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martedì 28 febbraio 2023

MERCOLEDI' (2022) DI TIM BURTON - MERCOLEDI' NON E' QUI

Mi sono approcciato alla serie Mercoledì (produzione Netflix Original di Tim Burton, quale delle due anime vincerà alla fine?) con profondo sospetto in quanto la natura ipercommerciale della multinazionale americana influisce il più delle volte sulla qualità finale delle opere impedendo agli autori di sviluppare liberamente la propria estetica (con rarissime eccezioni come Roma - Alfonso Cuarón, 2018).

 

Per indagare il personaggio di Mercoledì Addams è necessario tornare gli albori di un universo molto più complesso rispetto alla narrazione che non nasce, come comunemente si crede, con la storica sitcom del 1964: in realtà i personaggi furono creati da Charles Chas Addams con le vignette pubblicate sul New Yorker alla fine degli anni 30. Erano prototipi capaci di aprire una breccia su un mondo lontano al tempo stesso dai classici dell’horror e dalla stucchevole commedia americana. 

 
 


Sorvolando sulle opere di animazione (del 2019 e del 2021 in cui si ripropone questa visione anestetizzata della paura) è con il film del 1991 che l’universo Addams arriva a un pieno compimento caricandosi di una profonda natura orrorifica del tutto parallela al lato comico che mai viene meno (nulla supera la gioia di fulminare un fratello sulla sedia elettrica o di una madre che insegna a usare il macete a una figlia piccola) per sfociare persino nella sequenza splatter più divertente della storia del cinema (la recita scolastica).

Il film di Barry Sonnenfeld riesce a fondere le due anime dell’universo Addams ed è qui che nasce la prima domanda: Mercoledì riesce a esprimere al meglio questo potenziale creativo? La mia risposta è no.



 

Paura e divertimento … ma non solo.

 

Charles Addams descrive con queste parole il personaggio di Mercoledì: è una bambina piena di tristezza, è esangue e delicata, con i capelli corvini e l'incarnato pallido della madre. Suscettibile e piuttosto tranquilla, ama le scampagnate e le gite alle caverne sotterranee che Morticia e Gomez organizzano spesso. È una bambina seria, compassata nel vestire e, nel complesso, un po' smarrita.

Se la Mercoledì interpretata da Christina Ricci conservava un’originaria austerità, Jenna Ortega carica il personaggio di una sottile ma evidente sensualità (evidente nella sequenza del ballo) allontanandosi dalle caratteristiche del personaggio originario.

La Mercoledì di Tim Burton è del tutto priva di quello smarrimento esistenziale di cui parla Chas Addams diventando la catalizzatrice e il punto focale attorno al quale ruotano le vicende.


 

Da un punto di vista narrativo Mercoledì ripropone il punto morto delle opere monografiche su singoli personaggi: esattamente come per Joker (Todd Phillips, 2019) notiamo come sia impossibile estraniare un personaggio dal contesto generale di riferimento. Se nel film di Todd Phillips il personaggio di Batman alimenta il sottotesto dell’opera in modo significativo, le vicende di Mercoledì sono alimentate dall’eterno ritorno in casa Addams.

I personaggi delle opere di fantasia (fumetti, film o serie televisive) sono inscindibili dal proprio ambiente di riferimento: se Dylan Dog sarà per sempre uno dei simboli di Londra, Divine (Harris Glenn Milstead) il simbolo della cultura drag-queen americana , Mercoledì è al tempo stesso, un personaggio carico di una forza rivoluzionaria e di una profonda malinconia con tendenze sadiche … aspetti che, nella serie di Tim Burton mancano quasi del tutto.

Mercoledì è una serie televisiva piacevole se si è a conoscenza delle varie sfumature dell’universo
Addams e, di conseguenza, si riesce a contestualizzare le scelte registiche, in caso contrario è 
un opera che rischia di allontanare gli spettatori (specialmente i più giovani) dalla gioiosa
cattiveria della nostra amata famiglia e, in un periodo storico saturo di politically correct,
porta con sé il rischio di un’ulteriore omologazione agli stereotipi di una produzione audiovisiva
non certo esaltante.
 
