l’azzardo Sleep). Ed anche solo per questo verso Jarmusch non si può che avere massimo rispetto.

 Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

Massimo Fiore


lunedì 12 dicembre 2022

Ichi the Killer (2001) di Takashi Miike

 

Orgia visionaria di sangue e violenza, deliziosamente inverosimile ed efferato fino all’estremo, Ichi the Killer è tra le opere più famose e anomale di Takashi Miike, prolifico autore che abbiamo conosciuto per la versatilità e disinvoltura con cui è in grado di spaziare dal genere storico (13 Assassini) ai drammi familiari più bizzarri (Visitor Q).

 

 
Il film ci presenta le vicende di Kakihara, sicario e luogotenente (piuttosto pittoresco) al soldo di Anjo, padrino di una gang di yakuza. Kakihara ha, tra le altre stranezze, la caratteristica di essere mentalmente disturbato. L’irragionevolezza, anzi la demenza di molte delle sue mosse, rivelano infatti un unico movente: il masochismo, elevato a metodo filosofico oltre che sessuale. “Non c’è amore nella tua brutalità” rimprovera al membro di una gang rivale che lo sta picchiando selvaggiamente. Kakihara, nel corso del film, si lamenta spesso di non trovare nemici all’altezza del suo autolesionismo. Parallelamente, e intrecciata alle bizzarre vicissitudini di Kakihara, seguiamo la storia di Ichi, adolescente timido e problematico dalla personalità pericolosamente scissa. Nonostante l’aspetto dimesso e impacciato, infatti, Ichi è colto spesso da accessi transitori ma incontrollabili di ferocia (a cui si abbandona sempre, peraltro, con un’improbabile tuta da supereroe). Manovrato dal cinico Jiji – uno Shinya Tsukamoto in ottima forma (come sempre) – Ichi rappresenta il contraltare, il negativo di Kakihara: è tanto brutalmente sadico quanto quest’ultimo è masochista.
 

A visione ultimata, un’impressione s’impone immediatamente: la violenza parossistica di Ichi the Killer sembra fare, per l’intera durata del film, da bizzarro surrogato del sesso, tanto più in quanto si presenta accompagnata dalle parafilie più grottesche. In questo trionfo di ferocia e di torture, la crudeltà – di cui sono le donne a essere spesso oggetto – si dispiega come una dichiarazione di impotenza. Disorientati dall’incapacità di stabilire rapporti umani secondo coordinate naturali, i personaggi di Ichi the Killer tentano di compensare l’impoverimento, l’inconsistenza biologica da cui sembrano affetti (somigliano a cartoni animati che hanno assunto una plasticità fragile e provvisoria) in un crescendo di violenza meccanico e disumanizzato, un climax di sangue e morte – tra le frattaglie che non cessano di vorticare per l’intera durata del film – che tenta di mimare pateticamente e miseramente quello dell’orgasmo.

Ichi the Killer, nella sua estrema stranezza e nella sua morbosa inventiva, riesce a individuare – meglio di molti film più “nobili” – la sorgente prima dell’arte. Il rifiuto rabbioso dell’ordine naturale, da cui nel corso della storia ci si è allontanati casualmente o per esigenza imposta, ha condotto a configurazioni artificiali – tra cui quelle artistiche, appunto – in sostituzione delle forme già esistenti, ovvero della vita regolata dagli istinti. Ogni opera riuscita porta in sé il riflesso di questo primitivo assillo, e testimonia eloquentemente la parentela fra gli antichi sacrifici e ogni forma d’arte.

Insomma: tra innesti di falsi ricordi, torture ingegnose, yakuza pervertiti e macellazioni su vasta scala, Ichi the killer presenta un campionario umano tanto eterogeneo quanto strambo. Il film raggiunge la massima potenza espressiva proprio nei passaggi più grotteschi, grazie alla consumata abilità stilistica e alla sapienza inventiva di Miike.


M.L.

CARNIVALE (2005) DI DANIEL KNAUF - Il teatro delle illusioni

Carnivale si è imposta negli ultimi anni come una delle serie tv più interessanti dal punto di vista stilistico; narra le vicende di un circo itinerante guidato da una misteriosa direzione attraverso la magica atmosfera degli Stati Uniti degli anni 30; anni in cui impazzava la magia del jazz, la fabbrica dei sogni di Hollywood insieme alla grande depressione e lo spettro della seconda guerra mondiale. 
 
