Spring Breakers è un esempio di come la contrapposizione autorialità/intrattenimento
sia spesso inadeguata per comprendere dinamiche estetiche più complesse. L’occhio
di un Harmony Korine che per la prima volta si affaccia al grande pubblico dopo
una carriera nel cinema indipendente dove fin dal suo esordio Gummo
dimostra di sapersi far carico delle profonde contraddizioni che animano la
provincia americana attraverso opere tanto affascinanti quanto controverse. Spring
Breakers narra la storia di quattro studentesse universitarie che, non
potendosi permettere ciò che gli studenti americani chiamano La vacanza di
primavera, rapinano un locale per poi partire all’avventura. Il viaggio è
il tema portante del film: il cinema ha affrontato questo topos narrativo da
diverse angolazioni: dalla fantascienza di Dune (Denise Villeneuve,
2021) e Interstellar (Christofer Nolan, 2014) l’horror di Non aprite
quella porta (Tobe Hooper, 1974) e Midsommar; il villaggio dei
dannati (Ari Aster, 2019) fino a opere premiate
dalla critica come Green Book (Peter Farrelly, 2018) e Nomadland
(Chloé Zhao, 2020). Uno degli aspetti più interessanti di Spring
Breakers risiede nel fatto che il viaggio tanto desiderato dalle
protagoniste coincide con il punto di rottura della loro evoluzione come personaggi.
Se con il termine esperienza indichiamo l’acquisizione di conoscenze e di
prospettive attraverso il contatto diretto con la realtà, in Spring Breakers
ciò che doveva rappresentare un’esperienza mistica (per certi versi simile
al Woodstock per la beat generation) si concretizza nella perdita della
propria capacità di autodeterminazione. La sospensione temporale intesa come intervallo,
arriva a relativizzare ogni loro azione. La rapina non è vissuta come un
crimine ma come un evento del tutto funzionale al loro percorso di presunta
ascesa a un livello di esperienza superiore. In Spring Breakers emerge come
il mito della perenne giovinezza e il desiderio di fermare il
tempo in una dimensione del tutto transitoria conduca ad uno sterile
giovanilismo e alle sue declinazioni negative; è un mito che da sempre si
avvale di una presunta superiorità giovanile e di un’incapacità strutturale di
fallire nelle proprie imprese (elemento
evidente nelle nostre protagoniste) arrivando ad alimentare persino la deriva
fascista del XX secolo. Tuttavia questo
principio si è rivelato dannoso anche per gli adulti in quanto la volontà acritica di conservare in modo coatto le prerogative (anche fisiche) del mondo
giovanile impedisce la nascita di una reale dialettica interna al
contesto in cui si vive (nel nostro caso all’interno dell’opera). L’idea stessa
di interrompere il flusso naturale degli eventi (tranne per il personaggio di Cotty
interpretata da Rachel Korine) porta le protagoniste verso una vita criminale del
tutto priva di quel fascino che spesso il cinema ha dato al mondo della
malavita (basti pensare al Gangster movie). Se in Easy Rider il viaggio
si infrange contro la violenza della cultura americana white trash, in Spring
Breaker l’eterno ritorno dell’uguale si manifesta come un continuo
infrangersi contro un mondo in cui si cerca di rincorrere il mito della
giovinezza perenne.
Questa chiave interpretativa descrive il personaggio di
Alien che rifiuta ogni tipo di responsabilità rincorrendo una vacanza senza fine
e che in questo suo vivere sulla soglia diventerà il simbolo di una strutturale
mediocrità (esemplare è la sequenza in cui suona al piano una canzone di
Britney Spearse). Il concetto di
intervallo lavora su una continua alternanza tra flusso narrativo e sospensione
degli eventi ed è proprio in questo rapporto che Sprint Breakers esprime uno dei suoi aspetti più interessanti. Nonostante
la messa in scena della sequenza finale dal punto di vista visivo sia carica di
un innegabile fascino la sua scrittura non è altrettanto efficace in quanto
lascia l’opera in una dimensione indefinita. La mia
interpretazione è che Korine abbia voluto conservare elementi caratteristici
del suo cinema anche in un’opera rivolta al grande pubblico (non a caso sono state scelte attrici del mondo
Disney come Serena Gomes) operazione a cui è stata data molta più rilevanza di
quella che ha in realtà in quanto ogni autore porta sempre con sé il proprio
sguardo sul mondo anche in opere molto diverse l’una dall’altra (si pensi a Una
storia vera – David Lynch, 1999). La sfida per lo spettatore risiede nel
saper distinguere i veri elementi di svolta nell’estetica di un autore dalla
sua naturale visione del cinema e del mondo.
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Claudio Suriani Filmmaker
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