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martedì 14 febbraio 2023

THE NORTHMAN (2022) DI ROBERT EGGERS - LE ORIGINI DEL REVENGE-MOVIE

 La storia della letteratura ci ha consegnato le vicende di Amleto come un’opera originale, quindi ben pochi sanno che il drammaturgo inglese scrisse la sua opera più famosa ispirandosi direttamente allo scrittore danese Saxo Grammaticus e alla sua antologica Gesta Danorum, opera fondamentale della letteratura nordica e di notevole  ispirazione per la drammaturgia che ne seguì.

The northman nasce da questo oblio storico. Nel nuovo film di Robert Eggers la cultura nordica si impone in maniera decisiva come a voler riaffermare la vera natura delle vicende di Amleto inteso come topos narrativo e, in seguito, del genere revenge movie. Robert Eggers, dopo un esordio più che convincente come The witch e il capolavoro espressionista The Lighthouse, approda al cinema epico in cui lo schema della vendetta si fonde attraverso la mitologia vichinga. La trama è la seguente: D.C. E Hrafnset, figlio del re Aurvandil, assiste all’omicidio del padre da parte di suo fratello Fjölnir; l’intero film è basato sul desiderio di Hrafnset di vendicare la morte del padre e salvare la madre dalla violenza dello zio. La struttura narrativa è basata sul culto di Odino (come il rituale dei cani che vogliono diventare uomini) e dal culto della fisicità vichinga in cui la brutalità delle sequenze di lotta e il rapporto tra riti di ascensa all’età adulta del protagonista creano un racconto filmico affascinante e carico di pathos.  

 


The northman abbandona l’approccio espressionista di The Lighthouse a favore di un cinema narrativo sulla falsa riga di The Witch, ma sembra calcare la mano su un senso di virilità vichinga che, alla lunga, risulta essere ridondante e strizzare l’occhio agli amanti del cinema epico blockbuster come Il signore degli anelli (Peter Jackson, 2001), La bussola d’oro (Chris Weitz , 2007) o Le Crociate (Ridley Scott, 2005)  perdendo la natura autoriale ben delineata nelle sue prime due opere. Questa caratteristica può non essere considerata un difetto strutturale ma di certo risulta essere un profondo cambio di prospettiva. Eggers per la prima volta guarda al grande pubblico costruendo un’opera lineare priva di sottotesti e l’aver avuto a disposizione un budget incredibilmente più alto rispetto al passato (che oscillava tra i 75 e i 90 milioni di dollari) gli ha permesso di costruire un impianto visivo efficace ma non caratterizzante.

 


La struttura narrativa del film è lineare e riconoscibile, può sembrare un passo indietro nel lavoro di un autore che si stava imponendo nel panorama del cinema mondiale come un punto di incontro tra W. Herzog, Lars Von Trier e l’intero universo del folk horror.  The northman Eggers  invece a mio avviso si apre in modo magistrale a un sottogenere come il revenge-movie che ha dato vita a capolavori del cinema d’autore e del cinema d’exploitation e come La fontana della vergine ( Ingmar Bergman, 1960), Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971), Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave) (1978) di Meir Zarchi, L'angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), Mr. Vendetta (Park Chan-Wook, 2002). Il mio consiglio è di vedere l’intera filmografia dell’autore americano per poterne apprezzare la duttilità e la capacità di aprirsi a diverse tipologie narrative sempre con ottimi risultati. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

lunedì 13 febbraio 2023

ULTIMA NOTTE A SOHO (2021) DI EDGAR WRIGHT - LEGAME TRA SOGNO E REALTA'