 
 
La serie inizia con un prologo dal carattere biblico in cui la lotta tra bene e male per il controllo del mondo si impone come tematica centrale dell'intera opera; la struttura narrativa tuttavia appare molto più complessa rispetto ad una visione dualistica della storia in quanto la serie è caratterizzata da  una successione di personaggi secondari ricchi di fascino che sorreggono la struttura narrativa conferendole spessore. 
 
 

Come personaggio guida troviamo l’iconico Michael J. Anderson che tutti ricordano come il nano in Twin Peaks; quando un personaggio ha la forza di entrare nell’immaginario collettivo l’attore diviene un tutt’uno con il suo personaggio. Michael J. Anderson è diventato un'icona dei personaggi che vivono sulla soglia tra realtà e finzione (si pensi alla sua presenza in Mulholland Drive di David Lynch o nella serie cult di Chris Carter X-files); inoltre questo aspetto carica il personaggio di Samson di un valore universale: una sorta di novello Mosè alla guida di uno scalcinato gruppo di freaks (l'immaginario browningiano sconfigge per l'ennesima volta la censura storica). Tornando a Carnivale, l’intero corpus degli episodi è caratterizzato da un atmosfera carica di misticismo di stampo manicheo; aspetto che tuttavia si fonde con l’aria gioiosa di una fiera di paese e dei suoi fenomeni da baraccone (oltre al già citato Freaks di Tod Browning troviamo influenze anche da La fiera delle illusioni di Edmund Goulding del 1947).  
 

 
Un ulteriore elemento è la tematica del viaggio; il travel movie è un sottogenere cinematografico che ha dato vita a numerosi capolavori tra cui Nomadland (Chloè Zaho, 2020) Green Book (Peter Farrely, 2018), Cry Macho (Clint Eastwood, 2021), Interstellar (Christopher Nolan, 2013), Una storia vera (David Lynch, 1999), Sette anni in Tibet (Jean-Jacques Annaud, 1997), Viaggio a Kandahar (Mohsen Makhmalbaf, 2002) e Easy rider (Dennis Hopper, 1969). Carnivale si distacca dalle opere citate in quanto è il viaggio stesso ad essere il centro narrativo della serie; la direzione è il fondamento sulla quale si fonda l’intera opera proprio come, in X-files, la ricerca degli alieni e di Samantha Mulder resterà il fulcro narrativo della serie.  
 
Carnivale rappresenta un mondo carico di misticismo capace di privare l’essere umano della propria autodeterminazione; è, inoltre, una delle serie tv migliori degli ultimi anni e merita di essere posta all’attenzione di un pubblico sempre più vasto.
 
Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram
 
Claudio Suriani Filmmaker















domenica 11 dicembre 2022

BITTERSWEET RAINBOW - di Luca Bertossi

 

Bittersweet Rainbow è il nuovo lavoro del giovane regista friuliano Luca Bertossi; formatosi nel cinema di genere con opere che vanno dallo slasher di That Thing in the Darkness, al dramma di La Confessione e Il Dono fino alle tematiche post-apocalittiche di Lost Notes (consultabili gratuitamente sul canale YouTube della casa di produzione Deep Mind Film Factory) con Bittersweet Rainbow affronta per la prima volta il cinema romantico all'interno della comunità LGBT. 

  

Il film racconta le vicende di Niccolò che, dopo la tragica morte del padre e del suo compagno, parte per diversi anni allo scopo (forse) di elaborare i propri lutti e trovare la forza interiore di dichiarare la propria omosessualità. Bertossi in quest'ultimo lavoro conferma le doti già riscontrate in precedenza: sa come mettere in scena un film facendo fruttare al meglio le poche risorse di una produzione crowdfunding. Bittersweet Rainbow è caratterizzato da una messa in scena efficacemente lineare: appare chiaro che manchino i mezzi per sviluppare ulteriormente la forza visiva dell'opera (attraverso un carrello, un dolly ecc..); Bertossi riesce tuttavia a seguire le vicende del protagonista con un occhio discreto e sensibile sfruttando appieno le risorte a disposizione.

Bittersweet Rainbow è caratterizzato, inoltre, da un ritmo narrativo che ben si adatta all'animo riflessivo del protagonista utilizzando il meccanismo del flashback in modo attento ed efficace; tuttavia, nonostante risulti essere un lavoro ben costruito vendibile sul mercato italiano presenta elementi di riflessione: il più evidente è il repentino cambio di registro rispetto ai lavori precedenti.