In Ultima notte a Soho
(2021) Edgar Wright lavora sull’universo sixties mirando  a far riemergere l’anima di un decennio che tanto ha dato alla cultura giovanile attraverso scelte di messa in scena e tematiche tipiche del cinema classico americano.   
Ultima notte a Soho è un’opera costruita sul rapporto tra sogno e realtà, caratteristica non solo dell’immagine filmica in sé ma anche di molte pellicole classiche e contemporanee, L’arte del sogno (Michel Gondry, 2016), Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999), Inception (Christofer Nolan, 2010), Io ti Salverò (Alfred Hitchcock, 1945) Sogni (Akira Kurosawa, 1990) e molte altre. Nonostante la dimensione onirica faccia parte dell’intima natura del cinema, Edgar Wright la inserisce in un contesto più ampio arrivando a toccare il cinema di Bob Fosse e il suo amore per il musical. L’Inghilterra degli anni 60 era un paese in cui la tradizione musicale  e i  movimenti giovanili erano tali da influenzare ancora oggi la cultura pop contemporanea - dalla beat generation, il movimento mod, i Teddy Boys fino al british-rock, con un impatto su ogni forma di comunicazione come l’editoria e la moda intese come mezzo espressivo e di appartenenza. In Ultima notte a Soho il concetto di moda è inserito in una rappresentazione del sogno efficace ma  non innovativa; possiamo cogliere il gusto per l’estetica retrò non solo a livello tematico ma anche nelle scelte formali: la fotografia gioca sullo scontro tra una realtà cupa e opprimente (dai colori scuri e decadenti) a una dimensione onirica caratterizzata dai colori vivi e spettacolari che tendono  a sparire quando il sogno si trasforma in incubo. 

 

Le inquadrature e i movimenti di macchina rimandano a un immaginario horror-thriller di stampo classico influenzato da opere come La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1945), Vertigine (Otto Preminger, 1944) o Repulsione (Roman Polanski, 1965). Questo eccesso nostalgico mette in secondo piano una delle tematiche che potevano essere sviluppate in modo personale: la rappresentazione del quartiere di Soho e della sua storia. Ultima notte a Soho è un’opera che cerca di nascondere attraverso una messa in scena spettacolare non solo una proposta tematica ormai datata che ha rappresentato le basi per gran parte del cinema americano (autoriale e di genere) del secondo dopo guerra, ma pone allo spettatore un contrasto evidente tra forma e sostanza, contrasto che tende a ripresentarsi spesso negli ultimi anni specialmente nel cinema mainstream.

 

La mia conclusione è che se lo spettatore si rapporta a questo film come opera di puro intrattenimento riesce ad esserne coinvolto, ma se Wright mira a un posto di rilevo nel panorama cinematografico contemporaneo fallisce nel suo scopo: l’eccessiva nostalgia per la cultura sixties rende il film incapace di aprire nuove strade espressive oltre a manifestare limiti evidenti nella delineazione dei personaggi e nel distacco da un universo cinematografico ormai del tutto storicizzato.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

domenica 12 febbraio 2023

NEWS FROM HOME (1977) DI CHANTAL AKERMAN - DALLE STRADE DI NEW YORK CITY






News from Home è una delle opere più significatine del New American Cinema…lunghe lettere che la madre della regista le spedì quando la Akermann si trovava a New York per i suoi studi di cinema.

News from home è un perfetto esempio di ciò che Gilles Deleuze definì immagine-tempo. Il suo racconto appare sdoppiato in due dimensioni temporali simultanee, rappresentazione etnografica della città di New York. Se il cinema vive durante la sua rappresentazione, il presente dell’opera appare saturo di un passato indeterminato di eventi narrati dalla voce fuori campo. Questa struttura narrativa spezza la costruzione cronologica del tempo a favore di un’immagine in cui il passato si manifesta in una forma indeterminata in quanto non conosciamo la posizione degli eventi nella linea temporale. Tale procedimento analitico si differenzia dal flashback in quanto instaura nel presente tracce di un passato ben riconoscibile e cronologicamente posizionato (si prenda come esempio la struttura narrativa di Quarto potere di Orson Wells).

 

Nel film della Hakerman invece le dimensioni temporali di passato e presente appaiono del tutto fuse in una temporalità indeterminata e ciò comporta un profondo senso di inquietudine per la difficoltà di immedesimazione dello spettatore e dell’assenza dei protagonisti narrati per tutta la durata dell’opera. In questa proposta analitica l’immagine di New York City diventa centrale perché viene privata della sua peculiare dimensione comunitaria dando vita a un senso acronologico dell’opera attraverso una rappresentazione in profondità di campo delle ampie strade americane e dalla fotografia dai forti toni scuri. La profondità di campo per G. Deleuze non è legata alla dinamica del movimento ma a quella del tempo in quanto appare come una forma di esplorazione mostrandoci nello stesso fotogramma, ma in due piani diversi, la simultaneità delle strutture temporali e in questo senso risulta essere  immagine tempo diretta.

Il film della Hakerman si distacca dall’immagine-tempo pura di Welles per la natura impersonale del racconto: l’immagine ricordo di Quarto potere in News from home diventa un’indeterminata rappresentazione della città al di fuori della struttura temporale cronologica in cui le tre tipologie di presente teorizzate da Sant’Agostino arrivano a coincidere in quanto il testo delle lettere vive nel dubbio continuo che si arrivi a compimento di un’ azione compiuta creando nello spettatore un sottile ma continuo senso di inquietudine.

 

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Claudio Suriani Filmmaker

venerdì 10 febbraio 2023

LA REGINA DI SCACCHI (2020) DI SCOTT FRANK - INDAGINE SUL CONTROLLO ASSOLUTO

Il panorama delle serie tv netflix original spesso propone titoli che, senza ambire allo status di capolavoro assoluto, si impongono come prodotti seriali di buona qualità gradevoli da vedere: La regina di scacchi ne è un perfetto esempio.

 

 

La trama è la seguente: Elisabeth (Beth) dopo la morte della madre verrà affidata a un collegio femminile; in questo centro scoprirà l’amore per gli scacchi grazie al custode (il signor Shaibel) della struttura e, grazie a ciò, riuscirà a riscattare la propria vita arrivando a vincere il titolo mondiale. Fin dal primo episodio riusciamo ad apprezzare diversi fattori: il primo è la forza di immedesimazione nei personaggi e in particolare nella protagonista in quanto sono ben delineati dal punto di vista psicologico senza arrivare mai a essere pedanti o prolissi. Se analizziamo il personaggio di Beth scopriamo una narrazione che non sfocia mai in situazioni cariche di pathos in cui la regia possa sovrastare il personaggio. Anche nelle vicende più dolorose (come la morte della madre adottiva di Beth) il racconto si sorregge su un equilibrio che ben rappresenta l’animo e la psiche della nostra protagonista.

Beth negli scacchi non trova semplicemente una passione ma il mezzo perfetto per elaborare i propri traumi e relegarli in una condizione di controllo assoluto. Ma accadono eventi in cui il controllo totale sulla propria vita sembra deteriorarsi, notevole incremento di complessità nelle pieghe narrative e quindi nel livello qualitativo dell’intero prodotto.

Negli ultimi episodi Beth ha una profonda crisi esistenziale che la porterà verso una breve deriva alcolista. E’un passaggio decisivo nella storia e ci si rammarica che non sia stato approfondito a dovere.

Le mini serie come La regina di scacchi se da un lato fuggono dal rischio di essere prolisse come può essere accaduto ad alcune antesignane (si pensi ad X-Files ) dall’altro hanno il dovere di delineare in modo efficace tutti gli elementi e le vicende dei protagonisti, specialmente i punti di rottura della narrazione. Se l’intero corpus degli episodi si regge sulla capacità degli scacchi di dare alla protagonista due qualità fondamentali per la sua emancipazione – l’autocontrollo da una parte e l’elaborazione del lutto dall’altra – è pur vero che un punto di rottura nella storia necessita di una descrizione approfondita degli effetti sulla protagonista e sul suo intero mondo: sarebbero bastati un paio di episodi in più per farci vivere a pieno questo passaggio decisivo.