Le opere finora realizzate erano contraddistinte da un'ottima costruzione della tensione (in particolare nel cortometraggio slasher Una serata tranquilla, presentato al FiPiLi Horror Festival 2019); affrontare tematiche così diverse tra loro spesso può risultare un azzardo correndo il rischio di non riuscire ad esprimere in pieno il proprio talento. Questo è un aspetto di assoluto rilievo se pensiamo ad un film come La congiura degli innocenti (Alfred Hitchcock, 1955); nonostante sia una commedia Hitchcock riuscì a dargli il suo taglio realizzando il capolavoro del genere commedia nera.

Il mio consiglio è di lavorare attentamene sulla propria idea di cinema in modo da poter esprimere la propria impronta stilistica riconoscibile anche all'interno di opere eterogenee.

 Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 
Claudio Suriani Filmmaker



sabato 10 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - QUELLE DUE (1961) DI WILLIAM WYLER - L'amore nell'America di Joseph Mc.Carthy

 
 


Il Maccartismo fu un movimento politico-amministrativo che influenzò profondamente la cultura americana in tutti i suoi aspetti più significativi: l'industria hollywoodiana non poté esimersi da tale caccia alle streghe in quanto la società statunitense era sottomessa alla realizzazione di una cultura di stato improntata sulla fedeltà alla bandiera e alla venuta meno dello spirito critico della popolazione. In questo spirito reazionario nasce The Children's Hour (Quelle due, di William Wyler, 1961); uno dei primi film d'amore hollywoodiani a sfondo lesbico.
 
Dopo il grande successo di Ben Hur Wyler realizza un film a basso budget incentrato sul legame affettivo tra Karen (Audrey Hepburn) e Martha (Shirley MacLaine) amiche fin dall'infanzia. Un giorno vengono accusate di avere una relazione omosessuale; per questo saranno emarginate dell'intera comunità portandole verso un tragico finale.
 
Oltre alla meravigliosa interpretazione delle protagoniste (conoscendo le attrici non potevano esserci dubbi)  un ulteriore punto di forza è la scrittura capace di superare l'ombra del maccartismo a favore di una profonda riflessione sull'animo tormentato delle protagoniste.
 
Wyler dimostra come si possano superare le ombre di uno dei periodi storici più oscurantisti del  XX secolo (definito da Eleanor Roosevelt È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto) attraverso una scrittura, allo stesso tempo, sobria e intensa.
  
Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram
 
Claudio Suriani Filmmaker


PILLOLE DI CINEMA - STRANGE CIRCUS (2005) DI SION SONO - Il circo degli orrori


 
 
Le dinamiche familiari sono state affrontate dal cinema orientale in diverse modalità: dalla perfezione formale di Viaggio a Tokyo (Yasujiro Ozu, 1953) fino alla violenza estetica di Visitor Q (Takashi Miike, 2001, direttamente ispirato al film Teorema - Pier Paolo Pasolini, 1968). Strange Circus (Sion Sono, 2005) rappresenta il perfetto punto d'unione tra queste due anime espressive: siamo di fronte ad un'opera oscura e disturbante caratterizzata non solo dall'immaginario cinematografico J-Horror (che annovera tra le sue fila registi del calibro di Takashi Shimizu, Hideo Nakata, Kiyoshi Kurosawa e Kōji Shiraishi) ma anche da una perfezione stilistica del già citato Yasujiro Ozu o del contemporaneo Hirokazu Kore'da.
 
Nonostante Strange Circus riesca a rappresentare a pieno queste due anime del cinema giapponese non vuol dire che sia privo di difetti; il più evidente è l'eccessivo indugiare di Siono su determinate dinamiche voyeuristiche riscontrabili in alcune parti dell'opera. 
 
Siono, tuttavia, riesce a portare a casa una delle opere più importanti del cinema giapponese contemporaneo trovando nell'estetica del  Grand Guignol uno del suoi aspetti più significativi. 

Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram
 
Claudio Suriani Filmmaker





venerdì 9 dicembre 2022

PILLOLE DI CINEMA - LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI (1968) DI GEROGE A. ROMERO - I capolavori del cinema zombie


 
 
Il cinema horror è sempre stato considerato dalla critica un sotto-genere di consumo; nonostante sia stato dimostrato quanto ciò sia erroneo da un punto di vista storico (si pensi all'intero movimento espressionista) e al lavoro di autori dalla forte componente orrorifica (si pensi a David Lynch, David Cronemberg o Shin'ya Tsukamoto per citare i più importanti), ancora oggi capolavori come La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968) faticano a ritagliarsi un posto nell'Olimpo dei film più importanti della storia del cinema.
 
Nonostante il film sia stato analizzato da diversi punti di vista (in promo luogo la critica feroce di Romero alla società americana e alla sua politica razziale nei confronti degli afroamericani) raramente è stato messo in luce la capacità di Romero di intuire la natura ultima del periodo storico in cui il film è stato prodotto: il 1968 e il suo movimento di protesta contro la guerra in Vietnam e la cultura borghese.
 
La notte dei morti viventi è uno dei film più rappresentativi degli anni 60 aprendosi anche ad una lettura generale sull'immagine cinematografica: nella sua intangibile presenza sia apre ad una natura profondamente perturbante alla pari dell'immagine fantasmatica e allucinatoria (Pre approfondimento consiglio Cinema e psicanalisi di Cristian Metz).
 
Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram
 
Claudio Suriani Filmmaker

I SAW THE DEVIL (2010) DI KIM JI-WOON - Il giorno in cui vidi il diavolo.


 

Quanto un regista punta sul puro sensazionalismo senza curare la scrittura e la caratterizzazione psicologica dei personaggi ecco che nascono opere come I saw the devil (Kim Jee-woon, 2010). Il film parla delle gesta del serial killer Kyung-chul; un giorno, uccidendo la compagna dell’agente dei servizi segreti Soo-hyun, scatenerà in quest'ultimo una vendetta lunga e dolorosa.

 

Il revenge-movie è un sotto-genere cinematografico che annovera tra le sue fila opere di stampo underground (come Thriller: A Cruel Picture di Bo Anre Vibenius - 1974), opere mainstream dalla natura controversa (come Irreversible di Gaspar Noè – 2002) e nomi illustri della storia del cinema (come Ingmar Bergman con il suo La fontana della vergine – 1960). I saw the devil presenta diversi aspetti che lo allontanano dalle opere citate: il primo è il suo essere estremamente prolisso. Due ore e ventiquattro minuti per una storia di vendetta sono oggettivamente troppe soprattutto se il fulcro del film risulta privo di sottotesti meritevoli di essere approfonditi.  

 

Il secondo aspetto è che i personaggi principali attorno ai quali ruota l’intera vicenda hanno una caratterizzazione psicologica troppo debole da poter sostenere una vicenda così complessa e dolorosa.

L’intero film ruota intorno alla cruda violenza di entrambi i personaggi messa i scena con un ottimo montaggio e un ritmo accattivante ma che ad un occhio esperto e navigato non può bastare.

Sono assenti domande del tipo: Soo-hyun saprà elaborare il lutto della compagna? E se non ci riuscirà che deriva prenderà la sua vita? Mentre per quanto riguarda Kyung-chul cosa lo ha trasformato in un così atroce assassino? (in Il silenzio degli innocenti le turbe psichiche a sfondo sessuale dell’assassino sono delineate in maniera del tutto convincente).  

 

I saw the devil fallisce in quello che poteva essere il suo punto di forza: la rappresentazione del trauma inelaborato che conduce due persone così lontane tra loro verso orizzonti comuni; inoltre la scrittura di un film si basa non sull'idea di partenza ma sul suo sviluppo in particolar modo per un sottogenere cinematografico sviluppato negli anni attraverso numerose chiavi interpretative. Se in questa fase non si scava nella natura profonda dei personaggi e in una reale evoluzione delle vicende una messa in scena accattivante risulta come pura forma priva di sostanza. 

 Se l'articolo ti è piaciuto iscriviti al nostro blog e seguici su Facebook e Instagram

 
Claudio Suriani Filmmaker


 

 


ISCRIVITI AL NOSTRO BLOG (CLICCA SU SEGUI) - Resterete aggiornati sulle prossime pubblicazioni.

I NOSTRI ARTICOLI

THE SUBSTANCE (2024) DI CORALIE FARGEAT. Un Freaks Show non convincente

       Continua l’indagine sulla mutazione dei corpi. Da Crimes of the Future (David Cronenberg, 2022) e il precedente Titane (Julia Duc...