 Se la crisi di Beth è uno dei punti deboli dell’intera storia, la sequenza del suo ritorno nel collegio rappresenta invece un punto di svolta efficace nell’animo della protagonista: scendendo nello scantinato dove giocava a scacchi con il signor Shaibel nota che quest’ultimo aveva conservato tutti gli articoli di giornale delle sue vittorie nei vari tornei nel mondo. In quel momento Beth si apre a un pianto catartico: per la prima volta il suo passato non le torna indietro come un trauma inelaborato (come la morte della madre biologica o l’abbandono del padre in tenera età) ma sotto forma d’amore nei confronti di una delle persone più importanti della sua vita.  Da questo evento liberatorio si dipaneranno nuove trame determinanti per la sua vita che la condurranno verso un finale narrativamente aperto.

 


Nonostante La regina di scacchi non sia un capolavoro in senso stretto in quanto non crea un’idea di narrazione televisiva (a differenza di Heimat o I segreti di Twin Peaks) una volta conclusa lascia la sensazione piacevole di aver visto un’opera di qualità capace di arricchire in modo discreto e pregevole.

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Claudio Suriani Filmmaker

BLACK MIRROR (2011 - 2019) DI CHARLIE BROOKER - IL TEMPO NEL RACCONTO DISTOPICO






Le radici di Black Mirror (da ora BM) dobbiamo andarle a cercare  nella cultura Cyberpunk, universo variegato capace di far emergere le maggiori paure legate all’influenza della tecnicologia nella contemporaneità. BM lavora sul parallelismo tra l’idea di un futuro distopico e la contemporaneità realizzando una dialettica interna tra le tecnologie digitali (dai social media alle nanotecnologie fino alla clonazione) fino alla  messa in scena dei propri dispositivi  (computer, tablet e smartphone).  In BM il concetto di verosimiglianza tra un futuro prossimo saturo di tecnologie tipiche della nostra quotidianità al punto da risultare delle vere e proprie protesi digitali emerge in modo evidente. Gli effetti di un mondo ipertecnologizzato non può non riversarsi sulle vicende politico/sociali arrivando al punto di trasformare il significato etimologico di alcuni termini chiave (si pensi a condividere). La perdita della forza messianica in carico alla tecnologia porta con sé un trauma di carattere storico creando un’inedita semantica di passato (un mondo in cui la tecnologia punta a fondersi con i meccanismi biologici e politico-sociali) e quello di futuro (un mondo ipertecnologizzato, distopico e dai caratteri inquietanti). Questa dialettica pone BM in una zona di confine legando i vari episodi all’idea stessa di memoria storica dei personaggi e delle comunità rappresentate. Le società descritte sono legate all’oggi attraverso un fuoricampo saturo di preoccupazione per gli effetti dello sviluppo tecnologico sulle dinamiche socio-politiche. Nonostante abbiamo visto come il racconto distopico sia animato dalla forza critica dello spettatore chiamandolo ad un ruolo attivo all’interno del testo è importante notare che tale capacità si manifesta nel suo esatto contrario nel momento in cui sono i protagonisti stessi ad assumere un ruolo decisivo per il racconto.  L’esito è che realtà e profilmico sono rispettivamente collegate all’attività critica e al sentimento perturbante (come nel finale dell’episodio Messaggio al primo ministro o come nel film Non lasciarmi di Mark Romanek). Oggi è sotto gli occhi di tutti il controllo capillare sull’individuo messo a disposizione dalle  tecnologie digitali e relativi occhi meccanici (basti pensare alla rilevazione gps dei nostri smartphone o ai logaritmi matematici che indirizzano le nostre attività online). BM nel prendere in carico il rapporto tra soggetto e tecnica manifesta la necessità di superare filoni ormai datati per porre al centro il linguaggio televisivo nell’era digitale e come ulteriore elemento d’indagine il rapporto tra reale e virtuale (basti pensare all’episodio Bandersnatch e alla sua natura interattiva). BM nel creare un ibrido tra fantascienza e contemporaneità costruisce un tempo nel quale possa convivere il plausibile accanto al perturbante verosimile. Se i processi della tecnica hanno sovrastato l’autodeterminazione dei soggetti anche nei processi neurologici di base (ad esempio nella memoria) ecco che la società distopica descritta non sembra, ahinoi, così lontana (si pensi anche all’importanza dei dati telematici e alla guerra commerciale per il loro controllo). BM riesce a stratificare ulteriormente la propria indagine arrivando a immaginare e prospettare tecnologie (come la riproduzione della coscienza dell’episodio Torna da me!). E’questo un ulteriore elemento che permette all’intero corpus degli episodi di ampliare la portata teorica arrivando a profilare l’idea di tecnologie digitali come evento storico nell’accezione di G. Deleuze…l’evento nel suo divenire sfugge alla storia. Il tempo in BM si materializza in opposizione al flusso evolutivo degli eventi narrati puntando alla ricerca dell’eternità come struttura temporale generatrice. Se seguiamo questa tesi, la tecnica non appare più come la tematica centrale dell’opera ma “solo” la chiave per analizzare una rappresentazione del tempo carica di forze traumatiche. Nucleo portante dell’intero corpus a questo punto è il trauma del passato che annulla l’evoluzione stessa della società in quanto il rapporto tra soggetto e il suo avatar digitale è un rapporto di solitudine e mai di scambio creativo capace di far emergere nuove idee o nuove visioni sul mondo. La tecnologia in BM si instaura in modalità diverse ed ognuna di queste è funzionale a delineare un rapporto specifico con il tempo. Considerato nel suo potere coercitivo economico e/o politico il tempo assume le sembianze di “eterno presente” spinto da una forza conservatrice mentre la tecnologia narrata in maniera neutra ne fa emergere un’idea in continuo progresso che ben rappresenta l’evolversi degli eventi storici nel profilmico e nel sottotesto. 

 

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Claudio Suriani Filmmaker

giovedì 9 febbraio 2023

YOU ARE NOT MY MOTHER (2021) DI KATE DOLAN - RACCONTI DI DONNE SULLA SOGLIA

Negli ultimi anni la casa di produzione Irish Film Board sta portando avanti una scena di registi  capaci di raccontare retroscena della cultura irlandese attraverso linguaggi diversi: pellicole che vanno dall’animazione de La canzone del mare (Tomm Moore, 2014), film  a carattere storico come Bloddy Sunday (Paul Greengrass, 2002) e tanti film dell’orrore tra cui questo  You Are not my mother che vede l’esordio alla regia di Kate Dolan.

 

You Are not my mother è il primo lungometraggio della regista irlandese e narra la storia di Char e della sua famiglia focalizzandosi sulla figura della madre e sul suo passaggio dalla depressione alla manifestazione di una natura demoniaca risalente alla tradizione culturale irlandese.

Fin dagli esordi con Cinepeep ho rivolto la mia attenzione al cinema inedito in Italia non solo per una mera azione divulgativa ma anche per affermare ciò che, nel tempo, è diventato un manifesto e una dichiarazione d’intenti:  l’istituzione cinematografica (intesa come sistema economico produttivo) ha un effetto rilevante sull’immaginario dello spettatore in quanto ogni elemento messo in scena è in rapporto diretto sia con la sfera emotiva che con la sua capacità riflessiva… il vero luogo in cui il film lavora. La nascita di movimenti cinematografici sostenuti da produzioni economicamente non rilevanti (non esiste solo Hollywood o Netflix) è sempre stata una delle vie maestre per narrare la vita nei piccoli centri urbani, come  l’esempio italiano del documentario La regina di Casetta (Francesco Fei, 2018 che affronteremo prossimanente su Cinepeep). Torniamo a You Are not my mother: un giorno la madre di Char, vittima di una grave forma depressiva, sparisce per tornare la sera dopo come se nulla fosse successo.

L’elemento da cui partire è la rappresentazione della periferia.

 

Abbiamo già incontrato diverse opere in cui la lontananza dai grandi centri urbani influisce sulla scrittura e sul ritmo della messa in scena come Antlers, Spirito insaziabile (Scott Cooper, 2021),  Gummo (Harmony Korine , 1997) e Lamb (Valdimar Jóhannsson, 2021).

La periferia di Dublino è rappresentata da una fotografia dai colori cupi sulla quale influisce in modo decisivo la luce che, per il cinema nordico, rappresenta da sempre un ibrido tra cinema e vita. L’alternanza radicale tra luce e buio cela una  totale assenza di comunità  e di emancipazione, profilando una dimensione privata delle protagoniste  in cui l’oscurità regna sovrana e detta le regole estetiche delle vicende che andranno delineandosi. Non mi spingerò oltre per ovvi motivi con la sinossi. Nonostante le tematiche non  siano certo innovative, Kate Dolan riesce a costruire una tensione crescente in cui la sfera privata delle protagoniste si carica di una forza espressiva talmente forte che non possiamo fare a meno di notare l’influenza di importanti scuole: La casa e Non aprite quella porta – Sam Raimi e Tobe Hooper); il cinema orientale contemporaneo come Ju-on: Rancore (Takashi Shimizu, 2002) Visitor Q (Takashi Miike, 2001) mentre per il cinema europeo  tale tematica è stata sviluppata prevalentemente  in chiave sociopolitica come Family Life (Ken Loach, 1971) I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965) e il più recente Lazzaro felice (Alice Rohrwacher, 2018). 

 



Un ulteriore elemento di interesse è dato dal fatto che nelle opere contemporanee dalla forte natura perturbante è ricorrente il tema della solitudine: la natura perturbante di You Are Not My Mother nasce dalla tensione nata dalla repressione dei racconti mitologici irlandesi sotto il peso di un cemento anonimo e alienante. You Are Not My Mother vive di una contradizione interna di ordine narrativo che, invece di rendere la pellicola carente, ne accresce la forza espressiva superando il concetto stesso di cinema di genere. Nonostante fin dalla locandina l’opera ci venga presentata come un film horror (quasi a fidelizzare il pubblico di riferimento) i meccanismi interni che la animano non sfociano mai nel puro orrore (come nel cinema di Wes Craven o del nostro Lucio Fulci): il restare sulla soglia tra terrore e orrore permette allo spettatore di vivere una tensione ancora più forte in quanto l’orrore cinematografico è un’immagine storicizzata e del tutto elaborata. You Are Not My Mother lascia ben sperare che Kate Dolan potrà offrirci successive opere di valore.

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Claudio Suriani Filmmaker

     

SPRING BREAKERS (2012) DI HARMONY KORINE - VIVERE SULLA SOGLIA



Spring Breakers è un esempio di come la contrapposizione autorialità/intrattenimento sia spesso inadeguata per comprendere dinamiche estetiche più complesse. L’occhio di un Harmony Korine che per la prima volta si affaccia al grande pubblico dopo una carriera nel cinema indipendente dove fin dal suo esordio Gummo dimostra di sapersi far carico delle profonde contraddizioni che animano la provincia americana attraverso opere tanto affascinanti quanto controverse.  Spring Breakers narra la storia di quattro studentesse universitarie che, non potendosi permettere ciò che gli studenti americani chiamano La vacanza di primavera, rapinano un locale per poi partire all’avventura. Il viaggio è il tema portante del film: il cinema ha affrontato questo topos narrativo da diverse angolazioni: dalla fantascienza di Dune (Denise Villeneuve, 2021) e Interstellar (Christofer Nolan, 2014) l’horror di Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974) e Midsommar; il villaggio dei dannati (Ari Aster, 2019) fino a opere premiate dalla critica come Green Book (Peter Farrelly, 2018) e Nomadland (Chloé Zhao, 2020). Uno degli aspetti più interessanti di Spring Breakers risiede nel fatto che il viaggio tanto desiderato dalle protagoniste coincide con il punto di rottura della loro evoluzione come personaggi. 

Se con il termine esperienza indichiamo l’acquisizione di conoscenze e di prospettive attraverso il contatto diretto con la realtà, in Spring Breakers ciò che doveva rappresentare un’esperienza mistica (per certi versi simile al Woodstock per la beat generation) si concretizza nella perdita della propria capacità di autodeterminazione. La sospensione temporale intesa come intervallo, arriva a relativizzare ogni loro azione. La rapina non è vissuta come un crimine ma come un evento del tutto funzionale al loro percorso di presunta ascesa a un livello di esperienza superiore. In Spring Breakers emerge come il mito della perenne giovinezza e il desiderio di fermare il tempo in una dimensione del tutto transitoria conduca ad uno sterile giovanilismo e alle sue declinazioni negative; è un mito che da sempre si avvale di una presunta superiorità giovanile e di un’incapacità strutturale di fallire nelle proprie imprese  (elemento evidente nelle nostre protagoniste) arrivando ad alimentare persino la deriva fascista del XX secolo. Tuttavia questo principio si è rivelato dannoso anche per gli adulti in quanto la volontà acritica di conservare in modo coatto le prerogative (anche fisiche) del mondo giovanile impedisce la nascita di una reale dialettica interna al contesto in cui si vive (nel nostro caso all’interno dell’opera). L’idea stessa di interrompere il flusso naturale degli eventi (tranne per il personaggio di Cotty interpretata da Rachel Korine) porta le protagoniste verso una vita criminale del tutto priva di quel fascino che spesso il cinema ha dato al mondo della malavita (basti pensare al Gangster movie). Se in Easy Rider il viaggio si infrange contro la violenza della cultura americana white trash, in Spring Breaker l’eterno ritorno dell’uguale si manifesta come un continuo infrangersi contro un mondo in cui si cerca di rincorrere il mito della giovinezza perenne.

Questa chiave interpretativa descrive il personaggio di Alien che rifiuta ogni tipo di responsabilità rincorrendo una vacanza senza fine e che in questo suo vivere sulla soglia diventerà il simbolo di una strutturale mediocrità (esemplare è la sequenza in cui suona al piano una canzone di Britney Spearse). Il concetto di intervallo lavora su una continua alternanza tra flusso narrativo e sospensione degli eventi ed è proprio in questo rapporto che Sprint Breakers esprime uno dei suoi aspetti più interessanti. Nonostante la messa in scena della sequenza finale dal punto di vista visivo sia carica di un innegabile fascino la sua scrittura non è altrettanto efficace in quanto lascia l’opera in una dimensione indefinita.  La mia interpretazione è che Korine abbia voluto conservare elementi caratteristici del suo cinema anche in un’opera rivolta al grande pubblico (non  a caso sono state scelte attrici del mondo Disney come Serena Gomes) operazione a cui è stata data molta più rilevanza di quella che ha in realtà in quanto ogni autore porta sempre con sé il proprio sguardo sul mondo anche in opere molto diverse l’una dall’altra (si pensi a Una storia vera – David Lynch, 1999). La sfida per lo spettatore risiede nel saper distinguere i veri elementi di svolta nell’estetica di un autore dalla sua naturale visione del cinema e del mondo.

 

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Claudio Suriani Filmmaker


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